La naturalezza del kamasutra di Adèle

Il dibattito su La vita (e le chiappe) di Adèle è diventato furente, più furente di quello che abbiamo già rivisitato sul negazionismo e Odiffredi. Quando un film fa così tanto discutere in genere noi ci tiriamo indietro, stavolta entriamo a fondo nella pellicola di Abdel Kechiche, franco-tunisino che cade letteralmente in amore per l’attrice protagonista, Adèle Exarchopoulos, e inizia a riempirla di primi piani assassini, mentre mangia spaghetti e tira su col naso, in una storia furtiva della bellezza che passa per immagini e scatti di naturalezza e gioventù. Non è un film lesbo-chic, per quanto l’elemento chic sopravviva nella pellicola, è un film che racconta la gioventù francese, con le sue derive, e la lotta di classe e l’incontro tra una Adèle curiosissima eppure poco avezza ai discorsi e sofismi sui quadri di Schiele, e una Léa Seydoux nei panni di un’artista intellettualoide lesbica dai capelli blu. Un set intenso, due protagoniste bellissime, e un tema scottante.

La vita di Adèle è soprattutto quegli 11 minuti del kamasutra lesbo di Adèle: stanno diventando così famosi che per poco non superano la mitologia del burro in Ultimo Tango a Parigi (anche se Bertolucci è un purista delle scene, e Kechiche fa usare delle protesi alle protagoniste). Per chi si fosse chiesto per tutta la vita lo know-how del sesso tra donne, ecco un piccolo manuale visivo in stile film francese: mi limiterò a dire che è stato divertente osservare la reazione del pubblico in sala alla lungaggine di questo carnalissimo incontro tra corpi. Credo che il cuore del successo a Cannes per questo film si racchiuda un po’ in questi brevi e intensi 11 minuti a cui la maggior parte del pubblico ha reagito con un’imbarazzata pruderie: del resto siamo abituati ormai a veder vincere i film che gridano allo scandalo, o quelli impegnati in questioni sociali scottanti. L’elemento due donne che si amano, e l’elemento due donne che scopano per bene, diventano subito mitologici in un film: questo film potrebbe diventare mitologico per la ragazzina che mi era dietro gridando ”che schifo”, lo narrerà a casa, e poi a casa, quando lo vedranno, avranno di che dire anche loro. Certamente è un film che ci ha messo a discutere. Ma alla fine, ci è piaciuto?

Tre ore sono tante, e conquistare e mantenere l’attenzione del pubblico solo attraverso la maestria della regia anche quando manca una trama coinvolgente è dannatamente difficile. Non tutti i film devono avere una trama, questo è certo, per chi è appassionato di cinema francese l’ipotesi non è una novità. Tuttavia personalmente non amo molto se questa trama si riduce al minimus della storia d’amore. La storia d’amore tra Adèle ed Emma è una storia tra le storie, ovvero ha una trama esemplare nella sua semplicità. Questo può risultare pesante, per chi non è appassionato di microcosmi relazionali. Tuttavia, penso che l’iconografia che ne verrà fuori potrebbe rimanere viva in qualche modo, anche se probabilmente non diventerà leggendaria. Chissà perché l’immaginario di ciò che è leggendario sta subendo una lenta agonia: penso a un’inquadratura di Gioventù Bruciata di Nicholas Ray (film che per altro non è neanche così memorabile a guardarlo), o a Casablanca, Il Padrino, Rohmer e Truffaut. Chissà perché non riusciamo più a fissare una mitologia in questa contemporaneità, forse quasi solo a Tarantino riesce. Eppure questo film, in questo senso, le carte in regola le avrebbe: fosse altro che per la regia. Una regia originale, che ci accompagna in primi piani e dettagli, che approfondisce e mette a nudo anche i difetti, fino alla noia totale, che ti fa venir voglia di guardare troppo spesso l’orologio mentre Adèle è a scuola con i bambini, e li fa andare alla lavagna, e li fa addormentare, e gli detta qualcosa, e poi gli insegna a scrivere, ad libitum.

Adèle resta un personaggio naturale, e questo la rende affascinante. Naturali le sue scelte, naturali le sue parole, o la passione viva per la letteratura, o la voglia di andare a letto senza artifici con chi desidera, naturale la sua voglia di tirarsi fuori dallo schema un po’ snob-francese dell’intellettualismo-per-forza: lei si sente quasi in pace in questo mondo corrotto e forzato dall’arte. Le piace leggere perchè le piace leggere. Non ha pretese in questo senso. E trova l’arte contemporanea noiosa, gli artisti vuoti. Probabilmente l’aspetto più interessante del film è proprio questo personaggio così controcorrente, eppure totalmente naturale nell’andar contro. Adèle cucina per una platea di artisti sbruffoni che mangiano chiaccherando amabilmente di Klimt, e la sua unica preoccupazione diventa ‘com’è venuta la pasta’; le propongono di pubblicare libri, come se chi si ritirasse dal grande gioco dell’arte fosse un reietto secondo l’equazione ‘scrivi, dovresti pubblicare’, ma lei rifiuta: la sua vocazione è fare la maestra, senza pretesa di insegnare, ma solo con quella di condividere. Probabilmente un giorno Adèle ci salverà tutti. La troveremo in una piccola cittadina francese, a giocare con dei bambini, avvolta in una mise tutta nera, e ci dirà: ”mi avevate rotto tutti le palle, connards”.

 

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