Nel grande rumore che si è creato dopo la morte di George Floyd, ucciso da quattro poliziotti a Minneapolis, mi è capitato di intercettare molta indignazione sincera e incredula, figlia soprattutto dell’ignoranza della violenza sistemica della polizia statunitense sulla comunità afroamericana. Ma ho intercettato, anche, commenti orgogliosi sull’Italia e l’Europa contemporanea, a dire di alcuni prive di queste dinamiche perché “meno razziste”. Posto che non esiste una classifica della “quantità” di razzismo nelle singole nazioni, l’idea che si sia privi di pregiudizi razziali è azzardata, basta scorrere la cronaca giornaliera o, se proprio ci si sente mentalmente preparati, i commenti di una qualsiasi notizia che riguardi l’immigrazione, gli sbarchi, l’integrazione. In questo preciso momento storico esce per la prima volta in Italia, per Fazi Editore, La nostra folle, furiosa città di Guy Gunaratne, già vincitore del Dylan Thomas Prize nel 2019 e con una candidatura al Man Booker Prize nel 2018. Quello che Gunaratne sviluppa nel suo esordio letterario sono 48 ore nella vita di tre ragazzi e due adulti della periferia londinese, zona Wembley Park, e le ripercussioni che ha su di loro la radicalizzazione religiosa, la violenza razziale e l’alienazione sociale nell’Europa più vicina a noi e formalmente multirazziale. In questi due giorni, Gunaratne alterna le voci dei singoli, li fa parlare in prima persona con il loro Multicultural London English, quel dialetto intriso di neologismi, slang e prestiti di altre lingue, simbolo della varietà di umanità della periferia.
Londra. Questa città contamina i suoi giovani. Se eri di queste parti lo sapevi eccome. Le nostre facce, tutte, erano pizzicate dal disincanto, persino quelle dei pochi ma buoni con cui avevo cominciato a muovermi. Eravamo tutti nati dalla stessa minaccia, dalla notte dei tempi.
La Londra di questo romanzo è una matrigna cattiva, il centro e le ricche zone residenziali sono lontanissime, qua siamo nella stessa periferia che già Zadie Smith aveva mostrato in Denti Bianchi, nel triangolo Wembley Park, Neasden e Willesden Green pieno di volti di ogni tipo. «Una giovane nazione di meticci», la definisce Gunaratne che in quella zona è nato e cresciuto, tra case popolari, campetti urbani per giocare a calcio, moschee e tempi buddisti. Ci sono «Giamaicani, pezzenti irlandesi, nigeriani, ghanesi, indiani del Sud, bengalesi. Veri figlioli del Commonwealth» a dividersi palazzoni squallidi di cemento e il pollo fritto dei ristoranti take away dei pakistani, «tutti tenuti insieme dalle nostre piccole furie in quest’unica, folle, mostruosa città.» La povertà e la già menzionata alienazione sociale producono in questa Londra, lontana dai riflettori della contemporaneità, il terreno più fertile per la radicalizzazione, l’odio razziale e quello spettro del terrorismo che ha già investito più volte Londra. L’autore parte proprio dalla versione romanzata di un fatto realmente accaduto nel 2013, l’aggressione brutale da parte di due fondamentalisti islamici dell’ex soldato Lee Rigby a Woolwich, South London, morto per vendicare, a loro dire, le uccisioni di fratelli musulmani dell’esercito britannico. Già allora i media avevano fatto il loro sporco lavoro di martellamento visivo, con le immagini del corpo esanime del soldato sull’asfalto e i deliri dei due attentatori, e in un certo senso è stato questo l’inizio del romanzo, come dichiarato più volte dall’autore.
Quando si trattava di prendere le distanze dal mostro, Gunaratne si è preoccupantemente riconosciuto nella lingua dei killer e nel loro aspetto perché erano figli dello stesso ghetto. Il terrorismo era alle porte della sua casa. Per questo il romanzo si apre proprio con l’uccisione di un “soldatino”, come lo chiama Selvon, uno dei protagonisti: origini caraibiche, atletico, citazione esplicita dello scrittore Sam Selvon, esponente luminoso della “post colonial literature” e pioniere dell’uso dell’inglese con influenze creole in letteratura. Selvon è amico di Ardan, bianco, creativo, amante del rap, sempre in giro col suo cane Max, anche alle partire di calcio, unico momento di gloria personale di questi ragazzi. Ed infine Yusuf, figlio del compianto imam della moschea di quartiere, primo spettatore dei fenomeni di radicalizzazione dei suoi fratelli musulmani. Questo trio di ragazzini è testimone delle agitazioni sociali delle 48 ore raccontate da Gunaratne, di come la città «coltiva la furia di un giovane uomo», di più giovani uomini «tutti poveri, tutti sofferenti.» Non c’è una lista precisa di cause sociali ed economiche che demoliscono le speranze e le prospettive dei ragazzi della periferia, ma una grossa entità oscura che inghiotte le loro possibilità perché poveri, perché neri o perché musulmani. La frattura con la società bianca e benestante è insanabile, li tormenta, li relega alla polvere e, nella loro percezione, li corrompe irrimediabilmente, come succede al fratello di Yusuf, Irfan. Selvon, Ardan e Yusuf provano a resistere, così come hanno provato, nei vari flashback, le altre due voci narranti: Caroline e Nelson. Caroline, irlandese di Belfast, figlia della violenza terroristica tanto quanto i killer del “soldatino”, e Nelson, invece, metafora di una generazione intera, la Windrush Generation.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, nel 1948, il governo Britannico invitò uomini e donne del Commonwealth a immigrare sul suolo britannico, devastato dalla guerra e bisognoso di forza lavoro. Il 22 giugno 1948 attraccò a Tilbury Docks, in Essex, la Empire Windrush, per l’appunto, carica di 500 uomini provenienti dalla Giamaica. Questo flusso migratorio fu stoppato improvvisamente all’inizio degli anni ’70: non era più scontato, per un cittadino del Commonwealth, stabilirsi sul suolo britannico. Di tutti coloro che erano entrati regolarmente nel Regno Unito fino ad allora, l’Home Office non tenne traccia, per cui quando nel 2012 con l’“Hostile environment policy” Theresa May, allora Conservative Home Secretary, rese di fatto impossibile per molti immigrati poter lavorare e rimanere in UK, molti membri della Windrush Generation, nonché i figli di quel flusso migratorio, si ritrovarono cacciati dal loro luogo di nascita e di tutta una vita perché privi di documenti. Dopo essersi visti togliere il diritto di vivere e lavorare in Gran Bretagna dopo decenni, il 21 Agosto 2018 a 18 membri della Windrush Generation furono rivolte scuse pubbliche per il trattamento subito. Lo scandalo della Windrush Generation è talmente vivo e bruciante per la società britannica che ne sono stati tratti un racconto investigativo, The Windrush Betrayal, di Amelia Gentleman e un dramma sulla BBC, Sitting in Limbo, andato in onda proprio in questi giorni. È attraverso Nelson che Guy Gunaratne racconta questo pezzo di storia: l’arrivo a Londra di donne e uomini visti solo come forza lavoro, le manifestazioni razziste dei nazionalisti bianchi contro di loro, le violenze e le rivolte, le scritte Keep Britain White sulle porte delle loro case. È uno specchio passato di una violenza ancora reale, negli Stati Uniti come nella vecchia e più pacata Europa, nella Gran Bretagna della Brexit che oggi, come allora, per dirlo con le parole di Nelson, voleva «tenere la Gran Bretagna al riparo da quelli come noi». Gunaratne lo scrive con una furia, una rabbia ancestrale che cresce assieme alla violenza. I capitoli si restringono e si fanno frenetici man mano che si arriva al momento clou di queste 48 ore. C’è fuoco, fumo nero, gente che scappa e vite che la furia della gente in strada calpesta e spezza. Fino a raggiungere un capitolo finale estremamente rarefatto e criptico, che forse solo i ragazzi come Selvon, Ardan e Yusuf potrebbero capire fino in fondo, ma sufficiente per dare al lettore pena e voglia di sapere. Siamo davvero parte di questo mondo violento, incrinato e “odiatore di neri”? La risposta è si.