Quando siamo nati ci hanno detto che eravamo il futuro, che sarebbe toccato a noi risollevare il paese e toglierlo dal medioevo, che avremmo dovuto portarlo noi, il rinascimento. Ed è stata la prima bugia che involontariamente ci è stata detta. Non c’era la guerra dei nostri nonni e nemmeno le case di famiglia in cui crearne una. Al posto delle fabbriche e dei contratti a tempo indeterminato dei nostri genitori c’era l’università e la flessibilità, perché essere giovani è anche questo, essere flessibili. Forse ci siamo spezzati troppo presto. Non è una questione di crisi economiche, quelle ci sono sempre state qui, solo che se ne aveva meno paura o le si capivano meno, prima. Le nostre competenze ci hanno privato della possibilità di negarle perché, l’altra faccia della medaglia dell’alfabetizzazione, è stata l’impossibilità di nascondere l’evidenza e ci ha lasciato senza scuse. Pieni di lauree e scuole superiori non abbiamo imparato l’unica cosa che ci poteva servire, quella della strada, del disordine e dell’indignazione. Ci siamo limitati a imitare e a piangerci addosso. Per il lavoro che non ci è stato dato, per la rappresentazione di noi che non ci è stata scritta, siamo diventati le copie di chi avremmo dovuto abbattere. Come un manoscritto nel cassetto che viene lasciato a marcire o una canzone che non è ancora stata scritta e non vedrà mai la luce. Eravamo così innamorati del passato da lasciargli il posto di descrivere quello che vivevamo senza mai cercare di comprendere il presente, o di riempire quella pagina che rimaneva bianca perché nessuno aveva alzato la testa. Darci già per sconfitti dalla situazione in cui siamo finiti è stata la seconda bugia, peggiore di quella per cui avremmo dovute cambiarle noi, le cose, sì, ma in televisione, o nei movimenti della gente che di comune aveva solo la rabbia. Che poi tutti dicevano di cambiare, cambiare e basta, come figurine di un album pieno di doppioni, perché si assomigliavano tutti e di cambiamento ce n’era l’aria ma quella stantia, sì, delle nostre cantine dove ci abbandonavamo a piangerci addosso.
Le possibilità. Studia se non vuoi finire operaio. Bugia numero tre. Che non c’è niente di male a farlo, se ce ne fosse però la possibilità, se non avessimo il carico di aspettative della società sulle spalle e potessimo aspirare a qualcosa di più della pensione. C’era chi diceva che eravamo molli e non rischiavamo abbastanza, ed era la verità del boia che ti mette la testa sulla ghigliottina, con una folla di persone troppo assorte nei propri schermi per poter provare qualcosa. Di potenzialità ce n’erano tante e noi non le abbiamo prese, ma era davvero colpa nostra? È una scusa che vale pochi anni, un’etichetta, neet e choosy, fatta per tenere il posto a qualcun altro. Quello dei prossimi, non noi, che ci siamo fidati dei bambini che ci avrebbero dovuto crescere e si sono sorpresi a ritrovarci immaturi e senza coraggio.
Le parole. Ce ne siamo dette sempre troppo poche. Le abbiamo usate male, senza accusare mai nessuno tanto da renderci complici dell’omertà che ci stava uccidendo. Era un bluff, il nostro stare qua a studiare un futuro migliore, che dopo avremmo cambiato lavoro alla prima occasione. Il sogno autarchico di poter fare quello per cui si era portati, rivelatosi per quello che era, un’immagine pubblicitaria per la classe lavorativa degli anni ottanta, per farli continuare a sgobbare in nome del futuro dei propri figli. Adesso quei figli sono grandi e si ritrovano allo stesso punto, forse peggio, perché le aspirazioni, ormai, non ci sono più. Ma non c’è neanche più la Fiat e la campagna è diventata metropoli e anche quei genitori hanno perso il lavoro.
I genitori. Quelli che ci hanno tradito pur mantenendoci troppo, lasciandoci così vuoti. Ma le loro colpe le scontano guardandoci cadere nel baratro che nessuno ha creato. Li abbiamo accusati così tanto che ci siamo dimenticati che toccava a noi prenderci quello che non ci era stato dato. Prendendo spunto da loro per essere migliori e trasformare l’eredità in un capitale da spendere. Nella politica, illusione senza idee, nell’arte, che appare ma non c’è più, e nella comunità, virtuale ma non più per partito preso.
Le responsabilità. Le colpe. Il fallimento. La nostra generazione ha già perso perché non ci ha mai voluto provare a portarlo, il rinascimento. Perché al cambiamento non abbiamo fatto corrispondere un’idea, ma soltanto la rabbia e la pigrizia, ed è un contenitore vuoto. Perché siamo bravi a denunciare la decadenza ma non abbiamo saputo piantare un albero e fissarlo contro il vento. Abbiamo perso e lo sappiamo già e, per questo, non torniamo più indietro ma non ci muoviamo neppure avanti. Erano gli anni migliori e ce li siamo fatti passare davanti, sarebbe stato meglio fermarsi un attimo e ritirarsi, prima che tutto accadesse. Almeno una generazione di codardi avrebbe avuto qualcosa per cui pentirsi. Abbiamo fatto parte del flusso continuo e non abbiamo mai provato a fermarlo. Credendo alle nostre bugie senza mai cercare la verità della diga. Su schieramenti opposti, nel Ticino della nostra crescita, abbiamo preferito immergerci piuttosto che andare contro corrente, lasciandoci buttare dove capitava, senza stringerci le mani e dimostrare di essere più forti dell’acqua. Ci siamo sciolti nel fiume delle nostre paure per poi ritrovarci soltanto a raccontarci le nostre sfortune, o a invidiare quelle degli altri che ce l’avevano fatta a salire sulla grande nave del successo. Lasciandoci in disparte, tutti, a vederli navigare a vele aperte. Noi, silenziosi, con l’acqua salata fra i denti.
Il tempo. C’è ancora tempo per tutti, per coprire le falle e per creare gli ostacoli necessari ad essere di più di quello che ci dicono. A superare le crisi di ogni natura e quelle che non ci meritiamo. Ma il tempo non ci ha mai aspettato come lo facevamo noi, e noi siamo stati troppo fermi alla stessa stazione senza meta.