Quando Cesare Pavese nel 1942 sgridava scherzosamente Giulio Einaudi per la paga di un lavoro in lire 800 e numero 6 sigari, era nel campo dell’editoria da un paio d’anni e, certo, non si sarebbe mai aspettato, nemmeno nel peggiore degli incubi, il passaggio dello struzzo nelle mani della Mondadori, non più dell’Arnoldo fondatore, ma di un cavaliere dal cuore molto meno nobile. Non sapremo mai cosa avrebbe pensato quell’ancora giovane Pavese, vedendo quella cosa a lui così cara, com’era la letteratura, trasformarsi in uno dei tanti prodotti di un’azienda che, da sempre, è stata affascinata dal dominio delle forme culturali di questo paese. Ma era un uomo all’antica, e le distinzioni si facevano nette a quei tempi, e non tutto si poteva comprare. L’appartenenza doveva essere una cosa seria, non una resistenza che oggi appare un presa di posizione così anacronisticamente sciocca. Uno a uno, anche gli scrittori più di parte, si sono arresi all’evidenza che, se volevano i libri stampati e distribuiti, sarebbero dovuti scendere a patti con la propria coscienza, perché si deve pur mangiare in qualche modo e quei rimorsi, poi, non sono serviti a tanto, anche perché il consumatore, quegli scrupoli, non se li fa. Pavese, forse, avrebbe protestato, o forse no, perché anche lui si sarebbe dovuto accontentare del tempo che viviamo e avrebbe visto con i proprio occhi il crollo dell’editoria e dei lettori. Sarebbe stato bello vederlo reagire, insieme a tutti gli altri che ci mancano tanto, al tentativo finale del gruppo Mondadori di conquistarsi tutto il mercato editoriale acquistando la sezione Libri del gruppo Rcs (che possiede, tra i tanti, anche Adelphi e Bompiani). Ma non può succedere, e dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo. Dell’esercito dei 48 capitanati da Umberto Eco, per cui il non s’ha da fare manzoniano sembra più che altro spingere verso il fallimento più che verso una soluzione, al ministro della cultura Franceschini, che tra #verybello e la fontana della Barcaccia, dimostra ancora una volta quanto, quel ministero, sia una necessità intellettuale più che legislativa, e affida tutto all’Antitrust tramite Twitter:
Il gruppo Mondadori, acquisendo anche Rcs Libri sempre più a rischio fallimento, conquisterebbe circa il quaranta per cento di tutta l’editoria italiana, creando un mostro culturale, contando che la restante percentuale si muove fra il polo Feltrinelli e le case editrici medio-piccole che, di certo, non stanno meglio di Rcs. Il paesaggio che si verrebbe a configurare sarebbe se non catastrofico, almeno, estremamente limitante. Come, per dire, se la maggior parte di mercati, macellerie e alimentari vari diventassero a marchio Coop o Carrefour. Perché, poi, le piccole librerie non sono molto diverse e, anche loro, dipendono dalle case distributrici. Già dissanguate dalla concorrenza di Amazon e dalle mega librerie piene di eventi, la creazione di un polo culturale così potente sarebbe il colpo di grazia definitivo. Questo, per dire, sul lato economico che, per quanto si stia parlando di libri è fondamentale. Su quello culturale, poi, i danni per quanto poco prevedibili, potrebbero essere pure peggiori. È il fantasma dell’uniformità, di una linea editoriale stagna e conformista, capace di scegliere chi oscurare e chi premiare, di creare grandi casi letterari come decidere di chiudere in un cassetto quelli più scomodi. Ci sarebbe pur sempre la concorrenza ma, poi, la storia di Davide contro Golia non va a finire bene tutte le volte. C’è internet ma, anche lì, la questione si fa più complessa di quanto potrebbe apparire. Anche perché, come difficilmente scopriamo autori non affermati di piccole case editrici, così su internet non leggiamo le cosiddette opere prime di giovani sconosciuti e, per quanto possiamo fare i post moderni e gli amanti della tecnologia, al libro, e nella sua composizione materiale, diamo sempre una fiducia cieca. Soprattutto perché mezzo di trasmissione e di definizione di pensieri e di gusto. Avendo una grossa parte del mercato si ottiene, poi, il potere di decidere, appunto, come quel gusto si possa muovere. Questo monopolio, se si realizzerà per davvero, in qualche modo, costringe a una riflessione, più lucida che sentimentale o di parte, che rischia di sfuggire di mano. Come il silenzio che dopo una settimana ha avvolto la notizia e che, nel nostro paese, non è mai un buon segno.
Allora meglio che Rcs Libri chiuda e perda le sue edizioni piuttosto che finire nelle mani del mostro Mondadori, come i 48 sembrano preferire? No, perché, in un modo nell’altro, quei marchi ci finirebbero comunque. Se la crisi c’è è anche perché sono i lettori a essere sempre meno, con i conseguenti aumenti di prezzo e il cambio, naturale, dei gusti e delle abitudini, inutile girarci intorno. Da un certo punto di vista, più ottimistico che possibile, l’acquisizione di Mondadori potrebbe pure aprire una nuova dimensione per il mercato, davvero più indipendente rispetto a quanto non sia ora, con una potenzialità, al pari di quella musicale, totalmente da scoprire. Quel sentimento un po’ nostalgico che sta facendo fiorire i piccoli artigiani e le piccole realtà, la riscoperta dei vinili e tutto ciò che, oggi, sembra contrastare il grande mercato. Che non è hipster, ma solo una ricerca di una qualità diversa. In tutto questo la minaccia di un’uniformità culturale, oltre a spaventare, deve rendere coscienti del fatto che anche cosa si sceglie di comprare, e leggere, ha un ruolo in tutto questo ma, allo stesso modo, lo scrivere stesso. Perché, poi, le parole ci saranno sempre, ma non è nemmeno detto che ci sarà qualcuno pronto a leggerle.