Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato male.
Diego Armando Maradona
Fabie’. Mica è facile parlare di un film quando il protagonista si chiama proprio come te, quando sullo schermo, nel buio della sala, quel nome viene pronunciato, sussurrato, urlato dentro un’alba bellissima. No, non lo è per niente. Perché anche se questa storia – la sua storia – è ambientata quando ero solo un bambino, a differenza del protagonista adolescente costretto troppo presto a essere grande e con troppo poco tempo per decidere chi vuol diventare, la storia raccontata in È stata la mano di Dio – nelle sale in questi giorni e dal 15 dicembre su Netflix – parla la stessa lingua, abita gli stessi spazi, lascia intravedere gli stessi spettri; quelli che da sempre animano le notti della città più esoterica d’Europa, dove i teschi, la morte, la violenza e la voglia di vivere – che sono la stessa cosa a saperle leggere – e la superstizione, l’antichità e la modernità a un tempo, stanno lì a lasciarti prefigurare un futuro destinato in ogni caso a essere interrotto.
Presentato in concorso alla 78ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, È stata la mano di Dio, nono lungometraggio del regista premio Oscar per La Grande Bellezza, prodotto da Netflix, è di certo il film che più attinge alla sua biografia, non per questo necessariamente il suo più personale, data la possibilità che ogni narratore ha di lasciare lungo il proprio tragitto infinite tracce di sé; cos’è, in fondo, raccontarsi se non il tentativo di permettere agli altri di trovare la strada per accedere alla parte più vera di noi stessi?
Eppure Sorrentino, napoletano classe 1971, mette in guardia lo spettatore fin dall’inizio citando Fellini e il cinema come fuga da una realtà scadente, come sola possibilità di raccontarsi una vita migliore, fasulla e, dunque, artisticamente autentica. Se È stata la mano di Dio vuole essere allora letto in chiave di realismo, può esserlo solo nella sua declinazione magica, del resto quel suo Dio viene dal Sudamerica, né lascia tantomeno dubbi l’incipit del film quando, in una piazza Plebiscito congestionata dal traffico e dalle macchine parcheggiate – ricordo bene una domenica con mio padre e il racconto della storiella che tutti tramandano in città sulle statue dei re del Palazzo Reale – una Luisa Ranieri d’insostenibile bellezza partenopea si lascia irretire da un misterioso San Gennaro (interpretato dall’Enzo De Caro de La Smorfia troisiana) e dal suo autista – che sembrano usciti da Il Maestro e Margherita di Bulgakov – per farsi condurre lungo le scale di un palazzo abbandonato del Centro Storico fino a una grande stanza illuminata da un enorme lampadario caduto sul pavimento, dove sarà complice più che vittima di un gioco incantato che coinvolge la figura del Munaciello, il demone bambino che trafuga piccoli oggetti nella Napoli segreta.
È l’unica scena in cui Sorrentino si concede il lusso o lo sfizio che lo lega alla sua grandeur fotografica e immaginifica, insieme ai titoli di testa che la precedono, sovraimpressi su una Napoli vista dal suo mare, non quello degli approdi dei pendolari delle isole – quelle del suo golfo come delle lontane Eolie, che torneranno – ma quella delle barche dei pescatori della città che fu, oggi patrimonio di turisti e cittadini annoiati che provano a sfuggire al calore delle viscere ammirandone, tra le onde leggere, capo Posillipo, Mergellina e la Riviera di Chiaia, via Partenope, Santa Lucia e il miracolo tufaceo di Castel dell’Ovo.
È, forse, lo sguardo dell’uomo adulto che ritorna, che si avvicina alla sua città e al suo passato sfuggente perché non lì – esposto alla luce azzurrina del vespro – ma nell’infinito labirinto delle strade della città antica fino all’ordine asettico delle strade che portano alla collina del Vomero, lì dove Sorrentino è nato e cresciuto. È stata la mano di Dio è un film d’interni, di stanze arredate mediocremente e finestre su un avvenire tutto da scrivere. Fabietto Schisa – Filippo Scotti, Premio Marcello Mastroianni come migliore attore emergente – è l’alter ego del giovanissimo Paolo, che dà corpo e voce alle insicurezze, alla timidezza di un ragazzo adolescente, figlio di una famiglia piccolo borghese non esente dalle usuali contraddizioni. Un padre con un lavoro in banca, comunista col vizio di sottolinearlo, un appartamento in un condominio del Vomero e una casetta nuova di zecca a Roccaraso, must invernale di una certa Napoli bene.
L’altro must – quello estivo, della costiera amalfitana, dove pure un Toni Servillo, misurato e pacato, all’isolotto Isca, rende omaggio al buen retiro di Eduardo De Filippo – è, invece, il teatro di gite domenicali, dove Sorrentino mette in scena il caravanserraglio – incredibilmente autentico, per sua stessa ammissione – dei personaggi della sua famiglia: il fratello che studia all’università e che sogna di diventare attore, la sorella che sta sempre chiusa in bagno, zia Patrizia – Luisa Ranieri – che porta dentro di sé il dolore di non riuscire ad avere figli e i primi segni della malattia mentale, suo marito Franco – Gianfranco Gallo – debole e violento, lo zio Alfredo – Renato Carpentieri – che, disilluso dalla vita, attende l’avvento del Messia del pallone.
Dentro questo consesso di scherzi e allegria, dove pure si nascondono segreti familiari più che ingombranti, Fabietto non sa cosa fare della sua vita; senza un presente, occupato oltre che dalla famiglia da poco altro – le partitelle nel cortile della scuola privata dei salesiani che frequenta, con indirizzo classico –, immerso in universo bizzarro ed eccessivo, smodato, solo apparentemente felice, questo ragazzo timido, sorridente e spaurito sogna una sola cosa: l’arrivo di Diego Armando Maradona al Napoli nell’estate del 1984.
Amato da chi lo circonda – bellissima la scena della corsa in vespa con il padre e la madre lungo la panoramica via Petrarca – Fabietto osserva con discrezione questo grande teatro familiare. È la cifra di tutta la prima parte del film, una messa in scena quasi teatrale, appunto, di questo piccolo regno familiare, dei luoghi della città – via Roma e la Galleria Umberto, dove il padre va a lavoro ogni mattina, il parco discreto e borghese in via San Domenico – curato da un dolce e “abbonato” portiere interpretato dal sempre bravissimo Lino Musella – tra i vicini trentini da sfottere perché nordici e la baronessa del piano di sopra che pure avrà un ruolo decisivo nella crescita di Fabietto.
Il modello è talmente evidente da essere dichiarato: nel suo ritorno a casa, esattamente vent’anni dopo l’esordio con L’uomo in più, Sorrentino guarda all’Amarcord di Fellini e lo fa senza paura di una rappresentazione iperbolica, eccessiva – non sguaiata, mai – grazie a un team di attori, anche nelle parti minori, che sa esattamente come stare sulla scena senza esagerare, confinati dentro gli spazi domestici di un impianto scenico a metà tra il cinema e il teatro cui pure deve parte della sua formazione.
Siamo ormai al 1986, l’estate dei Mondiali in Messico, dei leggendari quarti di finale allo Stadio Azteca contro l’Inghilterra. E Sorrentino la racconta senza trucchi, senza finzioni, restituendo un’estate napoletana con le televisioni fuori ai balconi, il famoso gol di mano – la mano de Dios – un concentrato di strafottenza, furbizia, sfrontatezza e vendetta contro la repressione dell’imperialismo inglese alle isole Malvinas (Maradona è – è stato – sarà sempre uomo politico) a segnare l’esplosione dell’1-0 e di un popolo diventato tutt’uno con il suo messia rivoluzionario; e poi quel 2-0 realizzato grazie al gol più bello del secolo, uno schermo dentro un salotto vuoto, il riscatto dall’imbroglio, la meraviglia a cancellare ogni possibile disonestà. Sta per iniziare il campionato che darà il primo scudetto al Napoli: Fabietto riceve da suo padre – come regalo di compleanno dentro un autunno difficile che gli mostrerà per la prima volta i segreti della sua famiglia e nella quale assisteremo – inerti – al dolore che gli attraversa il corpo sottile come tutto ciò che ci nascondiamo e non riusciamo a svelarci – l’abbonamento allo Stadio San Paolo, naturalmente in curva B.
È la mano di Dio. È per seguire Diego contro l’Empoli che Fabietto, infatti, non andrà coi genitori a Roccaraso, nella notte che cambierà la sua vita. Esalazioni da monossido di carbonio: è così che sono morti i genitori di Paolo Sorrentino, così che muoiono i genitori di Fabietto, in una notte lontana da Napoli e dai propri figli che corrono in ospedale quando è ormai troppo tardi, lì dove finalmente Fabietto fa esplodere la sua rabbia, un dolore acerbo e disperato, il desiderio, inesaudito, di vederne i corpi un’ultima volta.
Come nella vita, anche il film subisce una cesura. La fine di una vita, l’inizio di un’altra. Fabietto non va più allo stadio, cerca solo di capire cosa farne di questa vita che gli rimane – e sarà tanta, tantissima – a soli diciassette anni. Una vacanza a Stromboli – terra amata dal regista – non dissipa la nebulosa che lo avvolge. Emerge, allora, una Napoli notturna segnata dapprima dall’amicizia con Armando, pacioso contrabbandiere di sigarette che diventa il suo primo e solo amico. tra puntate in una Capri deserta ed esotica e le corse in motorino tra i vicoli dei Quartieri. La Galleria Umberto sul set di un film, il teatro d’avanguardia alla Galleria Toledo per seguire una giovane e poco dotata attrice, fino all’incontro – davvero fondamentale nella vita di Fabietto – con Antonio Capuano in una notte trasfigurata destinata a cambiargli la vita. Dai Quartieri alla Rotonda Diaz fino al Parco Archeologico dei Campi Flegrei in un percorso che lo condurrà fino all’alba in cui esploderà finalmente il suo sogno di fare il regista e di andare a Roma, grazie al confronto duro con un Capuano sopra le righe che lo spinge a cercare, invece, una strada che passi per la città, attraverso il suo invito a “non disunirsi”, a trovare un centro, un punto dentro sé, un perno su cui muovere il suo futuro, la sua esistenza, la sua urgenza espressiva.
Il Napoli vincerà lo scudetto, la città si riempirà d’azzurro, Maradona mentre fa il giro del campo dirà di “aver fatto la cosa più grande della sua vita” – non il Mondiale con la sua Nazionale un anno prima, dunque, ma il titolo qui tra quella gente che lo ha riconosciuto e in cui si è riconosciuto, creando un legame indissolubile – ma ormai Fabietto è sempre più altrove. Lo vedremo, un’ultima volta, sul treno diretto a Roma alla stazione di Formia, dare uno sguardo alla banchina e sorprendersi nell’incrociare lo sguardo di un Munaciello che si scopre il capo, rivelando il volto di un bambino sorridente mentre nelle cuffiette del suo walkman parte Napul’è di Pino Daniele che accompagna i titoli di coda.
E, dunque, cosa resta di questo passato, di questa storia, di questo ritorno? È stata la mano di Dio è un film che segna il debito che Sorrentino ha nei confronti della sua adolescenza e di questa città, debito che prova a estinguere realizzando un’opera debordante e imperfetta che, nelle parole del suo stesso regista, rinuncia all’attenzione spasmodica dello stile per affidarsi alle emozioni. Un film che vuole essere autentico pur confessando la sua inautenticità. Che vuole dire tantissimo e non sempre ci riesce.
Se nel rievocare i giorni felici, Sorrentino si dedica al camuffamento di una storia, la sua, raccontando in fondo di una famiglia che appare come tante altre – e come tante altre, unica perché sua – nella seconda parte lo smarrimento di Fabietto sembra riflettersi nelle dinamiche dietro la camera da presa. Ma è del ragazzo di un tempo, o dell’uomo maturo che Paolo – non Fabietto – è oggi nei suoi cinquant’anni? Nella sua incompiutezza, nella sua difficoltà a raccontare i giorni bui del lutto, Sorrentino tradisce lo stesso smarrimento complesso, quello di una vita salvata da una passione e una scelta – la prima per Maradona, la seconda per Roma e il cinema – attraverso la possibilità concessa dentro i solchi di quel lutto, perché è nel vuoto che quella mancanza ha scavato, dentro quell’abbandono – come suggerirà acutamente il Capuano/Virgilio della sua discesa agli inferi – che possono squarciarsi i margini dell’adolescenza verso una vita diversa che, forse, non sarebbe stata intrapresa se interna a un percorso di normale quotidianità che lo avrebbe, probabilmente, condotto a seguire le orme paterne.
È l’incontro con Antonio Capuano il centro di tutto il film: tutta la storia di Fabio è una linea confusa che conduce a quella notte – tanti anni nella realtà – a quel mentore che, col suo carattere aspro, con la sua esperienza e la sua rude capacità di confronto, gli ha saputo insegnare un mestiere smussandone le ingenuità e le incongruenze adolescenziali. Lo sa bene chi ha visto L’uomo in più che, di là da questioni tecniche, non è certo l’opera prima di un ragazzo né tantomeno di un esordiente, tutt’altro; sarà nei film successivi che Sorrentino, ormai libero da certe paure, si concederà vezzi anche troppo adolescenziali – ma sempre tenuti sotto controllo da una grande capacità registica.
Nell’incontro-scontro davanti al golfo con Capuano si consuma uno dei temi che più riguardano la città di Napoli, quel confronto, quella Storia di chi fugge e di chi resta, per dirla col nome del terzo capitolo della Tetralogia di Elena Ferrante che, almeno dagli anni settanta del Novecento, è sul banco di una discussione infinita.
Se il racconto della sua vita funziona, al punto tale da trasformare la frammentarietà del passaggio di Fabietto all’età adulta nella frammentarietà e nella sospensione del racconto filmico, è nella lettura in filigrana della città di Napoli che È stata la mano di Dio colpisce a vuoto.
Sorrentino sembra vivere un senso di colpa, che non è solo quello naturale del sopravvissuto, ma è quello peculiare di chi sceglie di andare via da Napoli non per un normale percorso di vita – Roma è la città del cinema, cercare la propria fortuna a Roma è gesto di una semplicità estrema – o per la ricerca di opportunità lavorative di più elevato lignaggio che spesso Napoli non sa o non vuole offrire, ma per quella sensazione – che tanti napoletani hanno – che la città – Napoli, prosciughi le energie, come dentro a un incantesimo, quello della sua sirena Partenope cui seppe sfuggire Ulisse ma non i suoi abitanti, piegati dal suo immobilismo, dalla sua immutabile condizione di città eccezionale; una sensazione che conduce all’idea che andarsene sia il solo modo per recidere il cordone ombelicale di una filiazione opprimente, un’extrema ratio per lasciarsi alle spalle le stimmate di una città che evolve ma non rinuncia, mai, alla propria natura – «Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati).» – disse Pier Paolo Pasolini durante le riprese del Decameron in un dialogo con Antonio Ghirelli – «I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili».
Mentre il maestro Capuano è rimasto a Napoli dove – al netto di un’importante filmografia – tutt’ora è docente di Scenografia all’Accademia di Belle Arti, la “fuga” di Sorrentino, quel suo mettere una distanza tra Napoli e la casa di Piazza Vittorio all’Esquilino, appare negli esiti di questo film una ferita non del tutto ricucita, quasi un bisogno di giustificare a se stesso qualcosa che appare alla propria coscienza come un tradimento.
Ed è allora che il suo sguardo su Napoli – sia detto senza mezzi termini – fallisce. Sarebbe certamente facile dire – dentro a un confronto che va avanti da un paio di decenni ormai – che Matteo Garrone, romano, ha saputo cogliere aspetti di questa città che, invece Sorrentino, napoletano, è riuscito a incrociare sulla scala romana (La Grande Bellezza, certo, ma anche The Young Pope) ma non è solo questo. Basterebbe citare il solo Mario Martone per capire che c’è altro. In un percorso del tutto simile – gli inizi a Napoli, il trasferimento a Roma, la casa a Trastevere – Martone ha, infatti, da sempre saputo cogliere l’animo di una città tutt’altro che immobile. Lo ha fatto in quel film splendido che è L’amore molesto, dal romanzo di Elena Ferrante, ambientandolo tra il Vomero e il Rione Luzzatti de L’Amica Geniale (va da sé che Anita Raja e Domenico Starnone – i nomi più quotati dietro la misteriosa scrittrice partenopea – sono, sul fronte letterario, tra coloro che più di altri hanno saputo raccontare oggi tanto di Napoli e dei suoi percorsi interiori) e ancora, in Morte di un matematico napoletano, in Teatro di Guerra, nella Napoli leopardiana de Il Giovane Favoloso, fino all’ultimo lavoro su Scarpetta – Qui rido io – in cui mette in scena la genesi di certa teatralità napoletana. E Martone l’ha saputo fare con così tanta attenzione perché il suo percorso è esente dal peccato capitale della piccola borghesia partenopea, che legge De Giovanni perché la Lila di Ferrante rappresenta – di fatto – tutto ciò che ha sempre osteggiato, il ventre di Napoli cui guardare con distacco se non con disprezzo in una storia che si ripete identica non da anni ma da secoli e che vede la borghesia incapace – per pigrizia, per cattiva volontà, per semplicissimo disordine morale – di farsi traino di una città intera, sia politicamente che – cosa ben più grave – culturalmente (e basterebbe dare un’occhiata rapida ai deprimenti programmi dei teatri collinari).
E l’attitudine quasi aristocratica del cinema e del teatro di Martone – uomo che parla un italiano dal bellissimo accento partenopeo – non può certo essere il motivo di questa distanza perché la stessa apparteneva anche al proletario Massimo Troisi che, a Roma, non ha mai sentito lo scotto di alcun senso di colpa. Le ragioni sono altrove: in quella sensazione non di scelta ma di un’obbligata conseguenza che hanno tutti i napoletani che si sentono feriti a morte.
I say i sto cca’ / e ‘a paura se ne va / e si m’addormo n’terra nun me sceta’
I say i sto cca’ / ogni tanto s’adda fa’ / pe tutto sto burdello ca ce sta
A tradire Sorrentino è proprio quella Napul’è finale, canzone bellissima e malinconica – primo brano di Terra Mia, esordio di Pino Daniele – perché è difficile immaginare canzone più lontana per chi è rimasto. A raccontare quella stagione, a rievocare con pochissime note di armonica quel mondo che teneva insieme – come una Santa Trinità – Diego, Massimo e lo stesso Pino, sarà sempre I say i’sto ccà da Nero a Metà che è il disco della rivendicazione, certamente l’urlo di rabbia di chi è rimasto ma che rappresenta, soprattutto, l’orgoglio dell’appartenenza (quando anche Pino Daniele lascerà la città anche emotivamente – lui che era nato e cresciuto dentro il cuore della Napoli greca – non sarà, a differenza di Sorrentino, capace di produrre più niente di veramente valido).
Tra chi fugge e chi resta – più semplicemente tra chi va via e chi rimane – non esiste una frattura, non esiste alcuna retorica dei migliori che se ne vanno, la stessa retorica che su grande scala si applica ai giovani laureati che cercano fortuna all’estero. Esiste semplicemente questo: la differenza tra chi sente una continuità con questa città e chi la necessità di tagliare – per molti, provvisoriamente – il legame quotidiano.
In questo, la scena all’alba con Capuano – pur bellissima – sembra sovraccaricarsi del bisogno di una giustificazione che, in fondo, nessuno ha chiesto, verso un legame che una strada diversa non ha di certo interrotto ma, forse, indebolito, impedendo all’artista Sorrentino – prima ancora che all’uomo – uno sguardo innocente sulla città.
Quel legame che Maradona, invece, ha d’istinto saputo stringere. Fino a renderlo tangibile addirittura dopo la sua morte. Grazie alla forza del riscatto che prometteva, certo, e il trionfo dei due scudetti, la Coppa Uefa, il rivendicato orgoglio contro lo strapotere – non solo calcistico – del Nord Italia. Ma, allo stesso tempo, con la sua caduta – e sta lì la sua grandezza – col quel confondersi con gli stessi scugnizzi dei vicoli, tradendo forse agli occhi di molti la speranza di un cambiamento. Ma era un Dio, mica facile.