Viviamo in quelli che chiamano “tempi interessanti”, anche se nessuno riesce a indicarci precisamente come tirarcene fuori (- nemmeno i divertenti meme con citazioni di Zizek possono aiutarci in questa odissea dei tempi). Eppure il saggio di Raffaele Alberto Ventura La Guerra Di Tutti (MinimumFax), nella sua lucida e ironica analisi della contemporaneità riesce a offrirci un minimo di equipaggiamento: del resto è necessario un manuale di comprensione della realtà per tirare il punto anche in mancanza di istruzioni precise. Viviamo anche nella grande contraddizione che l’economista John Maynard Keynes ha lucidamente sintetizzato così a inizio Novecento: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi”. Da Keynes di tempo ne è passato, di mezzo c’è stata una rivoluzione digitale (paragonabile per impatto a quella industriale) e una crisi economica mondiale – ma di soluzioni all’impasse è ancora difficile intravederne. Per paradosso è invece emerso un ritorno alla fierezza degli stati nazionali, e questo proprio mentre tutti eravamo sempre più intrecciati gli uni agli altri – per effetto della società digitale e di quell’intelligenza collettiva che era stata preconizzata tempo fa, o semplicemente a causa di emergenze globali come la catastrofe ecologica.
Ventura è bravissimo ad accompagnarci in questo piccolo viaggio dentro il contemporaneo in cui sembra di essere tornati a Hobbes e alla guerra di tutti contro tutti: uno stato di natura che è in attesa di una nuova verità. In questo stato di guerra permanente c’è spazio per le narrazioni cospirazioniste, che non si limitano più a essere solo una denuncia e una critica del potere – basti vedere come oggi il cospirazionismo sia persino diventato un linguaggio inglobato dal potere. Il cospirazionismo come tendenza paranoica da cui ci mette in guardia Ventura, non è soltanto quello di una lettura esoterica della realtà (quello che vede nella piramide del Louvre un simbolo occulto del potere, per intenderci, che siano Macron o Beyoncé a ri-evocarlo), ma anche nella deriva paranoica e nel sospetto generalizzato che ci mette gli uni contro gli altri. “Lo gnostico contemporaneo è colui che vede ovunque indizi che viviamo in una società totalitaria, da combattere con ogni mezzo”, scrive Ventura a proposito della paranoia contemporanea con cui a furia di leggere i romanzi di Philip Dick abbiamo finito per vedere nazisti ovunque (- è così che i nazisti possono mimetizzarsi tra la folla), titillati da distopie alla The Man In The High Castle – il romanzo dove Dick ha immaginato cosa sarebbe successo se la Seconda Guerra Mondiale l’avessero vinta i nazisti. Per Ventura quello che è tipico dei nostri “tempi interessanti” è piuttosto un conflitto delle interpretazioni: non basta più nemmeno un fact-checking quando c’è disaccordo di fondo su cosa sia vero e cosa falso. Ognuno resterà fisso sulle proprie letture, sulla propria interpretazione, e rinforzerà la propria opinione grazie alla grancassa di risonanza delle letture che sono uguali alla sua. (In fondo, è quello che ci succede a star troppo sui social)
Accediamo di più alle informazioni, e questo non fa che solleticare la nostra umana curiosità alla ricerca ossessiva della verità. Ventura ci paragona ai Bouvard e Pécuchet dell’era della post-verità, come il romanzo omonimo di Flaubert che indaga la pretesa di voler conoscere tutto, ma “l’edificio della conoscenza umana è in sé contraddittorio”, dunque la pretesa di sapere appare pure un po’ stupida. Cosa resta al fondo se non la resa socratiana e lo sbocco al problema filosofico del suicidio in salsa camusiana? Il populismo prospera in questa atmosfera di sospetto generalizzato, e l’alt-right trova il suo linguaggio e i suoi argomenti persino nei meme che rimbalzano sui social.
Ma l’analisi di Ventura non si ferma qui: è contemporanea perché ci porta diritti al cuore di quello che stiamo vivendo, in Francia con la protesta dei gilet gialli, in Italia con il governo gialloverde (nato dal compromesso tra istanze xenofobe, risentimento verso la casta e ambiguità), negli Stati Uniti con Trump. Viviamo un momento di sollevazione popolare, dove la finzione chiamata Popolo appare in lotta contro il Potere. Quello che fa Ventura è avvisarci a proposito di tutte le finzioni a cui ci affidiamo: questo Popolo di cui parliamo ossessivamente continua a mantenere interessi diversi, la lotta contro il Potere deve allora trovare una convergenza di interessi per superare la sua fiction (come accade in Francia con la figura di Macron); la democrazia stessa è una “finzione giuridica”; e la rivoluzione ha subito un processo di gamification in cui pare siamo intrappolati a mettere in scena la protesta, piuttosto che farla esplodere sul serio.
Se c’è una cosa di cui dobbiamo prendere atto è piuttosto la crisi del capitalismo. Nel passaggio dalla società aristocratica a quella borghese (che trova il suo simbolo forte nella Rivoluzione Francese) abbiamo trovato dei miglioramenti nella qualità della vita, e nella soddisfazione dei bisogni primari dell’uomo – e qui Ventura individua una frattura della contemporaneità, ricollegandosi direttamente al suo Teoria della Classe Disagiata. Salendo la piramide dei bisogni umani ritroviamo le insoddisfazioni di natura sociale e culturale: non ci sentiamo autorealizzati nel sistema capitalistico. Stiamo vivendo dentro la sua parabola di agonia. E mentre l’uomo occidentale si preoccupa di stima e autorealizzazione, dall’altra parte del mondo una parte di popolazione mondiale che era stata esclusa dai benefici del capitalismo, prova ad “accedere ai diritti delle classi medie americane e europee”. E se la soluzione fosse decrescere? – ci chiede provocatoriamente Ventura. Se rinunciassimo tutti un po’ ai lussi accumulati?, a una parte del benessere anche in nome del problema ecologico? Qui si trova una sovrana e ultima contraddizione dentro il sistema: “la paura di decrescere ha messo sul piede di guerra la classe media occidentale disagiata”. Ritorniamo alla guerra di tutti contro tutti. In questo quadro le destre populiste si ergono a difesa del vecchio schema di mondo, allertando gli istinti di sicurezza e difesa che poi sboccano in derive xenofobe. La sinistra è semplicemente in crisi in cerca di una visione progressista.
Eppure, se qualcosa di nuovo dovrà sorgere da questo momento critico sarà proprio immaginando una visione nuova, che si confronta con il disagio delle classi sociali, con l’esclusione di una grande parte di popolazione mondiale dalla ricchezza, con emergenze come quella climatica, e con lo stato di natura in cui siamo finiti a combatterci, come preparati a una guerra civile quasi-permanente. Nell’analisi di Ventura c’è la frattura apocalittica che stiamo vivendo, un manuale che ci attrezza con ironia alla realtà: eppure qui e là troviamo lo stesso tracce di speranza, nonostante la guerra di tutti contro tutti. Come se l’uomo sia sempre capace di immaginare un modo per salvarsi mentre sta annegando — anche se immerso dentro le contraddizioni e le disuguaglianze dei tempi interessanti. La Guerra di Tutti con Tutti è faticosa, dura, sudorativa, e siamo allo sbando – incapsulando tutte le ansie della contemporaneità dentro noi stessi, in perenne agitazione all’idea che possa andare peggio da un momento all’altro. Ma attrezzandoci bene alla comprensione della realtà, forse possiamo immaginare un’utopia lontana, oltre la guerra.