La musica italiana si racconta allo Sziget | Interviste Willie Peyote e Gomma

Quest’anno siamo stati allo Sziget Festival, che ha ospitato alcuni dei protagonisti della musica italiana. Tra un concerto e l’altro abbiamo avuto l’occasione di incontrare Motta, Galeffi, Willie Peyote e i Gomma: ne sono uscite fuori delle piacevoli chiacchierate sulla musica, i festival, lo Sziget, e l’Italia contemporanea.
Qui trovate la seconda parte con le interviste a Willie Peyote e Gomma. Qui invece quelle a Motta e Galeffi.

Foto a cura di Alise Blandini


WILLIE PEYOTE

Abbiamo incontrato Willie Peyote poco prima che si esibisse sull’Europe Stage, il palco dove si esibiscono i migliori artisti emergenti europei. Abbiamo parlato di musica, politica, malessere e Italia.

Iniziamo con una domanda un po’ scontata ma necessaria: cosa si prova a suonare allo Sziget, rappresentando l’Italia allo Europe Stage?

Non ho ancora suonato, per cui non so cosa si prova. È stato strano quando mi hanno detto che avrei suonato allo Sziget, ancora più strano quando mi hanno detto che avrei suonato la sera di Kendrick! Quando mi danno un palco grosso, mi sento responsabilizzato perché devo meritarlo, e sento di dover dimostrare che non passavo di qui casualmente. È tutto bello perché un posto del genere ti trasmette delle belle vibre, la gente è allegra, tutti presi bene, mille lingue diverse, provenienze diverse, c’è la sensazione che non succederà nulla di brutto. È quello che mi piace di questo posto qua, sono tutti venuti per divertirsi e ci divertiremo tutti perché nessuno è venuto per mettere i bastoni fra le ruote agli altri. È un po’ come il mio primo giorno di scuola, voglio vivermela in maniera divertente.

È stato un anno importantissimo per te: Sindrome di Tôret è stato un successo, il primo maggio e ora lo Sziget. Ti aspettavi di arrivare fino a qui e quanto lavoro c’è stato dietro?

Il lavoro è stato tanto e più che decennale, le cose non saltano fuori da sole: se è successo tutto questo è perché ci ho lavorato, anche cambiando la scrittura e tutto il resto. Dopodiché ho sempre cercato di restare coerente con quello che facevo a 15 anni, non ti so dire quanto è stato difficile, perché non avrei saputo fare altro nella vita. Ho fatto ciò che mi veniva, ho cercato di pormi il problema di ciò che avrebbero percepito quelli che stavano sotto il palco o a casa. Ho sempre cercato di dare quello che ho da dare, cresco io e cresce la mia musica, averne 15 di anni o averne 35 succedono cose, si aggiungono una serie di sfumature che ti cambiano. Non mi sono accorto che stava succedendo, così per tutti gli album, come per Sindrome di Tôret, non mi aspettavo che sarebbe stato percepito così, io faccio le robe se poi piacciono non dipende da me.

Willie Peyote – Foto di Alise Blandini

Sei passato da un genere più ostico, il rap hardcore di brani come Glik, Oscar Carogna, ad un genere piú orecchiabile come il funk: ti senti totalmente cambiato o tornerai prima o poi il Peyote delle origini?

Io credo di essere ancora hardcore, solo in un modo diverso. Hardcore come può esserlo un uomo di trent’anni che ragiona di più su quello che dice, rispetto ad un ragazzo di venti per cui o è tutto bianco o è tutto nero: è cambiata solo la mia percezione. Mi sento più responsabilizzato quando parlo di politica, ragion per cui ho alleggerito la mia musica, perché se hai qualcosa da dire è giusto arrivare anche a chi non la pensa come te. Io devo arrivare a quel pubblico lì, la comunicazione funziona se gli altri capiscono, il mio obiettivo è farmi capire da chi non mi ascoltava già prima, se prima ero incazzato ora voglio essere incazzato in maniera costruttiva e renderlo utile. Arrivare da Fazio e fare incazzare Belpietro, per me è un obiettivo raggiunto: se continui a fare il rapper che urla le bestemmie sul palco, Fazio non ti ci chiama sulla Rai, ma è più importante arrivare da Fazio che fare il punk rock, ci ho lavorato perché c’è un obiettivo più alto dietro.

Quindi il messaggio artistico di fatto è un compromesso tra quello che può essere l’espressione originale e ciò che può digerire il pubblico, no?

Ma vez quando parli con le persone è sempre un compromesso. Non è che parli con uno e gli sputi in faccia tutto quello che ti passa per la testa, se vuoi che ti ascoltino devi parlare in un modo comprensibile. Io non mi ritengo schiavo di qualcosa, né ritengo che i compromessi a cui sono sceso e che ho accettato siano svilenti: anzi credo che abbiano arricchito la mia musica di sfumature. In Sindrome di Tôret si passa da Vilipendio – che è un brano esattamente come Oscar Carogna a Metti Che Domani: non c’è neanche una parolaccia e ci ho messo 6 mesi a scriverlo perché l’ho cambiato mille volte. Parla di temi realmente importanti che anche mia nonna può capire; devo fare in modo che mia nonna smetta di guardare la D’Urso, perché è lì che va. Questa gente vota porcaputtana! e sono in tanti. Se oggi abbiamo un governo del genere è colpa del fatto che nessuno parla più alle persone, se non Salvini. Io cerco di fare ciò che la sinistra non riesce più a fare da 30 anni, è questo il punto.

Essendo traversale il tuo messaggio, che pubblico pensi che sia allora quello che ascolta Willie Peyote, e che pubblico pensi ci sia stasera?

All’ultima domanda non ti so rispondere vecchio, perché quanti italiani ci saranno? Io non ho preclusioni, sarebbe supponente scegliere il proprio pubblico. Tu fai una cosa e la rendi pubblica: da quel momento la gente fa quello di cui ha voglia. Per me può venire anche Salvini al mio concerto se se l’accolla, e dopo facciamo anche due chiacchiere volendo: non parto prevenuto nei confronti di nessuno, tolti quelli di Casapound e FN, con tutti gli altri posso parlare. Adesso sono finito nel calderone dell’indie, perché c’è Ottima Scusa nella playlist di Spotify. Sui gruppi chiusi su Facebook, sull’indie italiano, ho degli insider che mi mandano gli screen dove dicono: “troppo comunismo ai concerti di Willie“. Non tutti sanno cosa aspettarsi quando vengono ai miei concerti, ho un pubblico differente anche in diverse zone d’Italia: a volte ci sono cinquantenni, altre volte solo adolescenti; in base a chi ho davanti cerco di dare un taglio diverso al concerto e calibrare il tiro, l’importante è che le cose arrivino. Magari qualcuno ai concerti si trova totalmente a caso, o perché lo trascina la tipa che vuole rimorchiare in quel momento, e a me piace questa cosa. Non voglio un pubblico uguale a me, sennò sto a casa e parlo allo specchio.

Ampliando il discorso un po’ a tutto ciò che c’è nel panorama musicale italiano, tu sicuramente sei uno dei pochi che si è apertamente schierato: cosa pensi degli altri sotto questo aspetto, c’è qualcuno che ammiri personalmente? Credi che in un momento del genere sia necessario che gli artisti “scendano in campo”?

Credo debba scendere in campo solo la gente che se la sente di scendere in campo, un discorso politico fatto da uno che non ha coscienza politica è Fedez. Vorrei che chi prende posizione lo facesse consapevolmente, perché fare la copertina di Rolling Stone e poi condividerla non serve a un cazzo, anzi si fa lo stesso gioco di Salvini. Devi essere consapevole se prendi posizione e non mi interessa che gli altri la prendano o ancora di più che prendano la mia: io faccio il mio. Stimo moltissimi artisti italiani come Frah Quintale, i Coma Cose, li ascolto e fortunatamente condividiamo spesso il palco. Mi piace tutto quello che c’è in Italia oggi, perché è frutto di un fermento reale, che esiste. Ognuno poi declina la sua posizione come meglio crede: io ascoltavo musica schierata come Rage Against The Machine e Gaber – perciò faccio questa roba qua. Se fai bella musica vengo al tuo concerto e mi diverto lo stesso; se poi riesci a farmi pensare è un qualcosa in più, ma questo è solo il mio punto di vista.

Sziget Festival – Foto di Alise Blandini

Quali sono i tuoi obiettivi?

Ecco, io vorrei incentivare un pensiero critico, non imporre il mio, ma fare in modo che la gente si faccia delle domande in più, mostrare un punto di vista diverso, non cambiando necessariamente la loro posizione, ma almeno invitandoli a prendere in considerazione qualcosa di differente. In Italia oggi manca l’empatia, non c’è sensibilità. In questo momento che c’è gente che muore in mare per esempio, ognuno pensa al proprio malessere e disagio: una volta era “mal comune mezzo gaudio”, ora no. Condividiamo anche il malessere: manca la condivisione, è tutto diviso in squadre e fazioni in qualunque ambito. Nella musica fortunatamente non c’è un limite agli obiettivi: non penso di essere uno di quelli che può riempire gli stadi, ma se me lo proponessero perché rifiutare. Cerco sempre di migliorare, oggi sono arrivato allo Sziget, adesso devo alzare l’asticella.

A proposito di malessere, che cosa pensi del nuovo pop, in cui il disagio è un tema ricorrente, insieme allo star male; mentre dall’altro lato c’è la trap che ci dice quanto stanno bene loro. Il tuo essere ibrido musicalmente è un modo per superare questa dicotomia e raccontare qualcosa di diverso?

È sicuramente un modo per superare la narrazione della TV del malessere della De Filippi, per cui ci emozioniamo tutti insieme e stiamo male: è un po’ la versione mainstream di quello che dici tu nell’indie, oppure quel voyeurismo perverso del “vediamo come vivono i ricchi che tanto noi non potremmo mai essere come loro”, ma Berlusconi comunque lo voto perché al suo posto avrei fatto lo stesso. Non invidio i ricchi e ritengo che se sei al pub con gli amici non devi rompergli il cazzo col fatto che stai male: scrivo esattamente come vivo la mia vita. Ho passato dei momenti brutti, ho parlato anche di suicidio, ma domani cerchiamo di alzarci dal letto, di prenderci bene, soprattutto ai concerti. Come dicono I Cani, “nella vostra trasgressione c’è un sacco di conformismo, in tutto quel disagio c’è un sacco di narcisismo“; Tommaso Paradiso che dice di prendere lo Xanax prima di salire sul palco è finto, tutto quel disagio lì è finto. Il malessere, quando c’è, va trattato bene, va rispettato: bisogna rispettare il malessere altrui. Se diventa un cavallo di battaglia non stai facendo nulla per migliorare la condizione dei tuoi coetanei depressi come te, questo è quanto. Se no si finisce come con la storia del Blue Whale…

Un’ultima domanda, lo Sziget è un grande festival che guarda con attenzione verso il nostro paese, forse più di quanto non facciano gli stessi festival italiani. Perché siamo sempre un po’ indietro, perché uno Sziget all’italiana no?

Secondo me in Italia c’è un problema che cerco di affrontare anche nel mio ultimo singolo, L’Effetto Sbagliato, ovvero un tentativo repressivo generale con la burocrazia che non ti aiuta ad organizzare eventi del genere. Ci sono problemi strutturali in Italia. Dopodiché non siamo proprio portati a venderci bene all’estero in contesti come questo: noi veniamo qua, urliamo, disfiamo e quindi non importiamo perché non incentiviamo la gente a venire dall’estero. Ma è anche vero che fino a qualche tempo fa la musica italiana era molto figlia di quello che facevano fuori, quindi se devo ascoltare un rapper che rappa come un americano, mi ascolto un americano. Ora invece facciamo musica molto italiana, più spendibile all’estero. Al punto che Giorgio Poi apre la tournée dei Phoenix in America, chiamano italiani e li tengono in considerazione: un Calcutta è spendibile all’ estero, come all’epoca era spendibile Battisti. La lingua è uno scoglio superabile, perché tu Stromae te lo ascolti e ti piace anche se non è english speaking: la musica fatta bene arriva sempre; se tu fai qualcosa che è anche ascrivibile al contesto culturale da cui provieni è ancora meglio perché riesco a collocarti in un luogo. Fare musica italiana con radici ben affondate nell’italianità, ma attuale, è l’unico modo che abbiamo di venderci all’estero. Io son sicuro che la nuova scuola italiana – piaccia o non piaccia – è spendibile all’estero: non bisogna suonare per gli italiani all’estero (che così siam buoni tutti), ma per un pubblico che magari non comprende tutto. Ma poi – in fondo – nella musica la lingua è così importante? La musica deve trasmettere: io faccio rap e per chi non parla italiano è difficile capirmi, ma poi ci sono la delivery, il flow, altri aspetti che non sono così strettamente collegati alla lingua. Poco fa ascoltavo un rapper slovacco ed era bravo: ha spaccato, mi piaceva. Quand’ero piccolo mica capivo tutto quello che diceva Biggie, andavo poi dopo a leggermi i testi. La musica è un linguaggio universale, ma devi sempre tener presente da dove arrivi, tenere presente la melodia italiana: il Made in Italy vende all’estero. Totò Cutugno è un idolo in Russia e adesso devo farmi problemi io?


GOMMA

I Gomma sono Ilaria, Giovanni, Matteo e Paolo. Vengono dalla provincia di Caserta e suonano principalmente punk, una speranza per il futuro a base di synth che ci si prospetta. Cantano in italiano, li abbiamo sentiti allo Sziget Festival sul piccolo ma accogliente palco del Lightstage, dove ci siamo divertiti un mondo.

Quando e come nasce GOMMA?

[Ilaria] Nasce due anni fa, ci siamo riuniti e facevamo delle cover. Abbiamo deciso di fare pezzi nostri, abbiamo detto proviamoci perché no? Sentivamo tutti robe diverse, non riuscivamo a trovarci realmente da quel punto di vista. In realtà poi questo non si è rivelato negativo per quanto riguardava la scrittura, perché ognuno aveva qualcosa da dire in maniera diversa, per cui alla fine siamo comunque riusciti a trovare un filo conduttore. Il primo pezzo era terribile, una roba senza senso.
[Paolo] Bruttissimo. Somigliava ad un pezzo di Giusi Ferreri.

Quindi odiate Giusi Ferreri?

[Ilaria] Nono, non odiamo nessuno. Era molto acerbo, più di quanto non lo siano quelli usciti dopo. Poi è successo che abbiamo pubblicato un pezzo e ci ha contattato qualche etichetta, finché non siamo usciti con V4V Records. Abbiamo scelto di uscire con loro, abbiamo scritto un disco e… non avevamo scritto nient’altro prima, è stata una cosa molto frettolosa: del tipo ok, dobbiamo scrivere perché siamo già con un’etichetta e abbiamo solo un pezzo: chiudiamoci in saletta. Un disco molto frettoloso, poi è venuto il tour.

Gomma – Foto di Alise Blandini

Nell’epoca del ritorno del Synth Pop, da una parte l’indie e il nuovo pop (dove pare siano scomparse le chitarre), e dall’altra la trap, voi sembrate essere una speranza: dove vi piazzate all’interno di questo panorama?

[Giovanni] Il punto è che quando abbiamo cominciato a suonare non ci aspettavamo di fare quello che abbiamo fatto. Quando ci chiamavano a suonare da qualche parte, ci aspettavamo di essere inseriti in un ambiente punk o hardcore: invece ci siamo trovati in situazioni come festival dove eravamo l’unica band che urlava e sbraitava sul palco.
[Ilaria] O con una chitarra distorta…
[Giovanni] Non è mai stata una scelta nostra, ci esprimiamo come riusciamo a fare. Non saremmo a nostro agio a fare diversamente, qualche festival ci chiama e siamo contenti di farci sentire.

In questo calderone che è l’indie, il pubblico passa dall’ascolto di Cosmo a voi…

[Giovanni] Io sono ancora molto giovane, ho 23 anni: ero e sono ancora molto intollerante. Per me è sempre risultato abbastanza difficile concepire che uno potesse ascoltare certa roba, e poi noi. Poi sono entrato nell’ottica per cui se uno apprezza più cose è più aperto di me. Se nel pubblico c’è qualcuno che ascolta il pop, la trap, il reggae e poi i GOMMA, a me può solo far piacere. Non siamo quel tipo di band che facendo queste cose, vuole un determinato tipo di pubblico, per noi chi arriva a sentirci e ne è felice, è graditissimo.
[Ilaria] Sicuramente c’è stato un fraintendimento: il nostro “ingresso nella musica italiana” ha fatto sì che la gente si aspettasse determinate cose inizialmente. Col tempo si è reso tutto più chiaro. Noi avevamo le idee chiare ma forse non sono state capite.
[Giovanni] Tipo il Movimento 5 Stelle.

Avete detto di avere ascolti diversi e si nota visto le numerose influenze nella vostra musica: dal punk toccate anche il cantautorato. Quali sono gli artisti per capire e apprezzare al meglio un disco dei GOMMA?

[Ilaria] Una volta per tutte vorrei rispondere a questa domanda. Sicuramente dei gruppi che ci accomunano sono i The Van Pelt…
[Giovanni] Non è vero un cazzo! La cosa è questa, dopo aver messo su il gruppo abbiamo dovuto inventarci un’altra serie di ascolti che la gente si aspettava da noi. Quelli reali sono altri.
[Ilaria] Questi sono quelli inventati per loro ma reali per me, nel senso che io realmente mi ascolto i Van Pelt, realmente ascolto gli Shellac e realmente ascolto i Super Elastic Bubble Plastic. Però loro no.
[Giovanni] Diciamo che c’è questo dualismo, per cui io personalmente ho iniziato a suonare perché chiesi a mio padre di portarmi ad un concerto rock e c’erano quella sera i ONE DIMENSIONAL MAN. Per cui tutto quel tipo di roba come Bunuel, Teatro Degli Orrori. Contestualmente quando scriviamo c’è Sfera Ebbasta, c’è Ghali e niente non posso più parlare. Ciao Sfera.
[Ilaria] Sono pochi gli artisti che accomunano tutti e quattro, i Verdena, il Teatro…

Invece per quanto riguarda eventuali collaborazioni?

Abbiamo collaborato con Generic Animal, con Nicola Manzan di Bologna Violenta.
Con Capovilla, nulla?
[Ilaria] Lo abbiamo conosciuto, ci abbiamo suonato insieme, con i One Dimensional Man. Ma per il momento non si pensa ad una collaborazione.
[Giovanni] Il problema è che c’è una lista di persone, tante persone con cui avremmo il sogno di collaborare. Per quanto riguarda me c’è un limite. Ho sempre molta paura di conoscere gli artisti che mi piacciono. Perché la cosa più brutta che può accadere è che ti stiano antipatici. Cerco di tenermene sempre alla larga. La maggior parte delle persone con cui collaboriamo e con cui abbiamo collaborato sono venute per caso, non le abbiamo cercate. Le cose che vai a ricercare sono quelle più forzate.

Voi siete campani, ultimamente la vostra regione sta giocando un ruolo di rilievo all’interno della musica italiana, ci sono realtà molto stimolanti e interessanti. Qual è quella che apprezzate di più?

[Ilaria] Il progetto campano che mi ha colpito di più è stato quello dei Nu Guinea, molto legato alla tradizione. È un progetto validissimo. I Nu Guinea sono stati una sorpresa.

Dopo questo primo disco, l’Ep e il tour siete già al lavoro: avete già iniziato a scrivere o pensare a qualcosa di nuovo?

[Giovanni] Stiamo scrivendo, più che altro per un sentimento di nausea, non riusciamo più a suonare queste canzoni qua e quindi dobbiamo farne delle altre. Vorremmo evitare di scrivere un album o altri pezzi, solo perché qualcun altro se lo aspetta da noi. Quando te la prendi con comodo è anche più facile fare qualcosa che ti piace. Visto che gli ultimi due non ci sono piaciuti molto, vorremmo fare qualcosa che ci piaccia almeno per i prossimi sei mesi.

Cosa non è andato?

[Ilaria] Questo è stato un disco acerbo, un po’ immaturo. Personalmente mi rappresenta – chiaro, l’ho scritto io. Ma se mi chiedi se sono soddisfatta ti dico di no, decisamente. Se avessimo avuto anche due mesi in più avremmo potuto rivedere determinate cose e pensare a certe altre. La cosa più importante è che in questo anno abbiamo avuto la possibilità di conoscerci e scoprirci a livello musicale, artistico e di scrittura. Sappiamo meglio come ci piace fare le cose e come non ci piace. Ora abbiamo le idee molto più chiare rispetto a due anni fa.
[Paolo] A me piace Sottovuoto ma non c’è nel disco per cui…
[Giovanni] Quando fai un disco c’è il tuo obiettivo personale e l’obiettivo concreto: il riscontro di pubblico non sempre coincidono. Toska nel nostro piccolo ha avuto un riscontro molto positivo, quindi nel prossimo cerchiamo di floppare, per fare qualcosa di carino.

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