Nascerà una bambina, e avrà il tuo sangue, e il tuo sangue ti giudicherà. Lo dice il vento che nascerà, lo dicono le voci di tutte le donne gravide nei letti. La tua bambina nascerà e con lei nasceranno altri bambini. E le loro madri soffriranno molto, e le sentirai sgravidare in solitudine, maledire le poltiglie precipitate fra le loro gambe. Piccoli luminosi cumuli di carne.
Una profezia. Una maledizione. Comincia così Arruina. Una favola oscura, esordio nella narrativa per i tipi de Il Saggiatore di Francesco Iannone, salernitano, classe 1985. Al centro della storia la nascita di una bambina – Sperduta – al cui destino è intrecciato quello del Regno delle Nerissime, che solo attraverso la sua morte potranno aver salva la vita, e a quello dell’umanità intera.
È una scena di grande, grandissima potenza quella del rapimento della bambina da parte delle Nerissime, le Ianare trasformatesi in cinghiali che assediano la misera casa di campagna, le setole ispide, le zanne appuntite: Iannone ci mostra – come in una sospensione della ragione e dalla realtà – i loro fiati nauseabondi che riempiono il gelo dell’aria, lo spazio angusto di una sola stanza, la luce che entra dall’unica finestra, i fumi dei miasmi mentre i succubi premono sul petto, immobilizzano e pietrificano. Sperduta è stata portata via e Arruina in fondo parte da qui: dal senso di una perdita e dal viaggio che bisogna intraprendere per colmarla.
Anema dei morti accisi e iettati nella fossa […] Arruina cresce come il segno rosso del muorzo di una vampira. Morte ingannaruta come la sete dei serpienti di montagna
Il racconto di Iannone si rifà alla tradizione fiabesca meridionale – quella di Giambattista Basile e del suo Lu cunto de li cunti, alle fabule medievali, inquietanti e allegoriche. Ci sono dentro i traumi, le penombre, le inquietudini delle narrazioni favolistiche campane, dell’entroterra, di terre arse dal sole, terre appenniniche, di contadini e pastori, mani sporche e racconti accanto al fuoco, di paesaggi, ora aspri e brulli, ora dolcemente disegnati dalla mano ispirata di divinità gentili, lontano dalla centralità partenopea, dalla celebrazione dei suoi miti – più urbani, più scaltri, più variopinti come le piume della sirena Partenope.
Il mondo di Arruina è scuro, denso, opprimente. È un mondo dove regna la materia che è inevitabilmente sporca, corrotta. Il rapimento di Sperduta – la cui nascita ha prosciugato la fonte d’acqua delle gole dove vivono le Nerissime – è l’apertura di una ferita, di uno squarcio, come se la stessa ferita rossa che ha diviso il corpo della madre in due – porta d’ingresso dal caldo del grembo materno alla sofferenza del mondo – si replicasse in maniera indefinita fratturando cose, oggetti, tempo, corpi, realtà.
E i corpi soprattutto sono costantemente esposti: uomini, donne, vecchi, bambini, quello delle Ianare, degli animali, quello stesso della terra, sono lacerati, violati dalle mani altrui, dalle intemperie, da sortilegi e malattie come in un’ossessiva mutazione che prelude a una rinascita.
Come ogni favola anche Arruina sospende il tempo, lo spazio, la realtà per portarci dentro un universo dove riecheggiano i ricordi di una memoria infantile mai del tutto sopita: Acquavena “un corpo, una terra, un alfabeto senza nomi”, Terra Orsaia, Selva Nera, Punta Avvelenata, Gola del Diavolo, Valle dell’Angelo, Terradura, via dei Sette Venti fino a Roccagloriosa che è “un sogno e nessuno ha mai saputo niente”.
Un viaggio, un percorso alla ricerca della bambina (s)perduta che i due genitori compiono dentro a un sogno o a un incubo con la voce narrante del padre che lega la storia come con un filo sottilissimo di saliva e di speranza alla terra, un viaggio mai solitario fatto d’incontri coi disperati della Terra, di quella terra, ciascuno col suo dolore e il suo tormento che si uniscono a questa strana carovana per salvare la bambina e liberarsi dalle Nerissime: la Briganta, il Poeta Antico, la Grande Madre, la Sciangata, ‘O ‘Mpasturato, il Matto, i Bambini Immortali.
Quello che più colpisce della scrittura e dello stile di Iannone, mentre ne consumo le pagine con le spalle appoggiate ai bastioni di uno dei più bei castelli dell’alto Cilento – dove l’immensa Marguerite Yourcenar ambientò parte del suo splendido racconto Anna, Soror – è il tono poetico, la manipolazione della lingua, la violazione della punteggiatura, in grado di dare vita a un ritmo nuovo, scrittura come canto continuo, sortilegio benevolo, incanto della parola. Non stupisce allora affatto scoprire il background dell’autore legato proprio alla poesia con le sue pubblicazioni su diverse riviste e le partecipazioni ad antologie poetiche.
Ma qui, in questa vita, dimmi / se il colpire del vento significa qualcosa / se il volteggiare di un uccello nell’aria / indica una via / e il sanguinare di quell’albero / ferito da un’auto all’improvviso / perché non lo sana questo primo sole / estivo?
(da Poesie della Fame e della Sete, Ladolfi Editore, 2011, Premo L’Aquila opera prima)
Quella di un giovane scrittore – che cita Montale, Luzi e Bigongiari – è parola annodata a quella che la precede e a quella che la segue come dentro a un legame di sangue a segnare ritmo e tempo in una catena che non lascia il tempo di prendere fiato come se corressimo anche noi in questa folle corsa verso Roccagloriosa. Lo spazio viene dopo, sminuzzato com’è nella frammentarietà dei corpi, delle zolle di terreno, dei singoli granelli di terra, polvere, pulviscolo. Nel sangue, nel sudore, negli umori degli organi.
È una geografia sospesa nell’aria anche quando alcuni indizi provano ad ancorarla alla realtà: Lagonegro, piccolo borgo lucano, porta di accesso all’entroterra calabro e – soprattutto – Sarno, la cui tragedia del 5 maggio 1998 è richiamata più volte lungo un capitolo. Ed è forse un peccato perché la realtà – pur con la necessità del terribile ricordo dell’onda nera che lasciò ferite profonde nel cuore della gente e ancora visibili sul corpo vivo della montagna – spezza per un attimo la natura dell’incanto.
Perché Arruina è soprattutto questo: un incantesimo che non necessita di senso o morali, è affabulazione che si sottrae a una mano che cerca di sezionarla, un groviglio come nella bellissima copertina del libro – Paete non dolet, 2007 di Anselm Kiefer – in cui è affascinante perdersi con la stessa fiducia dei bambini davanti a un racconto misterioso.
Lontano dal new weird o da forme di narrativa neogotiche, Arruina è il tentativo a un tempo acerbo e brillante di costruire una nuova epica meridionale che possa inscriversi dentro a un filone che ha saputo mettere da parte il semplice cronachismo per lavorare – trasfigurandolo attraverso la complessità del linguaggio – come nelle ultime opere di un Capossela nella musica o di un Martone e di un Pietro Marcello nel cinema – sull’inestimabile patrimonio orale e storico dell’intero meridione.