Gli Afterhours tornano a Napoli due anni dopo il Tour Teatrale del 2015, ospiti, stavolta, de La Casa della Musica di Fuorigrotta. Un rapporto con la città non sempre perfetto, per ragioni logistiche, di strutture e di pubblico che però è sempre stato caratterizzato da uno zoccolo duro di adepti e da un affetto reciproco fortissimo. Non c’è il soldout di molte date di questo tour ma il pubblico è accorso in massa, complice forse il grande impatto dell’ultimo disco, Folfiri o Folfox, come anche, per il pubblico più giovane, la rinnovata notorietà di Manuel Agnelli dopo l’esperienza come giudice a X Factor. Ed è proprio dal talent show di Sky che si parte grazie a un set acustico affidato ad Andrea Biagioni, uno dei tre concorrenti di Manuel, a dimostrazione che Agnelli continua a credere nel progetto che ha scelto di abbracciare. Biagioni, dal canto suo, fa il suo lavoro, scaldando il pubblico con pezzi suoi e con alcune cover su cui spicca certamente la conclusiva Hallelujah che canta, va detto, senza nessuna esitazione, mostrando un’estensione vocale non comune che lo fa arrivare sulle note alte con incredibile pulizia e precisione. Quando il ragazzo, timido per natura, riuscirà ad affiancare a queste doti vocali e a quelle assolutamente indiscutibili di chitarrista, un approccio più sporco e personale, buttandoci dentro cuore e anima, il percorso appena iniziato potrà ben dirsi avviato verso una carriera promettente.
C’è un momento di buio, poi il palco s’illumina e l’inizio è folgorante: Né pani né pesci e Qualche tipo di grandezza sono uno schiaffo al pubblico. Il suono rude e scabro è un ritorno netto e violento al rock più asciutto e diretto, una delle cifre più forti di Folfiri o Folfox. Se Oggi, ancora dall’ultimo disco, è una breve radura di serenità, due versioni tiratissime di Ballata per la mia piccola iena e La vedova bianca costruiscono senza posa un impressionante muro sonoro che, senza sbavature, è accompagnato da una spaventosa precisione nei suoni. Gli Afterhours sono oggi più che mai una perfetta macchina rock, capace, soprattutto negli ultimi anni, di concedersi, su una nervatura da rock anni novanta, maggiori aperture verso la sperimentazione, nei suoni come negli arrangiamenti. San Miguel, la preghiera/invocazione dei trafficanti di droga e, insieme, omaggio a un amico argentino scomparso, si apre con l’intera band schierata come tante statue di sale a seccarsi immobili al sole del deserto, sotto il cielo limpido e infuocato del Centroamerica. In un tripudio di luci (grazie a un imponente set di led sul palco) cominciano a muoversi le braccia e, come in una nemesi, compare, alle spalle della band, la statua dell’angelo che campeggia sui manifesti del tour e nell’artwork di Folfiri o Folfox. È un’atmosfera che richiama 2666 di Roberto Bolaño, quell’incontro sconvolgente tra violenza e sacralità, quel paesaggio fisico che si fa emblema del paesaggio atroce e desolato del destino umano. Gli Afterhours non sono ragazzini alle prime armi, hanno imparato, negli anni, lo straordinario potere scenico e teatrale che accompagna un live e ne sfruttano appieno tutte le possibilità. Mentre Rodrigo D’Erasmo, sulla destra, disegna note nell’aria col suo violino (solo uno degli innumerevoli strumenti che lo accompagneranno durante la serata) per Manuel è tempo di togliere il giubbino di pelle e lasciare la chitarra elettrica per imbracciare quella acustica per un’intensa versione di Musa di nessuno da I milanesi ammazzano il sabato mentre Xabier Iriondo soffia nella sua tromba con un suono distorto ricco di effetti. Tra D’Erasmo e Iriondo, giusto un passo indietro, in camicia viola e vistosa collana arancio, sbuca Roberto Dell’Era con occhiali da sole di ordinanza e il consueto spettacolo fatto di danze e movimenti esasperati, in costante amplesso seventies con le spesse corde del suo basso e il caloroso pubblico davanti a sé.
Manuel tiene molto a Folfiri o Folfox, senza dubbio il disco più personale della sua lunga e ricca carriera, “un disco – ci dice – dove si trovano energie, cambiamenti, vita e cerchi che si chiudono, unica e inevitabile possibilità per permettere ad altri cerchi di aprirsi”: è arrivato il momento del primo singolo, la ballata romantica Non voglio ritrovare il tuo nome. È bellissimo vedere l’interazione gioiosa tra i musicisti: Manuel è con Pilìa da un lato e più di una volta la bravura di Stefano (che Agnelli, come chitarrista, è costretto a rincorrere) gli strappa qualche sorriso; dall’altra parte del palco Rodrigo, Dell’Era e Xabier danno vita a straordinari momenti di confronto e coesione, mentre dietro i piatti e le pelli, Fabio Rondanini macina tempi dispari, riuscendo a stupire ogni volta per la sua bravura fuori dall’ordinario che l’hanno reso, con un solo disco alle spalle, già motore inarrestabile di questa band (oltre che, va da sé, colonna portante dei Calibro 35 e uno dei più apprezzati sideman in circolazione). Il pubblico intanto canta a squarciagola riconoscendosi in una storia d’amore fatta di speranze e attese tradite nel tempo.
Folfiri o Folfox non è un disco facile. Non lo è musicalmente, certamente, perché oltre a inserirsi nel solco della svolta iniziata con Padania, disco che già guardava, con occhio attento e intelligente, a un suono più ricercato e avanguardistico (e mai gratuito), ha ancora di più allargato l’orizzonte e ispessito maggiormente suoni e atmosfere ma anche, innegabilmente, per il tema trattato, che ruota in maniera forte e coerente intorno alla malattia e alla morte del padre di Manuel. Agnelli lo sottolinea – “c’è anche la morte, la malattia di mio padre” – e un brivido non può non attraversare la schiena del pubblico davanti alla sincerità e all’onestà che c’è dentro il racconto, di se stesso e del proprio dolore, di quest’uomo di cinquant’anni capace di sciogliere la sofferenza, all’interno di un lavoro pop (nell’accezione ovviamente positiva del termine), dentro la bellezza dei testi e delle musiche. È il momento di Ti cambia il sapore, che racconta proprio degli effetti della chemioterapia, con Rodrigo che imbraccia a sua volta la chitarra (in questo momento ce ne sono ben quattro sul palco).
La violenza di Cetuximab diventa quasi una jam tra i musicisti, prima di lasciare tutto lo spazio all’intensa apertura di Grande, con Manuel dietro le tastiere. Un inizio per voce sola e piano con il palco al buio e tutte le luci solo per Manuel, quindi l’accompagnamento di Pilìa prima del rientro della band al completo per sorreggere il crescendo di un brano che è il racconto di un doloroso addio, di promesse che non possono essere mantenute, del baratro dell’assenza. Si alza nuovamente il muro sonoro, è la volta di Costruire per distruggere, proprio da Padania, che vede Iriondo ancora alla tromba, quindi, sempre dallo stesso disco, La tempesta è in arrivo corre veloce come una nuvola che si scaglia con inaudita forza sul palco della Casa della Musica. Non c’è tempesta cui non sopraggiunga la quiete e allora Manuel supera i monitor e si accovaccia con il solo microfono per essere ancora più vicino al pubblico; le luci blu si fanno soffuse mentre Manuel quasi sussurra l’inizio di Noi non faremo niente, presa di coscienza e quasi di rassegnazione davanti non alla malattia ma a un percorso inevitabile che è, dolorosamente, parte della stessa esistenza. Prima di Se io fossi il giudice, Agnelli ci tiene a raccontare come, questo, sia il pezzo manifesto dell’intero disco, con quella sensazione di svegliarsi la mattina e accorgersi, finalmente, che ciò che è intorno, che ciò che si è, va cambiato perché non è ciò che si vuole davvero, non è ciò che davvero si desidera essere, quasi a rimarcare, se mai ce ne fosse bisogno, che Folfiri o Folfox, pur pervaso dal tema della morte, è anche e profondamente un disco di trasformazione e rinascita. La canzone che dà il titolo al disco inizia tra asettiche luci che ricordano quasi quelle di un ospedale, di un corridoio sui cui muri vanno a sbattere speranze e vane attese; Manuel muove le braccia muscolose come dentro a una pièce di Kantor, come una marionetta inerme alla mercé del potere (medico) mentre Xabier colpisce la chitarra con colpi secchi, enfatizzando ogni gesto e alzando il pugno in aria verso il pubblico. Manuel può sedersi dietro al piano dando vita, con un growl impeccabile, a un siparietto grottesco da teatro dell’orrore che sa di Europa d’inizio Novecento: è un momento drammatico e inquietante a un tempo, che oscilla, sghembo, tra il rifiuto della fine e la miseria umana di chi, per il ruolo che occupa, a quel destino non ha certo il diritto di appigliarsi. Fra i non viventi vivremo noi porta sul palco la velocità e la carica del punk degli esordi e Agnelli sembra trasformarsi quasi nella maschera di un predicatore, solo apparentemente, fuori di testa, capace, invece, di usare, con intelligenza, una tagliente ironia ricca di profondità. Il tutto, mentre Rondanini, alle sue spalle, fornisce l’ennesima prova di un controllo impressionante dello strumento. A La giacca di mio padre, uno dei pezzi più diretti e sentiti dell’intero disco, è affidata la chiusura della prima parte del concerto con Manuel ancora al piano e Rodrigo a tormentare con l’archetto il violino costringendolo a raggiungere il registro più alto e più stridente delle quattro corde.
Dopo pochi minuti la band è di nuovo sul palco tra l’entusiasmo del pubblico. Manuel, con l’indice portato alle labbra, intima di fare silenzio, vuole godersi l’urlo che quasi sembra bucare le coperture della tendo struttura per spingersi fino al cielo alle prime, inconfondibili, note di Male di Miele. La verità che ricordavo, che quest’anno compie diciotto anni, vede finalmente Manuel tornare a roteare il microfono nell’aria e, dopo quasi due ore di concerto, impressiona per forza, impatto, slancio ed energia. Xabier Iriondo, colonna irrinunciabile di questa band e della musica alternativa italiana, continua il suo lavoro di fabbro instancabile del suono: sembra quasi di vederlo all’interno di una fucina oscura a plasmare il suono, come a ricavare il ferro da una materia incandescente. Mentre il pubblico istigato da Agnelli, alza e batte le mani, trasformandosi in un’onda, arriva un liberatorio e fortissimo grazie. C’è qualcosa che lega, come un filo invisibile, Manuel Agnelli e il suo pubblico, una sorta di fame, di urgenza, d’istinto animale che si alimenta dell’entusiasmo, della fatica, del sudore.
Tutti gli uomini del Presidente da I milanesi ammazzano il sabato, dà spazio alla vocalità sensuale di Roberto Dell’Era ed è difficile non pensare all’impatto enorme di questa band, di questi sei uomini ciascuno dotato di un ego, di una personalità impressionante capace di riempire una stanza vuota e lo spazio intorno a sé. Gli innesti di Pilìa e Rondanini confermano gli Afterhours come un gruppo capace di rigenerarsi sempre, di scovare tra le trame del mondo musicale italiano nuova linfa creativa. Gli Afterhours sono come il centro di una dimensione musicale, nata alla fine degli anni ottanta, di un modo indipendente di stare dentro la musica, che dopo trent’anni è ancora straordinariamente vivo. Un crocevia di esperienze e stili diversi, di progetti paralleli, di scambi musicali e culturali anche tra approcci artistici variegati che trovano, però, sotto la guida di Agnelli, la loro più ampia, indiscussa e migliore espressione.
Mentre il neon a forma di ragazza su una croce di lampadine sostituisce l’angelo della misericordia sullo sfondo, note orientali s’impastano alle corde delle chitarre. È una canzone che viene da lontano, dall’Uttar Pradesh, da Varanasi, dalle rive del Gange, da un viaggio con Mimì Clementi: è Bye Bye Bombay, tra i vertici assoluti della band e della musica italiana. Il pubblico è in estasi, Agnelli lascia il grido di “Io non tremo” al pubblico, permettendosi di giocare subito dopo con la metrica del testo per poi affidare ancora alla folla il ritornello. La coda è come sempre infuocata come una pira che si allontana sul fiume sacro tra i boati della folla che non è sugli antichi scalini ma sottopalco, viva e pulsante.
La band si ritira ancora una volta per tornare poi per il terzo blocco del concerto. Il violino di Rodrigo disegna note delicate nell’aria e Ophryx diventa, così, quasi un’introduzione a Padania. Le orchidee in copertina (scelte dalla figlia di Manuel, Emma) diventano l’ultima immagine di sfondo mentre Xabier, a braccia conserte, aspetta di riprendere la chitarra. La tranquillità di Padania è scossa dal battito di mani più riconoscibile della musica alternativa italiana, La vedova bianca è un rito pagano cui è impossibile non sottomettersi con ardore con Manuel, prima, e Xabier, in seguito, a dare il ritmo al pubblico. È Iriondo, con la sua chitarra, a superare la linea ideale, alle spalle di Agnelli, che divide il palco in due, andando a suonare insieme a Pilìa (con lui e Roberto Bertacchini nel progetto Immaginisti). Il finale coinvolgente vede tutta la band ferma a battere le mani sul ritmo dato da Rondanini.
Arriva anche il momento dei ringraziamenti, ai tecnici soprattutto, capaci di allestire un palco complesso e di seguire la band in un tour faticoso. Ci sono molti modi riporta la grande sala in una dimensione più crepuscolare e romantica mentre il pubblico canta e si confronta con le proprie viltà e i propri alibi alla ricerca della felicità.
Stavolta sembra davvero essere finita ma il pubblico chiama a gran voce. Con Rodrigo al violino, Manuel duetta con Andrea Biagioni in una cover di State Trooper, dallo Springsteen intimo ai tempi di Nebraska. Quello che non c’è si trasforma in coro da stadio, la band ringrazia ripetutamente mentre una ragazza lancia la sua canotta a un divertito Pilìa a ricordare che, nonostante i tanti proclami, il rock non è ancora morto, ma vive ancora su questo come tanti palchi.
Gli Afterhours consegnano un concerto lungo due ore e mezzo senza passi falsi o momenti deboli con la capacità di portare in tour un disco difficile senza scendere a compromessi da best of (non c’è Dentro Marylin e non se ne sente la mancanza). Un concerto che è quasi un atto di forza, una presa di potere, un colpo di cannone battuto a ricordare che da trent’anni esiste una band ancora capace di far impallidire le nuove generazioni di musicisti spesso troppo ripiegati su se stessi alla ricerca del suono del momento, dimenticando per strada l’importanza fondamentale della struttura e della sostanza, troppo disposti, spesso, a cedere a un motivetto accattivante, a una suggestione sonora o a un fine lavoro di arrangiamento. All’apice della maturità artistica (ma quante volte abbiamo pensato la curva già discendente?) gli Afterhours sembrano, invece, più vivi che mai, con un’unità musicale e soprattutto umana che non si ricorda nella storia della band. Semplicemente, oggi, la miglior live rock band italiana.
(tutte le foto di Serena Mastroserio)
Scaletta:
Prima parte
- Né pani né pesci
- Qualche tipo di grandezza
- Oggi
- Il mio popolo si fa
- Ballata per la mia piccola iena
- La sottile linea bianca
- San Miguel
- Musa di nessuno
- Non voglio ritrovare il tuo nome
- Ti cambia il sapore
- Cetuximab
- Grande
- Costruire per distruggere
- La tempesta è in arrivo
- Noi non faremo niente
- Se io fossi il giudice
- Folfiri o Folfox
- Fra i non viventi vivremo noi
- La giacca di mio padre
Seconda parte
- Male di miele
- La verità che ricordavo
- Tutti gli uomini del Presidente
- Bye bye Bombay
Terza parte
- Ophryx
- Padania
- La vedova bianca
- Ci sono molti modi
Encore
- State Trooper
- Quello che non c’è