Secondo Ludwig Wittgenstein, le parole ci permettono di visualizzare delle immagini mentali di fenomeni e fatti. È attraverso questa visualizzazione interiore che comprendiamo il significato di quelle parole, costruendoci un’immagine specifica e che è a sua volta veicolo per comunicare con terzi. Tuttavia nessuna immagine si presenta come puramente neutrale, o universalmente predeterminata.
Se si pronunciasse la parola coda in presenza di un russo o un ucraino, probabilmente l’immagine derivata sarebbe quella delle lunghe code in Unione Sovietica, quando la popolazione se ne stava ritta per ore in attesa fuori dai negozi. Questo fenomeno è rappresentato da Vladimir Sorokin nella sua opera sperimentale La coda (Ugo Guanda Editore nella traduzione di Pietro A. Zveteremich, 2013): una cascata di dialoghi in cui il narratore si annulla e resta a margine, riportando in modo voyeuristico tutti gli stralci di conversazione che riesce a registrare. La coda è una delle macchie della storia sovietica e allo stesso tempo oggetto di numerose barzellette: è un fermo immagine peculiarmente sovietico.
È un’immagine spesso associata alla carenza di beni di prima necessità, che in tempi più recenti è penetrata anche nell’immaginario inglese quando, in seguito agli accordi per l’uscita dalla UE, gli esperti sembravano non riuscire a dare forma ottimistica all’ignoto post-Brexit.
Da cittadini in un paese soffocato dalla burocrazia e dalla lentezza dove ci si deve mettere in fila per qualsiasi cosa, siamo ormai anestetizzati davanti alla coda alle poste, agli sportelli pubblici, al banco gastronomia al supermercato, a vedere le code fuori dagli uffici immigrazione della Questura.
Con l’emergenza COVID-19 e l’inasprimento delle misure di contenimento del virus, l’immagine che avevamo della coda ha subito una drastica trasformazione, è uscita dai suoi confini prettamente nazionali: è diventata un’immagine globale, ha fatto drammatica irruzione nella routine dei cittadini da una parte all’altra del globo.
Tutt’al più, la coda è esplosa dai suoi cardini antropomorfi: da un lato i chilometri e chilometri di ambulanze in Russia, in attesa di entrare in ospedale, dall’altro la processione lugubre dei convogli militari, carichi delle salme di chi non ce l’ha fatta.
Tuttavia è in quel serpente umano che si muove fuori dai supermercati che abbiamo, un po’ tutti, avuto modo di osservare lo scorrere del tempo sotto il Coronavirus. La coda non è più solo momento di esasperante attesa, ma anche di sospetto, paura, ansia, rassegnazione. All’inizio abbiamo origliato o partecipato attivamente a conversazioni con battute ciniche, minimizzando la situazione. Con il susseguirsi delle settimane siamo stati testimoni e partecipanti di una crescente cappa di silenzio, di sospiri pesanti. Alcuni di noi hanno iniziato a fumare di più, altri hanno ricominciato a fumare.
Ad accesso limitato, abbiamo attraversato quegli scaffali come facevamo prima ma muovendoci in maniera diversa, con più cautela, spesso a disagio: calpestando una nuova planimetria, contrassegnata dallo scotch attaccato al pavimento, per tracciare le distanze necessarie tra gli uni e gli altri. Un metro, due metri. C’è il senzatetto che se ne sta con i suoi compari nella piazzetta davanti al supermercato, non ha una casa dove restare, si compra una bottiglia di rosso. C’è la mamma di una famiglia numerosa che mette sul nastro tre confezioni di yogurt da sei, ha le occhiaie sotto gli occhi. C’è il signore che ieri ha fatto la spesa massiccia ma che si è dimenticato l’olio d’oliva e oggi è tornato, perché senza quello non si può mica cucinare. C’è la cassiera, dietro la mascherina, che passa meccanicamente gli articoli sul nastro. Lavoratore essenziale. Ogni tanto sospira.
Ci sono quartieri interi che si riversano in strada, e che al restare a casa preferiscono mettersi in coda.
Oggi l’ennesima coda. È metà mattinata, siamo otto persone in fila, soprattutto donne e anziani. Nessuno parla, qualcuno accenna un sorriso dietro la mascherina, lo si intuisce dalle rughe intorno agli occhi. “Da quanto state aspettando?” chiede una suoretta appena arrivata, è l’ultima della fila ora. “Tocca a me entrare per prima ora, sono qui da venti minuti circa” risponde l’aprifila. Cala di nuovo il silenzio, nessuno accenna a dire qualcosa.
C’è aria di primavera, e ce ne stiamo tutti zitti ad ascoltare il cinguettio degli uccelli.