“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” recita l’incipit più famoso della letteratura dell’ottocento. Quella che Xavier Dolan racconta in Juste la fin du monde, suo sesto lungometraggio (tratto dalla piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce) vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 69emo Festival di Cannes, è una famiglia spezzata che aspetta il ritorno a casa, dodici anni dopo averla abbandonata, del secondogenito Louis, l’artista di famiglia, drammaturgo, omosessuale, ragazzo docile e sensibile, pronto, finalmente, a rincontrare una madre svampita e disattenta, un fratello maggiore divorato dalla frustrazione e dai rancori, la mite moglie del fratello (che non ha mai conosciuto) e una sorella, lasciata bambina e ritrovata poco più che adolescente.
La prima inquadratura ci mostra Louis (Gaspard Ulliel) di profilo, nascosto nell’oscurità di un volo aereo notturno. Una hostess gli chiede di allacciarsi la cintura. Alle sue spalle una madre gli domanda continuamente scusa perché il suo bambino sembra dar fastidio a quel ragazzo, che invece lo lascia fare e sorride, come fosse consapevole che dietro di sé, e soltanto lì, possa esserci una famiglia felice. Ciò che ha davanti non è soltanto la pista di atterraggio nell’alba di un paese francese. È insieme un ricongiungimento e un commiato. Louis sta morendo e ha il tempo di una giornata per dirlo alla sua famiglia.
Se l’introduzione del protagonista è soffusa, sottile, silenziosa, affidata com’è ai colori prima scuri della notte quindi delicati di un’alba, la famiglia di Louis entra in scena, invece, nella pienezza calda della luce del mezzogiorno ma all’interno di una casa buia dove gli spazi sembrano perennemente stretti, angusti soffocanti. Vincent Cassel, il fratello maggiore, è un artigiano padre di due bambini (che non vedremo mai) che si muove in maniera nervosa nell’attesa e, come un animale ferito, cerca di continuo un bersaglio contro cui scagliarsi, in primis la moglie interpretata da una (ancora una volta) sorprendente Marion Cotillard, impacciata e indifesa, messa in ombra dall’ego del marito. L’elemento estraneo alla famiglia che però, o forse proprio per questo, quasi fin dall’inizio appare come l’unica che, nella sua distanza, sembra intuire il terribile carico che suo cognato si porta dentro. La madre, Martine, interpretata in maniera magistrale da Nathalie Baye, si è preparata in maniera pacchiana ed esagerata e tra un piatto e l’altro cerca di far asciugare lo smalto azzurro sulle unghie con l’aiuto di un phon. La sorella, una Léa Seydoux in stato di grazia, attacca di continuo la madre e, come percorsa da un’oscura forza nervosa che sembra attraversare con un filo invisibile l’intera famiglia, con i suoi occhi profondi sembra accordare un’orchestra capace di generare un campo magnetico di nervi tesi, di non detti, di cose taciute, di silenzi e di rancori.
Un ricongiungimento e un commiato. Fin dal primo istante in cui Louis entra in casa, una casa nuova (per l’intero film vorrà rivedere la casa dove abitavano prima) appare chiaro quest’andare e venire tra due estremi, questo senso di vicinanza e repulsione in cui tutti sono immersi. I gesti sono impacciati, tesi, innaturali. È l’abbraccio della sorella Suzanne a sciogliere la tensione, lei, la più piccola che non sa, che non ricorda, che non conosce i motivi di quell’allontanamento mentre la madre osserva da lontano cercando di sovrapporre l’immagine del figlio perduto con quello ritrovato. Il fratello, Antoine, è subito brusco, sbrigativo, distante.
Non sarà la fine del mondo. È quello che Louis prova a dire a qualcuno dall’altro capo del telefono, forse il suo compagno. Si riferisce al tornare a casa. La casa che dà la vita, e che del mondo è inizio e poi, del mondo, si fa primo scenario. Le radici che permettono la crescita ma che poi possono arrivare a farsi catene, impossibili da spezzare, ponti che non si tagliano, legami che non possono essere cancellati perché di sangue, e dentro quel sangue scorre una linfa comune che unisce e divide ma che non permette la dimenticanza, l’oblio. Home is not a harbor / Is where it hurts canta Camille in una colonna sonora che, come sempre in Dolan, alterna musiche originali a pezzi pop.
Al suo sesto lungometraggio da regista, Xavier Dolan, anche in Italia, è diventato finalmente personaggio di culto. In ritardo va detto: il giovanissimo (ventisette anni) e talentuoso regista canadese ha alle spalle grandissimi film dei quali è stato oltre che regista, autore, montatore, spesso attore. J’ai tué ma mère (a soli vent’anni), Les Amours imaginaires e infine Laurence Anyways (gli ultimi due già presentati a Cannes) avevano mostrato al mondo il suo sconfinato talento, un misto di grandi doti tecniche e narrative insieme, quella capacità di essere contemporaneamente autore elitario e pop, di saper giocare con la sceneggiatura e i propri attori in una sorta di partitura da cui però non restavano mai esclusi i sentimenti, aspetti emozionali e intimi che entravano prepotentemente tra le fessure di quei meravigliosi giocattoli cinematografici.
Tom à la ferme, in concorso alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, guardava all’ambito familiare attraverso una lente dark e quasi gotica. Con Mommy, nel 2014, finalmente anche la stampa non di settore iniziava a parlare del regista del Québec, di quel ragazzo piccolo di statura, con l’aria trasognata e un ghigno beffardo, uno James Dean canadese, capace di ostentare, con uguale disinvoltura, presunzioni e fragilità.
Tutto ciò che in Mommy era estremo ed evidente, il rapporto meraviglioso d’amore e odio tra una madre sui generis e un figlio problematico, violento e possessivo, così forte da farsi intollerabile, in Juste la fin du monde si fa invece racconto di albe e crepuscoli, di emozioni appena accennate, di odi che emergono con violenza ma per ritrarsi immediatamente, di sentimenti come creature notturne capaci di guardare solo per un attimo dentro il proprio cuore nero senza, per questo, riuscire a capirlo, senza darsi una spiegazione, senza trovare il sollievo, allo stesso tempo amaro e terribile, di un senso.
Juste la fin du monde è il primo film di Dolan girato fuori dal Canada e il primo con attori tutti francesi. Xavier Dolan, che è il più giovane di tutti, li dirige come sempre in maniera eccezionale, standogli addosso forse ancora di più che in Mommy (in quel suo inedito formato quadrato). Qui, in un formato più classico, non rinuncia comunque a stare dietro gli attori, alla loro pelle, alle loro labbra, ai sorrisi forzati, al sudore della tensione che bagna le punte dei capelli.
Alla prima grande produzione con un cast internazionale (il 2017 lo vedrà invece nella prima produzione inglese con Kit Harington, Jessica Chastain, Nathalie Portman, Susan Sarandon, tra gli altri) era lecito il timore di trovarsi davanti a un’opera più ordinaria delle precedenti. Va detto subito: Juste la fin du monde è certamente il meno dolaniano dei suoi film ma non rappresenta certo un passo indietro né soprattutto un cedimento ai gusti del grande pubblico. Se da un lato mantiene il suo inconfondibile stile in meravigliosi flashback dai colori pastello che disegnano i ricordi felici di Louis (una corsa nei campi con il fratello maggiore che lo porta sulle spalle, la scoperta del primo amore con il giovane Pierre) dall’altro, invece, Dolan costruisce un film a tratti claustrofobico che, rinunciando in partenza a ogni intento didascalico, sfida il pubblico, consegnandogli un’opera di grande maturità che fa dell’irrisolutezza la propria peculiare cifra narrativa.
È così che la famiglia di Louis smette i panni di una famiglia meramente cinematografica per diventare una famiglia reale senza che vi siano spiegazioni, ragioni e torti che sappiano farsi chiari: i nodi non verranno al pettine, i sentimenti oscilleranno per sempre sospesi tra l’ammirazione e la rabbia (Suzanne conserva alle pareti gli articoli che parlano di un fratello che non ha avuto il tempo di amare), tra il risentimento di chi, come Antoine, è rimasto e forse non ha vissuto (o forse non ha voluto vivere) la vita che desiderava, tra i ricordi e il dolore di una madre che non riesce a dare calore e forma al suo amore.
Dopo dodici anni Louis non sa più come muoversi in tutto questo, come se tutto fosse ancora fermo al tempo in cui è fuggito. Perché è andato via, perché non è stato fermato, perché non ci sia stato sforzo da parte di nessuno per cercarlo, trovarlo, amarlo non lo sapremo. Ogni sentimento, ogni ricordo si è sedimentato a partire da quella separazione come sul fondo del mare e quei dodici anni sono l’era geologica che li ha trasformati in una roccia ora tenera, ora durissima nella quale non è più possibile distinguere le ragioni dell’uno dalle colpe dell’altro. Entrare in quella casa è, per Louis, come non esserne mai uscito, come l’uccellino dell’orologio a cucù nel corridoio, che può uscire per un momento e cantare ma non può lasciare la sua casetta di legno se non a un prezzo durissimo.
Con Juste la fin du monde, Xavier Dolan mette in scena la sua, sempre personale, idea di melodramma che rovescia il genere abbandonando esagerazioni e retoriche e sostituendo ai toni caldi dei sentimenti quelli più sfumati di emozioni che improvvisamente spezzano il gelo di una famiglia che non riesce a volersi bene. Le premure maldestre della madre, il bisogno di dare affetto della sorella, gli sguardi complici della cognata Catherine, i sorrisi malinconici di Louis, l’occhiolino che ancora Louis regalerà ad Antoine come un segnale che proviene da lontano come per dire “io ci sono e tu ci sei” dentro questo dolore, dentro questa incomprensione.
E non sapremo cos’è successo, e non sapremo chi parlerà, e non sapremo se qualcuno ha capito e proprio per questo scappa via dalla verità. Juste la fin du monde un film che non dà alcuna risposta e che non spiega, un film che aspira non a raccontare la vita ma ha l’ambizione di essere la vita stessa. E così, quando su una porta che si chiude parte tra i titoli di coda la dolorosa Natural Blues di Moby e ci allontaniamo nel buio della sala, andiamo via con la consapevolezza che dentro quel porto, dentro quel dolore, dentro quella malinconia che ci spezza, c’è tutto quello per cui vale la pena vivere.