I più giovani non potranno ricordarlo.
Neanche io posso ricordarlo ma c’è stato un momento negli anni 80, in particolare il 1983, in cui una casa farmaceutica “sconsigliò” a un artista di aggiungere il nome di un suo prodotto in una canzone.
Parliamo della Citrosodina che in un brano di Sergio Caputo aveva trovato spazio non solo come parte del testo, ma addirittura come titolo del brano.
Fa davvero simpatia pensare che ci fu un’immediata preoccupazione da parte della Bayer quando seppe che un loro prodotto, la Citrosodina appunto, era parte del testo di una canzone senza che venisse aggiunta la fatidica formulazione “è un medicinale, leggere attentamente le avvertenze e le modalità d’uso”. Sergio Caputo cambiò il testo della canzone, sostituendo la “Citrosodina granulare” con l’inesistente “idrofobina vegetale” (e facendo schizzare alle stelle i prezzi dei vinili nella versione originale). Fa simpatia soprattutto se pensate che ora migliaia di ragazzi sono pronti a cantare in coro canzoni sulla Tachipirina senza accennare minimamente agli effetti collaterali di un medicinale che personalmente può farmi svenire sudando come un maratoneta.
Qualcosa è cambiato.
Ma cosa?
Non tanto e non solo la legge è diventata meno rigida, più permissiva.
C’è stato un cambiamento radicale nel mondo degli ascoltatori e il mercato musicale si è adeguato.
Non è solo l’azienda farmaceutica che è diventata meno preoccupata degli effetti dei propri medicinali, è che in una società composta da ascoltatori stravaganti, “alternativi” fintamente depressi che crogiolano in un dolore che non esiste all’insegna dell’ipocondria, termini come “paracetamolo” e prodotti come “Tachipirina” non sono solo rimedi medicali, sono status symbol in cui è facile per il giovane impertinente identificarsi. Calcutta l’ha capito presto, prima di tanti. Lui e Contessa hanno intercettato la nuova potenzialità identificatrice nascosta nei brand, nelle marche e in quello che si possono portare dietro. L’hanno capito e hanno trasformato il brand in simbolo, il simbolo in identificazione, l’identificazione in successo.
Non è solo l’azienda farmaceutica ad aver cambiato atteggiamento, è anche l’industria musicale che ha capito bene e una volta di più che i suoi ascoltatori sono consumatori prima che ascoltatori.
E se prima l’aspetto consumistico brandizzato era legato tangenzialmente alla musica e ai musicisti (musicisti che diventano testimonial, prodotti signature, indumenti indossati in qualità di sponsor) ora sta ricoprendo un ruolo sempre più centrale fino al punto in cui è diventato l’aspetto consumistico stesso il centro della musica.
Il legame musica-marche si fa sempre più forte e se prima degli anni ’00 era difficile sentire nomi di prodotti e nomi di marche nelle canzoni (a meno che non si volessero rischiare multe e denunce) ora il brand è sempre più presente in tutte le canzoni, fino a rendere inscindibile il rapporto tra musica e pubblicità. Pensate quale scandalo rappresentò, tra l’altro nello stesso anno della Citrosodina di Caputo, Bollicine di Vasco Rossi, la critica agli slogan pubblicitari per eccellenza.
Cambiate le velleità, cambiato il target.
Quanto è difficile identificarsi in un sentimento che può essere tuo o anche no? Non tutti hanno conosciuto l’amore profondo, non tutti sono stati traditi, non tutti hanno provato la noia esistenziale o sono stati in grado di riconoscerla. Tutti i milanesi conoscono però l’AMSA, lo vedono sui fogli di carta attaccati col nastro adesivo su ogni mobile messo in strada per essere ritirato la notte. Ogni fuori sede, ogni giovane lavoratore in cerca di fortuna a Milano ha visto “un divano che c’è fuori da un portone con su scritto per l’AMSA”. A tutti è capitato di bere una Chouffe, di vedere una boutique di Cartier o di Vuitton nelle vie più ricche delle città.
Il brand in senso ampio è finito per diventare parte integrante dei testi delle canzoni italiane degli ultimi tempi per colpire un target preciso sulla base della capacità di acquisto.
La scena “bassa” fatta di “bire” consumate sui gradini delle case, fatta di rapporti di amicizia periferici, ci parla di riferimenti pop di una fascia economica medio-bassa perennemente insoddisfatta, burina, da vita per strada, di Carrera, di Tachipirina appunto, di Lucky Strike, di supermercati Pam.
Alla scena bassa si contrappone quella di fascia alta in cui la marca non è tanto uno status per riconoscersi nello stato attuale quanto lo è per riconoscersi nel modello di vita, nel sogno che si vuole realizzare. Questa è la scena dei trap-boy che parlano di orologi Audemars improponibili per chi non appartiene all’1%, di Dom Pérignon rovesciato per terra, di catene d’oro, ciabatte Chanel.
I musicisti-portale (rubando l’espressione e distorcendola da Mark Fisher) diventano delle porte verso il mondo del consumismo, del brand, ci spingono a identificarci con una marca, in un nome che ti fa pensare: sembra proprio parli di me.
Un sentimento che prima, ma ancora adesso, era richiamato da suggestioni, sentimenti in cui ritrovarsi era più difficile perché ascoltare una canzone di una tipa che ha lasciato il suo ragazzo può essere un mondo molto lontano da quello in cui si vive, magari in quel momento si è sposati, magari si è felicemente single, magari non ce ne frega un cazzo dell’amore. Per quelle canzoni il riconoscimento è una questione di tempismo, trovarsi nel flusso giusto. Ma quale è il momento giusto, il kairos, della Peroni da 66?
Si tratta di una musica che ci si ritrova ad ascoltare proprio perché vicina a quello che siamo in quel preciso momento senza farci scoprire nulla di ciò che non siamo, che non sappiamo. Come aprire un diario che abbiamo scritto noi e stupirci con sorpresa di ritrovarsi dentro.
I brand nella musica servono a questo, un immediato effetto di mimesis senza arricchimento, da cui dobbiamo allontanarci per ritrovarci in una canzone che ci faccia scoprire qualcosa di vero, fuori dalle etichette e dai prezzi.
Il punto estremo del gioco al massacro del marketing che si fa musica è proprio questo: il marketing che si fa letteralmente musica. Le canzoni apparentemente pubblicate come musica ma che si rivelano, poco dopo, delle pubblicità mascherate di shampoo (Baby K e Chiara Ferragni), di offerte telefoniche (Ghali), di scarpe (Anderson Paak per Vans oltreoceano).
Cosa ne sarà della nostra possibilità di dire che i primi dischi erano meno commerciali se queste sono le premesse e le fonti che servono da base per scrivere canzoni?
Sono convinto che ci sia un modo per uscire dal tunnel dell’identificazione facile e sterile che finisce per convertire la musica in uno spot. L’ascolto della musica slegato dal sottofondo musicale può essere uno di questi ma le possibilità che ci offre la tecnologia sono infinite, a noi spetta il compito di non snaturare ciò che nasce per essere bello e sradicato dalle logiche del marketing.