La vita rappresentata nel lavoro più famoso di Federico Fellini è ben lontana dall’essere dolce, e di certo non si esagera a considerare la rappresentazione sofisticata della noia borghese a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta come la più paradossale e sarcastica negazione del titolo stesso offerta dal grande cinema italiano del tempo. Ma per quanto il regista di Rimini intendesse smascherare senza fronzolo alcuno tutte le ipocrisie della Roma bene, La dolce vita ha finito inevitabilmente con l’influenzare quello stile di vita al centro della denuncia.
Il film segue le avventure del giornalista Marcello Rubini (un ottimo Marcello Mastroianni), un individuo che si muove tra ambizioni da scrittore, incontri con star del cinema e frequentazioni degli ambienti dell’alta società capitolina, assaggiando di continuo “la dolce vita” nella speranza di poter inserirsi finalmente in quel frivolo mondo. La trama è praticamente inesistente, e la narrazione viene scandita per quasi tre ore da una serie di episodi (alcuni serrati e coinvolgenti nell’azione, altri più lenti e introspettivi) apparentemente slegati tra loro ma fondamentali per carpire l’involuzione del protagonista nella sua perpetua ricerca del vuoto valoriale della mondanità, delle luci della ribalta. Marcello rigetta ogni possibilità di riscatto, fugge ad ogni prospettiva di vita non basata sull’apparenza, e Fellini dipinge tutto ciò con un cinismo che colpisce in maniera aspra e scomoda, talvolta pruriginosa.
L’interesse delle implicazioni tematiche della pellicola si accentua grazie a un comparto tecnico clamoroso. La fotografia in bianco e nero sgargiante e soffusa, si amalgama magistralmente ai magnifici set, avvolgendoli con un’atmosfera onirica che nella sequenza della “caccia ai fantasmi” tocca il suo vertice. La perfezione registica influisce, ovviamente, anche sulle maschere della variopinta galleria di caratteristi (nel celeberrimo segmento con la giunonica Anita Ekberg, tra le immagini più iconiche del cinema di ogni tempo al pari dell’incrociatore imperiale di Star Wars o della partita a scacchi tra il crociato disilluso e la Morte in Il settimo sigillo, appare persino un giovane Adriano Celentano) chiamati a puntellare la parabola discendente di Marcello con interpretazioni molto sentite su cui spicca quella di Alain Cuny, vero e proprio contraltare sensibile e malinconico di Rubini.
Il tono surreale che striscia per tutta la fluviale durata vivacizza il campionario di allegorie riconducibili al profondo malessere dell’alta società, sguazzante a tal punto nella propria passiva superficialità da essere insensibile alla bellezza delle cose semplici. Emblematico in tal senso il finale, con la scoperta della carcassa di un mostro marino subito successiva a una squallida orgia notturna, in cui l’ormai assuefatto Marcello non ode il richiamo innocente di una ragazza incontrata precedentemente a un bar, possibile via di scampo a una frivolezza alla quale è inesorabilmente legato. Un finale spiazzante e crudele, per un film tanto stimolante quanto feroce, degna pietra miliare nella carriera di uno dei migliori registi italiani di sempre.