La scrivo ora così: questa pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in quiete, muro nitido, odore di provincia della madreselva, fango essenziale – non è soltanto identica a quella che si verificò in questo angolo tanti anni fa; è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa.
Così scriveva Jorge Luis Borges in un racconto giovanile dal titolo Sentirsi in morte ripreso poi in Nuova confutazione del tempo (Altre inquisizioni 1952, Feltrinelli 1963): una passeggiata notturna nel quartiere di Barracas – un muro rosato che pareva non albergare luce di luna, ma effondere un’intima luce – è la porta d’ingresso di una realtà profonda. Non credetti, no, di aver risalito le prevedibili acque del Tempo; piuttosto sospettai d’essere in possesso del senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità. Il presentimento di confutazione del tempo, alla quale io stesso nego fede, ma che suole visitarmi la notte e nello stanco crepuscolo, con illusoria forma di assioma – è lo stesso che sembra animare le pagine del nuovo romanzo della scrittrice cilena Nona Fernández, classe 1971, autrice di un fulminante esordio con Mapocho che fece dire a Roberto Bolaño «Ogni sua riga è o vitale o fatale, sempre tesa al limite» e ora in libreria con La dimensione oscura (Casa editrice gran vía).
Opera vincitrice nel 2017 del prestigioso Premio Sor Juana Inés de la Cruz, La dimensione oscura è il titolo che inaugura la nuova collana “gran vía diagonal” dedicata alla letteratura obliqua; il sesto romanzo della scrittrice cilena è, infatti, un ibrido capace di mescolare la cronaca, l’inchiesta giornalistica e l’opera d’immaginazione. È, soprattutto, il racconto di un’ossessione, quella nata sui banchi del liceo leggendo la rivista Cauce – Le immagini presenti su ogni numero creavano a poco a poco un paesaggio confuso di cui non riuscivo mai a farmi un quadro completo – sulla quale comparve lo scoop destinato a cambiare le sorti della politica e della storia cilena.
Il 27 agosto del 1984, in piena dittatura, un uomo alto, magro, moro, con folti baffi neri arriva negli uffici di una rivista di opposizione. È un agente dell’intelligence. Ha deciso di parlare, di raccontare tutto ciò che sa sui sequestri, sulla sparizione dei cadaveri, sulle torture che si compiono nei quartieri residenziali dove è cresciuta la piccola Nona. Quell’uomo si chiama Andrés Antonio Valenzuela Morales, soldato di primo grado, documento d’identità 39.432 rilasciato dal comune di La Ligua; da quell’ufficio sarà portato nelle stanze del Vicariato di Santiago dove non soltanto aiuterà a scoprire i nomi dei carnefici e dei colpevoli ma aprirà per la prima volta una porta sulla dimensione fino a quel momento sconosciuta della tragedia cilena.
Perché riesumare una storia iniziata oltre quarant’anni fa? Perché parlare ancora di sevizie, scariche elettriche e topi? Perché parlare ancora di sparizioni di persone? Perché parlare di un uomo che ha preso parte a tutto questo e di colpo è giunto a capire di non poterlo più fare?
Nona Fernández non riesce a dare risposta a se stessa e alla sua personale ossessione. Sa però – anche se non lo dirà mai apertamente – che quella storia letta da adolescente è stata il confuso lasciapassare verso la vita adulta – Non comprendevo, né comprendo tuttora, ciò che è accaduto intorno a me quando ero una bambina, e nel tentativo di capire suppongo di essere rimasta stregata dalle sue parole, e dalla possibilità di decifrare, con esse, l’enigma.
Nel libro, dirà a un certo punto di se stessa di avere vocazione di medium e di sbirra e se la seconda voce richiama da vicino proprio quell’idea di letteratura così cara a Bolaño, è soprattutto la prima a rappresentare la spinta che muove i suoi passi sulla pagina bianca. Sono nata con queste scene installate nel corpo, inserite in un album di famiglia che non ho scelto né riempito – Nona Fernández obbedisce a un destino scritto nel sangue; nel suo lavoro di sceneggiatrice ha lavorato a diversi documentari e quelle immagini del passato sono diventate la materia attraverso cui ha setacciato ogni angolo di quell’album in cui dimorano, alla ricerca di codici che potessero aiutarmi a decifrarne il messaggio. Perché sono certa che, proprio come una scatola nera, contengano un messaggio.
Ecco allora che La dimensione oscura si fa racconto suggestivo e potente sul rapporto tra scrittura e memoria. Ma come si serve la memoria? Quali le cose che la ridestano, la mettono in contatto con il presente, la esumano dalla tomba, le infondono un soffio di vita, resuscitando una creatura fatta di schegge, parti di corpi diversi, frammenti di ieri e di oggi? È qui che il lavoro di Nona Fernández scarta rispetto alla cronaca, al reportage, innalzando la non fiction sui territori impervi di un’immaginazione lussureggiante che si fa di volta in volta malinconica, pietosa, misericordiosa, giusta, più nitida della memoria stessa.
Perché ne La dimensione oscura Nona Fernández non cerca solamente di ricostruire i giorni successivi alla confessione di Morales, il suo percorso di uomo che si coricava e si alzava con addosso l’odore di morto, ma restituisce, grazie alla forza dell’immaginazione e al potere della letteratura, i pezzi mancanti della vita delle sue tante vittime: ecco allora José Weibel Navarrete, responsabile del Partito comunista, Carlos Contreras Maluje, i tre fratelli Boris, Lincoyán e Carol Flores, Alonso e Yuri Gahona, il Quila Leo, e ancora il giovane Mario e le sue tante famiglie, Hugo Ratier e Alejandro Salgado e il corpo violato di Lucía Vergara sullo spartitraffico di calle Fuenteovejuna.
Nona Fernández si muove per le stesse strade della sua città per raccontare la storia di chi improvvisamente ha smesso di esistere, per dare voce a chi non ha più potuto gridare se non durante le torture. La Storia, il Cile, le case che incrocia non sono un semplice scenario ma elementi vivi – è come se le costruzioni avessero coscienza di ciò che sto raccontando e, dinanzi al ricordo, il paesaggio restasse muto cercando di dare spazio a ciò che i nostri occhi non possono vedere, a ciò che in apparenza non c’è più.
Presente, passato e futuro si amalgamano e insieme con essi la quotidianità della vita della scrittrice – da bambina, da adolescente, da adulta – con la Storia e le storie. Nona Fernández ci racconta di un Cile prostrato dal peso del proprio passato, di un inquietante territorio in cui abita l’ottanta per cento dei miei compatrioti. Un luogo angosciante e frenetico, regolato da psichiatri, antidepressivi, ansiolitici e sonniferi dove ogni cosa – animata e inanimata – è la voce di un fantasma che chiede attenzione.
I passanti, la gente ferma per strada, mia madre, l’autista dell’autobus, coloro che abitavano il mondo concreto della vita di tutti i giorni furono testimoni fugaci della fenditura da cui era possibile intravedere la dimensione ai confini della realtà.
Proprio come nella popolare serie americana della fine degli anni cinquanta, la confessione di Morales diventa così una prova evidente e concreta, un messaggio inviato dall’altro lato dello specchio, reale e irrefutabile, per dimostrare che quell’universo parallelo e invisibile era realtà e non, come molte volte si era detto, frutto della fantasia.
Nell’attraversare la porta che conduce alla dimensione oscura, Fernández – come il protagonista del racconto di Borges – ci riporta direttamente in uno spazio/tempo che non assomiglia al passato ma che emerge tra le sue pagine come un racconto condannato a un presente perpetuo dove ogni foto è una cartolina inviata da un’altra epoca. Un grido di aiuto che chiede di essere ascoltato.
Nel film argentino Moebius del 1996, girato da Gustavo Mosquera insieme con alcuni studenti dell’Universidad del Cine di Buenos Aires, un treno che scompare misteriosamente tra le gallerie della metropolitana diventava metafora dei desaparecidos; in una toccante scena finale il topologo chiamato a risolvere l’enigma sentiva passare il treno, il rumore delle rotaie sui binari, le grida dei suoi passeggeri senza riuscire a vederli. Nona Fernández con la sua vocazione da sbirra riprende quel filo mostrandoci il volto, le vite e gli ultimi istanti quasi a voler donare alle vittime un ultimo istante di verità e di pace.
Espulsa dai confini di quell’immaginario sconosciuto, impotente dinanzi all’espressione di un linguaggio che non sono capace di scrivere, so soltanto che ci sono altre cose che mi risultano più facili da immaginare. Cose che sono al di fuori di quella zona oscura e che posso custodire come una lanterna per orientarmi meglio.
Memoria e immaginazione sono i cardini che sorreggono la porta che separa la scrittrice dalla dimensione oscura che ha coinvolto la sua terra. Immaginare è il verbo che più torna, e non è un esercizio di fantasia ma una missione che cerca – riuscendoci – di restituire alle vittime quella vita che gli è stata strappata via. È un modo – forse l’unico anche al di sopra della necessaria giustizia – per strapparle al bianco e nero dei giornali dell’epoca e riportarle al colore di padri, madri, sorelle, fratelli, uomini e donne nuovamente nel breve ritratto di una pagina, lontani per una volta dalla condanna terribile e perenne di vittime del regime.
Lo fa attraverso una prosa che brilla per bellezza formale ed eleganza e che è capace di guidarci in uno straordinario racconto di fantasmi che abitano un paesaggio insieme reale e immaginario dove passato e presente si fondono in un’unica materia – La mia mente va in cortocircuito e immaginando ricrea le storie rimaste in sospeso, completa i racconti lasciati a metà, visualizza i dettagli non menzionati. È un paesaggio fluido – onde che vanno e vengono come le scene che ho cercato di immaginare – un incubo in cui il futuro è lo specchio deformato dall’orrore – e verrà il futuro e avrà gli occhi di un demonio che sogna.
Attraverso La dimensione oscura Nona Fernández consegna al pubblico un’opera bellissima che mescola contemporaneità e paure ataviche, poesia e cronaca e che segna in maniera chiara e netta un punto altissimo nel rapporto tra letteratura e memoria.