Con la notte di sabato 8 Settembre, dopo 11 intense giornate, si chiude l’edizione numero 75 della Mostra del Cinema di Venezia. La premiazione non riserva grandissime sorprese: ha vinto il favorito, Roma di Alfonso Cuaròn, ma anche La favorita (The Favourite): l’ultimo lavoro di Yorgos Lanthimos. Il primo film in costume del cineasta greco, considerato a pieno titolo tra gli autori più innovativi del panorama contemporaneo, vince il Gran Premio della Giuria – mentre la Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile va a Olivia Colman, che del film è letteralmente il cuore. Se la sua Regina Anna è sempre perfettamente al limite tra verità e assurdo, un altro personaggio storico, realmente esistito, era destinato a conquistare la giuria: Willem Defoe vince infatti la Coppa Volpi come Miglior Attore per il suo Vincent Van Gogh, protagonista di At Eternity’s Gate di Julian Schnabel (pittore e regista newyokese, autore di Basquiat, Prima che sia notte e Lou Reed’s Berlin).
Il Direttore Alberto Barbera, presentando la selezione ufficiale della 75esima Mostra del Cinema di Venezia, aveva già sottolineato la presenza significativa di numerosi film di genere. Sono proprio due western a conquistare in modo trasversale stampa, pubblico e giuria: The Sisters Brothers di Jaques Audiard è Leone d’argento per la Miglior Regia, mentre i Fratelli Cohen vincono come Migliore Sceneggiatura per The Ballad Of Buster Scruggs (film a episodi di produzione Netflix, che supera perfino le più alte aspettative e segna una nuova pietra miliare nella loro filmografia). Tutti vincitori annunciati? Anche per questa edizione, la polemica è grande protagonista della Mostra: poco elegante, ma comunque vestita a festa, selvaggia e scatenata prima ancora che il Festival inizi. Nel menù di quest’anno esistono per altro diverse questioni: dalle più autentiche, profonde riflessioni sul cinema del nostro tempo, fino alla bagarre senza senso.
Ma procediamo con ordine. Poco dopo l’annuncio dei film selezionati (centinaia di titoli in anteprima internazionale, suddivisi nelle sezioni: Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Sconfini, senza contare le sezioni parallele, Settimana della Critica e Giornate degli autori) inizia la prima grande polemica. Il Direttore Barbera avrebbe dato poco spazio alle alle autrici donne. In particolare, tra i film in Concorso c’era una sola regista: Jennifer Kent con The Nightingale.
Tra i grandi meriti del movimento #metoo c’è aver denunciato non solo la violenza e la molestia, ma anche quella legge non scritta che è antica come il Cinema: alle donne sono destinati solo certi ruoli, e tra questi difficilmente c’è la regia. Se le grandi star di Hollywood vengono comunque pagate meno dei colleghi maschi, nel caso aspirassero al ruolo di regista (ma anche film-editor o direttore della fotografia) incontreranno una serie infinita di ostacoli. Il sottotesto è chiaro. Parliamo di ruoli che implicano enormi responsabilità: una donna è in grado di imporsi come direttore d’orchestra, dirigere insieme attori e cast tecnico, coordinare decine di professionisti, attraversare complessità e insidie del racconto per immagini e mediare anche con le ragioni dell’industria? A giudicare dall’infimo numero di registe donne, nel presente come sui manuali di Storia, una forma di discriminazione esiste. Discriminazione fondata su pregiudizi sempre più fuori dal tempo. A meno che, nel 2018, non crediamo ancora che la delicata, instabile essenza della natura femminile escluda le capacità per dirigere un film.
Quantomeno, rispetto al passato, la questione ora è oggetto di discussione. Ma nel caso della 75esima Mostra del Cinema di Venezia, la polemica precede i film e il festival: banale, facile e strumentale. Molto più utile a comunicatori e opinionisti che per una concreta riflessione sul cinema. Per chi non aveva tempo o voglia di approfondire, sembrava quasi che Barbera avesse escluso consapevolmente non si sa quali titoli e autrici. Il punto è che questi titoli non ci sono. Non ha senso accusare il selezionatore di un Festival, se pure è il Festival più antico d’Europa. Andrebbero interrogati i diretti responsabili, i rappresentati dell’Industria cinematografica. Detto più banalmente: quelli che ci mettono i soldi. Perché il grande mistero del Cinema era e resta lo stesso: la sua doppia natura di forma d’arte e prodotto industriale. Senza investimenti i film non si fanno, o comunque non troveranno mai una vera distribuzione.
Un esempio su tutti: Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli nel 2017 ha vinto come Miglior Film la sezione Orizzonti. Dopo Venezia, è stato selezionato e applaudito nei più importanti Festival internazionali. In Italia ha trovato una grande distribuzione, era in cartellone nei migliori cinema, fino alle più piccole città? La risposta purtroppo è no. Quanto a Venezia 75, la questione è ancora più complessa. Concorso a parte, nelle altre sezioni c’erano molti altri titoli realizzati da registe donne. Il numero è sempre di una sproporzione drammatica, ma non serve ripetere che accusare Barbera o gli altri selezionatori è un bell’esempio di disonestà intellettuale.
Se scegliamo di essere onesti, la riflessione è più triste (e per molti versi contraria). In alcuni contesti, sembra che alle donne venga concessa una sorta di speciale indulgenza. Con la brutta sensazione che quegli stessi film, firmati da un uomo, non avrebbero mai passato il vaglio. Nessuno che sia davvero determinato a difendere le Pari Opportunità può sostenere un meccanismo del genere (nel cinema come in ogni contesto professionale). La qualità di altri titoli dimostra come nessuna regista necessiti di uno standard diverso, dell’indulgenza che si accorda alla povera categoria disagiata. Come ha affermato Frances Mc Dormard alla notte degli Oscar (dopo aver vinto come Migliore attrice per Tre Manifesti a Ebbing, Missouri di Martin Mc Donagh, presentato proprio a Venezia 2017, dove aveva già vinto per la Migliore Sceneggiatura): alle filmmaker e le autrici donne serve un appuntamento negli uffici dei produttori, perché ascoltino i loro progetti.
Mentre la 75esima Mostra del Cinema di Venezia volge al termine, la polemica cambia decisamente volto. Prima, un piccolo produttore italiano fa irruzione sul red carpet di Suspiria (il film di Luca Guadagnino era tra le anteprime più attese del Festival). Circondato da una corte di complici sorridenti, mostra una maglietta che inneggia all’innocenza di Weinstein. Eviteremo anche di citare il nome: nell’imbarazzo generale, il personaggio ha già vinto i suoi squallidi minuti di celebrità. E se vi state già vergognando di essere italiani, abbiamo appena cominciato.
Nella miseria di un paese in caduta libera, dove “intellettuale” è un insulto e i ministri si affacciano al balcone dei Social, proclamando lo scontro violento come solo linguaggio possibile, la critica cinematografica (o meglio la stampa on-line) sceglie di non essere da meno. Così all’anteprima di The Nightingale, mentre scorrevano i titoli di coda, un giovane critico si è levato urlando “Vergognati, puttana. Fai schifo!” alla volta della regista Jennifer Kent. Non si tratta certo di un caso isolato: l’insidiosa libertà del web, in questi anni ha dato spazio a un’orda di eminenti critici cinematografici, che giustamente hanno scelto di abbandonare l’analisi filmologica e prendere la strada dell’ingiuria. Dimenticate quelle noiose argomentazioni, tutte quelle difficili e meditate osservazioni tecniche: era ora di dare il giusto spazio allo slogan, alla polemica e al giudizio soggettivo, che si erge a celebrazione o condanna.
Fischi, urla e altre amenità nelle storiche sale della Mostra del Cinema di Venezia, non sono che il preludio a migliaia di testi, che per qualche ragione misteriosa chiamiamo comunque “recensioni”. Questo, evidentemente è un articolo on-line. Per questo, non crediamo certo di essere immuni. Venezia è un contesto molto strano: le code per accedere alle proiezioni stampa non solo sono sterminate (1000, anche 2000 persone) ma l’ingresso procede per ordini di priorità. Solo dopo quotidiani e periodici, entrano gli accreditati media-press (celebre anche come accredito giallo). La Mostra del Cinema di Venezia è storicamente più “democratica” del Festival di Cannes, ma il dato è oggettivo: come media-press tutto è più difficile, soprattutto accedere a conferenze stampa e grandi eventi. Colpa dei reazionari, elitari grandi vecchi?
È ora di dire qualcosa di impopolare. Per esempio, che questo è il riflesso di una morte lenta e dolorosa: quella del mestiere di critico cinematografico. Se il web è invaso da questo stesso livello di volgarità e incompetenza, il mestiere muore. Resta al massimo un hobby, un vezzo da bambini. In questo caso non c’è discriminazione né ingiustizia. Per disgrazia, se esiste un pregiudizio su una categoria intera, la colpa è vostra: di tutti quelli che magari non urlano in sala, ma più furbescamente corrono a pubblicare on-line, massacrando il lavoro di decine di persone, senza la minima vera argomentazione.
Diverse sfumature di fischi e “vergognati” sono toccati anche a Luca Guadagnino per Suspiria e soprattutto Florian Henkel Von Donnenrsmarck (il regista de Le vite degli altri) per il suo Opera senza autore. Perfino Capri-Revolution di Mario Martone (che anche senza Leone d’oro vince il Premio Pasinetti Miglior Film 2018, Premio Carlo Lizzani, Premio Siae, Premio Arca Cinema Giovani e Premio Sfera 1932, oltre al Sountrack Stars Award per la colonna sonora di Apparat), è stato accolto con freddezza da parte della stampa on-line. Il dato resta curioso. Se Florian Henkel Von Donnersmarck deve accontentarsi dei fischi, se Guadagnino prende qualche “vergognati” qua e là, alla regista Jennifer Kent tocca comunque un plus, con il tradizionale appellativo di “puttana”. Al presunto critico in questione (anche qui non riveleremo il nome) è stato immediatamente ritirato l’accredito stampa. Le sue pubbliche scuse su Facebook sono esilaranti, e meriterebbero certo un’analisi più approfondita, mentre si appellano alla giovane età, al cinismo e al “pensiero iperbolico” (sic).
Alla consegna dei Leoni, il film di Jennifer Kent vince lo Speciale Premio della Giuria, oltre al Premio Marcello Mastroianni per il Miglior Attore Emergente, assegnato al protagonista Baykali Ganambarr. Per quanto l’horror di Jennifer Kent sia un film quantomeno controverso, e possa essere oggetto di differenti critiche, non risulta che il Presidente Guillermo del Toro né la giuria composta da Sylvia Chang, Trine Dyrholm, Nicole Garcia, Paolo Genovese, Malgorzata Szumowska, Taika Waititi, Christoph Waltz e Naomi Watts abbia improvvisamente deciso di istituire un premio di consolazione, assegnato in base a considerazioni morali. D’altra parte, prima ancora che iniziasse la 75esima Mostra del Cinema di Venezia, parte della stampa aveva già individuato Roma come favorito, insinuando che la grande amicizia che lega i messicani Alfonso Cuaròn e Guillermo del Toro avrebbe inevitabilmente influenzato l’assegnazione del Leone d’Oro. E da oggi, anche la visione più tradizionalista dell’arte cinematografica pretende la sua porzione di luci della ribalta.
Com’era inevitabile, si torna a parlare dell’affaire Netflix. Tutte le produzioni targate Netflix erano state escluse dal Festival di Cannes, che ha scelto di non ammettere film che non prevedano distribuzione in sala. Al contrario, a Venezia Netflix stravince con Roma di Cuaròn, The Ballad of Buster Scruggs dei Fratelli Cohen; senza dimenticare Sulla mia pelle di Alessio Cremonini (il film dedicato agli ultimi 7 giorni di Stefano Cucchi) e The other side of the wind, ultimo film di Orson Welles (girato tra il 1970 e il 1976, affidato oggi al lavoro del montatore Bob Murawski).
Questo il comunicato rilasciato oggi da ANEC (Associazione Nazionale Esercenti Cinema), ACEC (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) e da FICE (la Federazione Italiana dei Cinema d’Essai):
“Nel pieno rispetto delle scelte della giuria presieduta da Guillermo del Toro e senza nulla togliere all’alta qualità del film Roma di Alfonso Cuaròn, vincitore del Leone d’Oro, ANEC, FICE e ACEC ritengono iniquo che il marchio della Biennale sia veicolo di marketing della piattaforma Netflix che con risorse ingenti sta mettendo in difficoltà il sistema delle sale cinematografiche italiane ed europee. Il Leone d’Oro, simbolo della Mostra internazionale d’arte cinematografica da sempre finanziata con risorse pubbliche, è patrimonio degli spettatori italiani: il film che se ne fregia dovrebbe essere alla portata di tutti, nelle sale di prossimità, e non esclusività dei soli abbonati della piattaforma americana.”
Alla fine della 75esima Mostra del Cinema di Venezia possiamo solo dire di aver partecipato a un’edizione straordinaria, capace di attraversare ogni eco del cinema contemporaneo, dalla sperimentazione estrema all’intrattenimento puro. In questa difficile era di transizione, sarà Netflix l’assassino del cinema su grande schermo? Per questa parte della storia, vi aspettiamo con il prossimo capitolo.