Nella seconda metà degli anni Sessanta Joe Boyd è un importante produttore musicale americano che viveva a Londra. Ha apena prodotto Arnold Layne, il primo singolo dei Pink Floyd capeggiati da Syd Barrett, ed è il produttore dei Fairport Convention. È proprio il bassista dei Fairport Covention, Ashley Hutchings, a parlargli di un giovane musicista bello e talentuoso, dai modi gentili che scrive e canta canzoni con una forza e una pacatezza sconvolgenti. Una mattina Boyd alza la cornetta del telefono e senza indugio lo invita nel suo ufficio per farsi portare un nastro da ascoltare. Avvolto nel suo cappotto di lana nero, segnato qua e là da qualche macchia di cenere, appare in tutta la sua timidezza e il suo magnetismo Nick Drake. Le mani forti e bianche, le unghia lunghe per pizzicare la chitarra con una maestrìa riservata a pochi e una impeccabile pronuncia inglese stavano per diventare i tratti distintivi di un cantautore scomparso a soli 26 anni, ma che in soli quattro ha rivoluzionato il mondo cantautorale, sprigionando un talento incredibile in una manciata di canzoni. Solo col tempo però Drake sarebbe diventato un culto assoluto.
Le canzoni di Nick arrivano dal profondo del suo animo tormentato, dai poeti romantici e dagli arpeggi al piano della mamma, sentiti da bambino. È una musica essenziale, semplice e allo stesso tempo complessa la sua. In quel periodo, chi lo ascolta da vicino, produttori, discografici, colleghi, se ne innamorano all’istante, e colpiti dalla sua incredibile timidezza proteggono quel mondo trasognante che sussurra delicate poesie. Tra un brano e l’altro, che sia in una stanzetta o su un palco, riaccorda ogni volta la sua chitarra in silenzio, prima di partire di nuovo con le sue incredibili trame musicali che ne faranno un mostro sacro agli occhi dei chitarristi acustici, per la capacità di proporre accordature e sonorità assolutamente innovative, non solo per quell’epoca, seguendo il solco dello scozzese Bert Jansch, di cui l’adolescente Nick eseguiva anche qualche cover.
Esordisce nel 1969 con l’album Five Leaves Left, che, nella produzione, in parte cerca di ripercorrere le sonorità di Leonard Cohen, con cori e archi che stendono un tappeto sonoro volto a sottolineare la voce e l’arpeggio. Siamo però nel millenovecentosessantanove, il pop e il rock psichedelico la fanno da padroni nelle vendite e nelle radio, e i suoi pezzi non trovano molto spazio. Tuttavia Boyd reputa che Nick debba intraprendere un tour in Inghilterra, ma dopo poche date la sua timidezza e la poca propensione a stare sul palco intrerrompono il suo giro di concerti.
La sua musica e il suo magnetismo continuano ad attrarre personalità importanti pronte a collaborare con lui, e così sarà la volta di John Cale, compagno di Lou Reed nei Velvet Underground, che vola in Gran Bretagna per lavorare al secondo album di Drake. Anche qui la qualità del lavoro non si discute, aumentano un po’ le sfumature jazz ma la sostanza è sempre la centralità della chitarra e della voce. Bryter Layter, pubblicato nel 1970, non garantisce il successo e riconoscimento meritato. Intanto Nick, come tutte le anime tormentate dei poeti veri, comincia a cadere in depressione e si prepara a lasciarci il suo capolavoro.
Nel 1972 infatti sarà concluso Pink Moon, un disco scarno, essenziale, diretto. Undici brani chitarra e voce carichi di pathos e poesia. Generazioni intere, dalla fine degli anni Settanta, andranno in pellegrinaggio nei luoghi della sua infanzia raccontando ai genitori di Nick quanto il figlio fosse importante per loro, il numero dei musicisti che si ispireranno alla sua musica continua a crescere come un virus, ascolto dopo ascolto. Ma Nick da tempo non c’è più, come tutti i poeti maledetti ci lascia al culmine della sua arte e nel pieno della sua vita, nel 1974 a soli 26 anni, suicidatosi nella sua stanza col vinile dei Concerti Brandeburghesi di Bach sul piatto del giradischi e una copia del Mito di Sisifo di Albert Camus sul comodino.