L’undici novembre, a Varsavia, nella piazza del Mercato Vecchio, più di duecentomila persone si sono riunite per il centenario dell’indipendenza polacca, alla grande festa organizzata dal Presidente Andrzej Duda. La folla era composta in larga parte dai militanti del partito di estrema destra Obòz Narodowo-radykalny Falanga e dai loro camerati provenienti da tutta l’Europa. C’erano gli Jobbik dall’Ungheria di Orbán, il Pravyi Sektor ucraino e, perfino, un comitato di Forza Nuova, il movimento di Roberto Fiore che da anni porta avanti idee politiche dichiaratamente nazionaliste nel nostro paese. Le immagini mostrano un’altra Europa, violenta e conservatrice, che celebra la prima e più grande unione fra un suo Stato membro e le forze più oltranziste che si riproducono al suo interno. Nel comitato italiano mancava, però, Matteo Salvini, l’alleato che non esce mai troppo allo scoperto. Non si fa vedere, lui, in Polonia, nonostante non abbia mai smentito di trovare piacevole la compagnia del gruppo di Orbàn, perché si trova a un’altra celebrazione, a un altro show all’Eicma di Milano e poi sul palco della Scuola di Formazione Politica da cui rivendica la bontà del risveglio populista in atto – oltre a perseguire imperterrito nelle offese al presidente della Commissione Europea Juncker che verrà paragonato a un Babbo Natale avvinazzato. A distanza, ma pur sempre vicino, la marea nera ha già superato i confini colorando l’attuale panorama politico. Prima dai blocchi ex-sovietici poi sempre più forte anche nell’Occidente democratico, dall’Austria fino al nord della Svezia, vedendo nel nostro paese un passaggio fondamentale per cominciare l’erosione degli argini del mondo democratico. Poco a poco, proprio da qui.
Salvini durante il discorso dell’undici novembre è serio nell’affermare che non c’è nessun pericolo autoritario nel nostro paese. Lo dice a una platea privilegiata, che lo applaude mentre sale sul palco e si ferma con lui appena ha finito per fare una fotografia. La scuola di politica, quella degli statisti del domani, apparentemente così tristi, oggi. Se Salvini si smarca dalle accuse di voler portare un regime in Italia – come del resto si smarca da qualsiasi accusa gli venga rivolta con un’abile dialettica del rovesciamento – è perché non esistono ancora le condizioni per agire o la totale sicurezza di avere successo. L’esperienza del Brasile di Jair Bolsonaro e, ancora prima, di Donald Trump negli Stati Uniti, non può non attivare alcuni campanelli di allarme. Conosciamo bene la retorica che ha convinto gli elettori di O Capitão, quella capacità di concentrare su di sé i voti degli elettori delusi, spingere su sostituzioni etniche o una generale perdita di valori. Siamo arrivati a sentirli e a vederli ogni giorno. È proprio questa abitudine a lasciare ottimista Salvini, la convinzione che a forza di dimenticare, di soffiare sul fuoco, tutto possa accadere senza alcuna resistenza anche attraverso delle elezioni legittime, come quelle che lo hanno portato a diventare l’esponente principale di un governo con un partito che non è arrivato nemmeno al diciotto percento. Se può stare tranquillo e concentrarsi sul dichiarato obiettivo di affondare il sogno europeo, seminando odio verso gli stranieri e diffidenza verso l’Unione, è perché nel Movimento 5 Stelle ha trovato il migliore alleato possibile. Il compagno di squadra imprevedibile, l’unico in grado di prendersi il merito del lavoro sporco e lasciare la sua figura il più possibile intatta. Può concentrarsi a erodere il sistema dall’interno, focalizzando l’attenzione pubblica su problemi apparentemente più urgenti come l’immigrazione, unendo il paese e facendo l’italiano come nel video dell’attore Pennacchi, mentre piano piano infila le sue unte mani sulle più importanti libertà. È più facile far passare quasi inosservato nel discorso pubblico la discussione che limiti la libertà di scelta della donna come accaduto nel comune di Verona o distruggere senza paura il suo diritto all’indipendenza con proposte come il Ddl Pillon, se dall’altra parte il primo partito del paese continua con le sue guerre ai mulini a vento, minacciando apertamente la libertà di contraddittorio e di stampa, o schiantandosi sotto il peso delle promesse troppo grandi e degli errori troppo chiari per non risultare controproducenti. Il momento in cui l’onestà, tanto invocata e pretesa negli altri, comincia a riscuotere il suo pagamento su chi non riesce a reggerla. Le parole di Paola Taverna su Twitter, che male interpretano la previsione Istat sugli effetti del Reddito di Cittadinanza nel Pil italiano, commentando “Vento in poppa!” quando a una spesa dello 0,5% si ha una previsione di entrate stimato fra lo 0,2-0,3, sono la rappresentazione di chi ha il potere oggi ed è in grado, da un momento all’altro, di poterci togliere la libertà in nome di una sua versione surrogata dai tratti assistenziali. Ed è triste pensare che potrebbero essere proprio questi individui a privarci del bene più prezioso che ci è stato lasciato: la democrazia, così fragile, così importante.
Si parte con poco, con gli ingredienti di base, per far affondare un intero paese. La libertà surrogata, nomen omen, è una libertà monca, che restituisce un duplicato non conforme all’originale. Ha lo stesso nome ma ha sempre qualcosina di meno, piccole virgole che poi messe assieme fanno parte di un testo completamente diverso a cui generalmente in pochi possono accedere. Si instaura con una pratica quasi da cabaret per rompere il ghiaccio, o da bambino che è convinto di ottenere qualcosa ripetendo più volte il termine che la indica. La prima volta che un nome – puttana, sciacallo, pennivendolo – viene pronunciato, e ripetuto senza conseguenza, diventa naturalmente quotidiano. Si insinua nella mente come un pezzo pop, perde consistenza e valore. Dicevano che non avrebbero mai fatto un condono, urlando onestà, onestà nelle piazze, ma gli ci sono voluti cinque mesi per votarne il primo, che non avrebbero mai messo la fiducia a un provvedimento o fatto parte di un governo di coalizione con partiti di prescritti e corruttori. Memoria corta ma, del resto, la coscienza non è mai stata una virtù semplice. Paradossalmente questa politica da dilettanti, che mostra ogni giorno la propria inadeguatezza, la passa liscia, convogliando su altri discorsi l’odio delle persone. È accaduto a Genova con i Benetton, è accaduto in Puglia, prima con l’Ilva e poi con la Tap, con l’Unione Europea e gli accordi stretti da altri. Paradossalmente tutto questo accade senza che un’opposizione seria e puntuale sia in grado di rispondere e, quando si presenta, riesce a limitarla a un ruolo di antagonista del progresso. Rimodulare le responsabilità in modo che ricadano su qualcun altro è una pratica che richiede parecchio impegno e svuota, di fatto, il corpo di tutte le sue energie. Mettere a tacere i giornalisti è una di quelle pratiche. Parlare di cospirazioni su testi aggiunti all’improvviso ne è un’altra. Creare una televisione in cui la divulgazione scientifica viene approvata prima da una commissione politica lo è. Sono tutte parte dello stesso gruppo, e tutte insieme fanno presagire una sola, durissima, conclusione.
Il rischio che stiamo attraversando, ancora prima di perdere la libertà, è di accettare che questo discorso politico ci renda talmente stanchi di voler aspirare a qualcosa di più da accontentarci di toglierlo, semplicemente, a qualcun altro. Lasciare, quindi, che ci chiamino come vogliono loro, che ci diano loro le risposte, che diano loro l’idea della donna che preferiscono, lasciare affondare, in fondo, tutto quello che siamo, fino a perderlo. Una libertà alla volta, un colpo dopo l’altro, finché il surrogato non sostituisce l’originale e, lui, con noi.