Locali, teatri e palazzetti dello sport gremiti raccontano il successo di una nuova generazione di cantautori italiani che fino a qualche anno fa non avrebbe potuto immaginare di riscuotere un consenso popolare tale da registrare un sold out dopo l’altro. Tra gli esempi più interessanti di questo fenomeno c’è senza dubbio Alessandro Mannarino che inizia il suo percorso dalle strade del quartiere romano di San Basilio, continua a camminare senza fermarsi e arriva molto lontano, più precisamente in Sud America, dove esplora Brasile, Colombia, Bolivia e Perù. Quando torna a casa capisce che partire con lo zaino sulle spalle è stata una delle scelte più importanti della sua vita.
Dopo tre anni da Al Monte, il 13 gennaio scorso è uscito il suo quarto album Apriti Cielo, la naturale conclusione di questo viaggio tra l’emisfero boreale e quello australe, da cui emergono colori, bandiere e culture diverse attraverso una girandola di parole e musica. Insomma, difficile inserire in una cerchia o valutare secondo le metriche di mercato un cantautore che dichiara che il proprio mestiere sia quello di far ballare la tristezza. E sono davvero in molti a voler mettere da parte i malumori questa sera 13 aprile, durante la seconda delle tre date torinesi del tour di Mannarino al Teatro della Concordia di Venaria Reale che, insieme alle altre tappe italiane, ha totalizzato un incredibile record di tutto esaurito.
Arriviamo correndo tra la folla che esplode in un boato sulle prime note di Apriti Cielo. L’aria trema insieme alle pareti. C’è euforia e concitazione come nei momenti che precedono le feste importanti, quelle a cui ci prepariamo mentalmente con settimane di anticipo. Questa volta, però, abbiamo chiuso gli occhi quando c’era da leggere, tappato le orecchie quando c’era da sentire e ci siamo lasciati sorprendere. La prima meraviglia che possiamo vedere è la scenografia che troneggia alle spalle di Mannarino e della sua orchestra. Le canzoni si trasformano in storie illustrate e in pellicole cinematografiche. La fantasia aiuta a perdersi, ma anche a ritrovarsi.
La scaletta alterna canzoni tratte dall’ultimo album come la psichedelica Gandhi o il swing dalle tinte tropicali di Babalù ai “vecchi” successi di Bar della Rabbia come Elisir d’Amor o Me So’ Mbriacato e a quelli di Supersantos come Serenata Lacrimosa, Statte Zitta e Marylou, richiami davvero irresistibili per un pubblico che non ha bisogno di essere spronato a cantare e a ballare. L’atmosfera che si respira è leggera e sembra quasi che il mondo fuori da queste mura non sia mai esistito. Davanti alle transenne ci sono una madre e un figlio che danzano, una coppia di anziani che scattano foto e un gruppo di ragazzine sbraccianti. Si tratta soltanto di una parte del pubblico eterogeneo che è qui stasera e che potremmo incontrare al Concertone del Primo Maggio come a una festa di paese o al Primavera Sound.
In questa notte tiepida di aprile Mannarino e i componenti della sua famiglia musicale hanno superato le barriere fisiche e mentali per arrivare a una performance che potesse coinvolgere tutti, nessuno escluso. E fatto più unico che raro, abbiamo assistito a un concerto della durata di quasi tre ore senza sbavature o segni di cedimento. Uno show di questo tipo non è la regola, ma l’eccezione, una combinazione di bravura e di fatica che non si può decidere a tavolino. Gli sguardi del pubblico si confondono a quelli della band, delle coriste e dello stesso Mannarino che cerca continuamente il contatto umano. I minuti passano troppo in fretta e, nonostante la stanchezza, non vorremmo mai salutarci, ma è un arrivederci e lo sa chi sta sopra il palco così come chi sta sotto.