La magia di Terry Riley nella notte senza luna

Quella di venerdì 27 luglio non è stata soltanto la notte della grande eclissi lunare – la più lunga del nuovo secolo – ma è stata anche la notte in cui Napoli ha ospitato per la prima volta – e in esclusiva italiana – una data del minitour europeo di Terry Riley e di suo figlio Gyan. A organizzare l’evento, la Fondazione Morra, da sempre attenta a proporre in città le neo-avanguardie contemporanee. Costituita nel 1992 nel Rione Sanità, la Fondazione Morra – Istituto di Scienze delle Comunicazioni Visive, ha avuto fin dagli esordi lo scopo di promuovere e organizzare la ricerca, la realizzazione e la divulgazione della cultura delle comunicazioni visive. È il 1974 quando Giuseppe Morra, da sempre affascinato dal potenziale eversivo delle avanguardie, crea lo Studio Morra: in quegli anni passeranno per la città artisti del calibro di Hermann Nitsch (dal 2008 il Museo Archivio/Laboratorio Hermann Nitsch fa parte della galassia della Fondazione), Günther Brus, Marina Abramovic e Peter Kubelka. Nei primi anni Ottanta seguono le esposizioni dedicate al gruppo Fluxus, che intende l’arte fuori dalle strutture come opera d’intervento nel presente, nello spazio reale.

A fine 2016 Giuseppe Morra ha inaugurato un nuovo spazio museale, Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea, a Palazzo Ayerbo D’Aragona Cassano, un complesso di 4.200 mq che sarà, nel tempo, gradualmente ristrutturato per ospitare l’ampia collezione Morra, composta da oltre 2000 opere, e realizzare mostre dedicate agli artisti della fondazione e a quelli dell’ultima generazione.

Ed è qui che arriviamo quando la luna è già in eclisse, luna rossa, come vuole una delle canzoni più note del repertorio classico napoletano. C’è un’attesa quasi febbrile in questa notte calda di fine luglio, del resto Terry Riley non è certo un compositore e un musicista come gli altri: è uno dei padri – insieme a La Monte Young, Steve Reich e Philip Glass – del minimalismo americano, l’ultimo grande movimento della musica classica. Un movimento che per sua natura si è spesso aperto alla musica popolare, al jazz, alla musica leggera, a quella più arditamente elettronica in modo particolare proprio nei lavori di Riley che dei quattro è sempre stato il guru psichedelico, che sembrava venir fuori da un romanzo di Philip K. Dick. I successi degli anni sessanta prima con i capisaldi di In C e A Rainbow in Curved Air, quelli della decade successiva con Church of Anthrax con John Cale (che aveva iniziato proprio con La Monte Young) e Persian Surgery Dervishes, hanno avuto riflessi importanti sulla musica leggera tutta.

Di Terry Riley non possiamo dimenticare il sodalizio con il Kronos Quartet, vero crocevia della musica americana colta dagli anni settanta fino ad oggi, al punto tale da scrivere il Requiem for Adam dedicato al figlio prematuramente scomparso del fondatore David Harrington. Da alcuni anni Terry ha formato un sodalizio con Gyan – compositore e virtuoso della chitarra – insegnante in diverse università americane con all’attivo numerose pubblicazioni (su cui spicca Stream of Gratitude per la Tzadik di John Zorn).

Quando passiamo nell’ampio cortile ogni ordine di posto è già occupato; ci sediamo sotto il palco, a terra su un tappeto formato da un centinaio di copie del numero 7 della rivista RISK del giugno 1992 interamente dedicata al genio di Joseph Beuys.

Terry Riley arriva puntuale alle 22 con una camicia floreale a fondo scuro; alle melodie orientali che vengono fuori dalla sua diamonica è affidato l’incipit in un dialogo immediato con la chitarra elettrica di Gyan. L’organo elettrico alimenta suggestioni sacre mentre le dita del vecchio compositore californiano (ha compiuto ottantatre anni lo scorso giugno) passano a toccare i tasti del pianoforte disegnando arabeschi nell’aria. Gyan entra nel pezzo in punta di piedi con leggeri contrappunti mentre Terry inizia a costruire le sue cattedrali sonore. Ma nulla di tutto questo assomiglia a qualcosa di mastodontico o di pomposo. Quelle che Riley alza verso il cielo sono cattedrali fatte della stessa sostanza dei sogni, ideali mandala che si costruiscono e si dissolvono in un ciclo eterno.

I sorrisi bellissimi di complicità e affetto che i due si scambiano di continuo saranno la trama nascosta di una tenerezza costante che attraversa dolcemente il palco anche e soprattutto quando la musica si fa più nervosa con la chitarra a inseguire rapide successioni di note ricche di improvvise accelerazioni che lasciano a poco a poco spazio a radure di bellezza attraversate da continue tensioni che si sciolgono e si risolvono in una spinta verso l’alto. L’organo si fa ancora prepotente in uno scenario che richiama la musica tradizionale cinese fino a una conclusione rapida ed efficace affidata a un jazz squisitamente swingato che conclude il brano.

Tra un pezzo e l’altro le luci si accendono più forti e appaiono come l’intrusione di un mondo reale che non può trovare posto, estraneo com’è alla magia, a una sorta di esoterismo musicale che attraversa gli spazi e coinvolge tutto il pubblico. Nel cortile settecentesco si respira un’aria di libertà questa notte, nulla appare rigido o predeterminato come le improvvisazioni dei due musicisti. C’è chi sceglie di stare da solo in un angolo lontano, chi si siede sulle scale ai lati del palco, chi ancora è nella posizione del loto in meditazione, chi si appoggia in piedi alle pareti scrostate dell’antico edificio.

Voci femminili ai synth che si sovrappongono in un delay così tipicamente rileyano sono il fondale sul quale ha modo di dipanarsi il rumorismo chitarristico di Gyan che si colora progressivamente di effetti sempre più stranianti. Ma ancora una volta a rubare la scena sono i tasti bianchi e neri dello Steinway di Terry che con le sue dita costruisce spirali di suoni ripetitivi che ammaliano il pubblico in un silenzio quasi irreale interrotto solo dagli scatti dei fotografi che come api si muovono freneticamente intorno al palco dando vita a una specie di danza che occupa lo spazio fino alle scale e alle balaustre del primo piano.

Arriva il momento di Sprig, pezzo solista di Gyan dall’omonimo album pubblicato a marzo dalla National Sawdust Tracks. La chitarra elettrica è sostituita da quella classica in un brano che colpisce per la brillantezza melodica, la ricchezza armonica e la qualità tecnica dell’esecuzione.

In Mongolian Winds la diamonica è il richiamo che introduce il canto di Terry sospeso nello spazio e nel tempo sorretto dalle architetture del suo pianoforte mentre Gyan lo accompagna alternando entrambe le chitarre in un dialogo incentrato su danze che improvvisano seducenti variazioni dal sapore gitano.

La musica si fa a un tratto pura avanguardia con Terry in piedi come un demiurgo di suoni elettronici al laptop. È un paesaggio sonoro affascinante – che muta di continuo e che non offre punti di riferimento – cui è impossibile non abbandonarsi in un’accettazione che si fa totale dinanzi all’aleatorietà e che beneficia – durante un pianissimo – dell’eco distante di fuochi d’artificio che arrivano lontani come anche di aeroplani che sorvolano lo spazio aereo del cortile – ritaglio di cielo – incontro a distanza nel tempo tra il sogno dell’uomo che si fa efficienza tecnologica e un rito popolare arcaico che profuma di una città in perenne festa popolare. La lunga coda è un’improvvisazione in cui Gyan non deve inseguire il padre ma – grazie a una sintonia che è genetica, spirituale e di grande complicità – lo accompagna lungo i solchi tracciati dal pianoforte con una capacità straordinaria di inserirsi negli spazi lasciati dalle orme paterne e trovando, al contempo, attraverso leggeri – eppure così importanti – scarti laterali una propria voce in un percorso parallelo eppure personale.

Tra l’organo e la chitarra s’instaura un dialogo che sembra quasi non umano, dialogo di macchine fantascientifiche, segnali extraterrestri che sono solo l’introduzione a una musica che mai come in questa prima ora di concerto si fa così densa, umana e materica.

Siamo a un passo dal Museo Archeologico Nazionale, come dai popolarissimi Rione Sanità e dal Borgo dei Vergini ma anche dal Corso Vittorio Emanuele che taglia la città conquistandosi un’apertura verso il mare, Mergellina, la collina di Posillipo e le case che si affacciano sul golfo. Casa Morra incastonata tra i vicoli ripidi del centro, è una sorpresa che coglie il viandante alla curva stretta di una salita, è emblema di una città che nasconde i suoi tesori, che mescolando alto e basso si fa città dai mille volti, spazio ideale per ospitare colui che nel grande movimento minimalista ha saputo più di chiunque altro incrociare la classica col jazz, la musica popolare con i Rāga indiani, la complessità melodica del pianoforte con organi, nastri, delay ed elettronica.

Un ritmo morbido che richiama un incedere da poliziesco anno cinquanta è l’avvio del nuovo brano che all’improvviso si spezza come cadendo su se stesso tra note cristalline e le corde di Gyan che accenna sonorità del primo Pat Metheny senza, naturalmente, alcuna deriva fusion ma con i colori di un modernissimo chitarrismo jazz.  I due suonano musica soprattutto dall’ultimo album che qui – com’è nella loro natura – appaiono quasi trasfigurati grazie all’improvvisazione, un modo per esplorare territori sconosciuti, strumento di conoscenza reciproca, sfida accolta con divertimento, stupore e inseguimento delle direzioni intraprese dall’altro.

Dopo un’ora e mezza è tempo di concludere non prima però di un bis per diamonica e chitarra e che affonda le radici in un folk dolcissimo e melodico. Dopo l’ultima nota prima di regalare sorrisi al pubblico Terry mormora un esile e delicato “okay” come un sigillo sulla serata, come il segno di un compimento, di un ringraziamento non solo al pubblico ma verso quella musica cui ha dedicato un’intera esistenza.

Gyan prende per mano il padre aiutandolo a scendere i pochi gradini del palco mentre il pubblico inizia a disperdersi, ma non c’è alcuna fretta di lasciare un posto così bello mentre un ultimo sguardo è rivolto al cielo con la luna che sta ormai definitivamente uscendo dal cono d’ombra della Terra come a risvegliarci da un meraviglioso incantesimo. Ed è difficile non pensare, mentre ci addentriamo nel dedalo del centro storico, che non potevano esserci luogo e notte così perfetti per assistere alla magia della famiglia Riley.

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