La Ferocia di Nicola Lagioia e il romanzo italiano

È difficile scrivere un romanzo, specialmente è difficile scrivere un romanzo italiano senza incappare negli stereotipi dell’italianità: del resto da quanto tempo non abbiamo un best seller in Italia che non sia un Gomorra? Il romanzo è un genere che deve fare i conti con la sua storia, andare in Francia, attraversare la Russia, volare verso l’America da Nord a Sud, in direzione delle grandi sommosse della parola. Dal Sud degli States di Faulkner fino all’Argentina di Cortázar, attraversando il classicismo di Balzac e la profondità psicologica di un Dostoevskij, la crudezza di Hemingway e la fantasia di Garcia Marquez. Soprattutto, un romanzo deve essere sincero: venire fuori da una splendida visione. Ha bisogno di cure, amore e sudore. Nicola Lagioia riesce a far tutto questo, e La Ferocia non poteva essere che titolo perfetto non solo per sintetizzare lo spirito dei tempi del nostro feroce paese, ma di tutto quello che è scrittura vorace.

Quello che colpisce subito è il montaggio della narrazione: e non è vero che Lagioia sia semplicemente influenzato dal modo di raccontare dei serial americani, anche perché si può dire che le possibilità della parola siano più infinite di quelle delle immagini secche. Tutto è granito in un romanzo che si apre attraverso l’incontro dei protagonisti che impareremo a conoscere, con i due poli d’attrazione che vivono solo sullo sfondo delle impressioni degli altri per buona parte delle pagine. Clara appare subito, nella sua femminilità feroce e affascinante: e muore immediatamente. Il suo personaggio verrà scavato fino alla fine, grazie alle interconnessioni e agli intrecci con la donna scomparsa prematuramente: il padre, ricchissimo imprenditore pugliese con quella vocazione tutta italiana all’intrallazzo; la madre, i fratelli, e soprattutto Michele. Il fratellastro che ha amato. In questo rapporto è tutto tensione che riesce a fare a meno della sessualità, senza rinunciare all’erotismo. Presenze che riescono a rincorrersi nel tempo nonostante anni d’assenza.

Il personaggio di Michele è l’altro polo del mistero di quello che appare come un appassionante noir tutto da scoprire, che tiene il lettore attaccato alle pagine, senza possibilità di risparmiarsi una cosa che è fondamentale nella lettura: la curiosità di andare avanti. Fossero le quattro del mattino di una nottata insonne. Il rapporto tra i due fratellastri va così ricostruito, smantellato, e sezionato: passa sotto la lente d’ingrandimento di Lagioia, e tutti gli eventi che hanno tenuto insieme i due e la famiglia. Tutto quello che lentamente ha creato un silenzioso patto tra fratelli ad agire contro la propria famiglia, come animali che si ribellano alla propria specie. Lui schizofrenico, che ama soltanto Clara, in quella terra di nessuno che è la casa del padre e di una madre adottiva che lo detesta (in quanto figlio di un’altra donna). E lei sempre più ribelle, che nel distacco da Michele, l’unico essere che riconosce esserle simile in quella famiglia che comincia a odiare, progressivamente perde la ragione. Perché le azioni e i pensieri dei due fratelli, che per anni sono costretti a separarsi e mandare avanti una vita a memoria a distanza, diventano imprevedibili, rasentando talvolta l’incomprensibilità. Incomprensibili come animali: del resto Lagioia si diverte nelle lunghe descrizioni a parlare di mille specie animali e dei loro comportamenti.

Novelli Heathcliff e Catherine della Bari del ventunesimo secolo, in uno scenario che si rincorre tra le periferie dell’Ilva di Taranto e il tavoliere pugliese piuttosto che nelle brughiere deserte inglesi, tra affaristi e uomini sposati che trasformano il volto di Chiara in quello di una succhiacazzi addomesticata alla perdita e a un intimo dolore, non sono loro i soli protagonisti di un romanzo che va avanti seguendo una trama ricchissima, spietata, che si costruire per gradi come un magnete a cui si attaccano le varie sorti del microcosmo della famiglia Salvemini. Come un Franzen allucinato, Lagioia descrive i fasti e le ombre dei Salvemini attraverso la loro parabola: percorsi e scelte che somigliano in piccolo alla nostra storia italiana. È in questo incavo la chiave di volta del romanzo: nel descrivere quello che sta capitando intorno a noi, fosse anche la mania del tweet compulsivo di cui non ci liberiamo neanche nei momenti di lutto. E nell’evocare volti dispersi nella memoria di un tempo che diventa fisicamente vivo. Come il realismo viscerale e magico dei bei tempi andati. Il tutto risulta essere perfettamente contemporaneo. E la contemporaneità spesso ci manca. In fondo la viviamo continuamente.

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