C’è un documentario in rete, realizzato da Giuseppe Pesce, che si intitola “Tutto il resto è Malacqua”. Questo brevissimo video (meno di 30 minuti) contiene l’unica intervista video di Nicola Pugliese. Il documentario ha un attacco fulminante, lo stesso Pugliese dice che la scintilla per cominciare a scrivere risiedeva nel suo lavoro di cronista per il quale doveva occuparsi quotidianamente di beghe che non lo interessavano minimamente ma che al contempo gli offrivano uno sguardo privilegiato sulle dinamiche sociali della città di Napoli. Unendo questa congiuntura con la sua passione per la letteratura sono nate le sue pagine, poche per la verità, ma tutte memorabili.
Conosciuto per il suo capolavoro Malacqua, Pugliese però, ha dato alle stampe anche una raccolta di racconti, inizialmente per la piccola casa editrice La Compagnia dei Trovatori, e successivamente grazie a Polidoro gli otto racconti de La Nave nera tornano in libreria in una versione aggiornata.
In questi racconti ritroviamo lo spirito che aleggia nel libro che tutti conosciamo di Pugliese. In particolar modo nel primo racconto che dà il titolo alla raccolta sembra di trovare un’appendice portuale di Malacqua. Un evento straordinario scombussola le vite ordinarie, è questa la scintilla che innesca quasi tutte le storie di Nicola Pugliese. La Nave Nera pare navigare a pelo d’acqua, tutti la osservano, ognuno ne dà una sua versione personale.
Lo stile della scrittura è sempre quello proprio del cronista e narratore napoletano, nelle sue pagine si mescolano momenti lirici e passaggi che sembrano usciti dalla cronaca dei quotidiani come il Roma su cui lui ha scritto per diversi anni. Poi i nomi, i personaggi che prendono vita all’interno delle storie di Nicola Pugliese sono sempre chiamati per cognome e nome, come se si stesse sfogliando un verbale redatto da qualche solerte e annoiato appuntato dei carabinieri che raccoglie l’ennesima denuncia. Vicinanza Salvatore, Amatrude Gabriella, Amitrano Alfonso, Monetti Paolo, Andreoli Carlo, Cozzolino Ernesto, Annunziata Osvaldo, Esposito Margherita solo recitarli ad voce alta ci restituisce la sensazione di trovarci di fronte a persone vere, con un volto e un odore, ma soprattutto con una storia da raccontare. Piglio da cronista che registra le voci e gli umori dei vicoli e così facendo nei suoi racconti riesce a fotografare una città che pulsa di vita ma soprattutto di morte.
“L’attesa è soprattutto un’attesa della morte” dice lo stesso Pugliese sempre nell’intervista raccolta da Giuseppe Pesce e in questa frase si riscontra il senso di predestinazione insito in una persona, in un popolo, profondamente legato ad una tradizione fatalista. E di fatalismo sono permeati molti dei racconti della raccolta, basti pensare a Morte a Ferragosto e Agenda 1980.
Leggendo le storie (brevi) di Nicola Pugliese ci troviamo in una Napoli di fine anni ’70 perfettamente ritratta nei suoi vizi e nelle sue perversioni burocratiche. C’è un po’ del realismo magico sudamericano, quello da cui sono nate le pagine più sudaticce di Cortázar o Bolaño, e c’è la lirica sporca di Hemingway. Ripenso al racconto Vino Bianco in cui sembra di rileggere alcuni tratti de Un posto pulito illuminato bene. Personaggi che spesso cercano di sfuggire alla propria solitudine e ai propri pensieri che celano fantasmi. Ma anche la città di Napoli che fa da spalla a molte delle esistenze narrate da Pugliese.
Sono inimitabili le parti in cui il narratore ritorna cronista e riporta le dichiarazioni dei mille gangli della macchina burocratica e dell’apparato statale partenopeo che si affastellano a scaricarsi della responsabilità con frasi fatte che ancora oggi possiamo leggere sui dispacci di agenzia quando succede qualcosa di straordinario. Pagine che per questo non hanno perso un briciolo di freschezza pur essendo perfettamente piantate in un’epoca ben rappresentata da film come Le mani sulla città di Francesco Rosi.
Quando la storia comincia a muoversi sembra che le parole rincorrano i pensieri dell’autore che invece cammina spedito per la sua strada. C’è un flusso di coscienza che scorre impetuoso e la prosa lo rincorre, per questo leggere Nicola Pugliese significa un po’ recitare i pensieri che tutti facciamo parlando con noi stessi, e al contempo significa guardarci attorno, osservare chi ci sta di fronte e un attimo dopo volare con la mente lontano andando per associazioni libere ma mai fuori posto.
Il peccato è pensare che Nicola Pugliese non abbia scritto di più, ma questo probabilmente è anche la sua forza. C’era un passaggio, in chiusura del libro di Daniele del Giudice “Lo stadio di Wimbledon” in cui uno dei personaggi a proposito di Bobi Bazlen diceva “però l’opinione più alta dello scrivere ce l’ha quasi sempre chi ha deciso di non farlo. È molto esigente” – e in queste parole ritrovo l’essenza della scrittura di Pugliese. Un profondo rispetto per quello che era la letteratura e la narrativa e la voglia e la necessità di scrivere solo cose che non potevano essere taciute, come per i racconti de La Nave Nera che hanno seguito Malacqua.