Il rock è un mestiere duro, un’attitudine hard a vivere in contestazione, basta ascoltare il pezzo che gli Eagles of Death Metal stavano suonando sul palco del Bataclan di Parigi l’altra sera mentre un commando di tre persone entrava in azione nel locale e sparava sul pubblico. Ve la immaginate questa colonna sonora battere furiosa contro le orecchie, una stordente Kiss The Devil mentre intorno a voi sta per compiersi una mattanza senza senso? Io no, la mia fantasia non è mai andata così lontana. A nessun concerto mi è mai capitato di immaginare che un gruppo di fanatici avrebbe potuto fare irruzione da un momento all’altro sparando sulla folla con dei kalashnikov. Sono cose davvero lontane dalla nostra quotidianità, in genere al venerdì sera beviamo qualcosa in giro per le strade, o passiamo la serata in un locale al riparo dalle preoccupazioni di tutti i giorni, proviamo a distrarci, lontanissimi da quelli che sono altri generi di quotidianità.
Che la musica sia un mestiere pericoloso lo sanno già i musicisti underground iraniani, ce lo aveva raccontato Bahman Ghobadi in un documentario, e qualcosa avevamo capito quando nel 2013 sono stati arrestati 5 musicisti in Iran per aver prodotto e distribuito musica alternativa su canali satellitari. Da queste parti l’indie rock è sovversivo. Che la musica sia un mestiere pericoloso lo sa il corpo ammazzato di Ibrahim al-Qashoush, cantante siriano trovato morto con le corde vocali strappate. Che ascoltare musica dal vivo potesse essere pericoloso a Parigi in un venerdì sera di novembre del 2015 non potevamo saperlo neanche con un colpo di perversa fantasia. Che andare allo stadio, al bar, girare per le strade, fosse un mestiere pericoloso ce l’ha rivelato solo il tempo, signore distratto, che mai per tempo ci avvisa. E come potevamo mai cantare, scriveva Quasimodo a proposito dei poeti in tempi di guerra. E come potevamo mai sapere, sospireremo ancora, anche se le avvisaglie le avevamo sotto gli occhi da tempo, e tutto quello che non abbiamo saputo o potuto fare per fermare questo disprezzo torna indietro come un boomerang a seminare notti insonni, amarezze e panico.
Ci vuole un atto di umanità enorme ora per accettare che la musica possa correre il rischio di diventare un mestiere pericoloso, non più solo per la potenza di chitarre e batterie, per le parole che si gridano dal palco, per il messaggio, o per il rischio congenito di esporsi al pubblico in tutta la propria intimità e fragilità, ma per l’ipotesi difficile da accettare che stare sul palco possa significare pure combattere. Che stare sotto un palco possa voler dire fare i conti con il fatalismo della morte, che non è più solo quello legato a una brutta disgrazia. Non siamo pronti alla guerra quaggiù, non ci abbiamo mai proprio pensato, ci coglie impreparati. Le guerre le abbiamo sempre delegate agli altri un po’ codardamente, non è più come nel vecchio mondo, qualunque guerra voi faceste in giro per il globo quaggiù non la avvertivamo.
Le Parisien scrive che per spiegare tutto questo ai bambini non dovremmo esitare a usare la parola ‘guerra’. Ma che cos’è una guerra e come si faccia, non lo sappiamo neanche noi. Siamo bambini anche noi, mai stati militarizzati, abbiamo rinunciato alla leva obbligatoria, tutta la guerra di cui abbiamo esperienza è dentro i libri, le storie, i cinema, e in altre terre che per comodità chiamavamo lontane. Questa disordinata sensazione che ci rende partecipi di un orrore da cui eravamo assenti è semplicemente la paura di qualcosa che è fuori dal nostro controllo e troppo vicino alle nostre vite. Non si tratta più di Bengasi, Tunisi, Homs, Damasco, Beirut, ma è dietro l’angolo.
Ed è un peccato che sprechiamo tempo e parole a infangarci tra noi, a massacrarci come se non fosse già abbastanza tutto il resto, come se vivessimo separati da idee, nazioni, bandiere, colori, come se esistesse una gara delle appartenenze o una rincorsa ai litigi spicci; è un peccato che si tenga a ricordare quanto questo succeda pure a Beirut e Homs solo quando l’attentato arriva a Parigi. Non esiste competizione tra città nella morte e nello strazio degli innocenti, come se il mondo dovesse diventare il palcoscenico di una normalità degli orrori. Siamo tutti coinvolti, quello che è successo ci riguarda. Separati da idee, ma non dalla storia di essere uomini e donne che non hanno intenzione di trasformare la musica in un mestiere pericoloso.
”Ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare”, Charles Baudelaire
Foto copertina: Philippe Wojazer/Reuters