La chiusura di XL e l’agonia della stampa

C’è stato un tempo lontano in cui La Repubblica la compravo, di tanto in tanto, e per questo so quanto sia raro uno sciopero dei suoi giornalisti. In genere sono i giorni dopo le feste quelli in cui i quotidiani prendono un attimo di respiro, si mettono in pausa: il 26 Dicembre che segue il Natale per esempio, o il 2 Gennaio, eccetera. Da lettori non abbiamo mai preteso che un giornalista lavorasse per noi anche a Capodanno o Natale, anzi ci sembrava perfettamente naturale che anche i giornalisti avessero diritto a giorni di ferie, questo anche se il mondo corre comunque e il loro mestiere è riportare il mondo in fondo. Oggi tutto questo non ha più molto senso, con la concorrenza spietata a tutto tondo che continua il frenetico lavorio anche a Natale e a Ferragosto: tutto questo è il web journalism, il giornalismo 2.0, e via dicendo. Niente pause, niente respiri, niente feste comandate, o sei fuori da giro: chi si ferma è perduto. Sta di fatto che in questo impasse si può anche barare, del resto è un giornalismo che circola attraverso i social network quello di tipo nuovo, non c’è il bisogno reale e fisico di essere nella redazione, ma su twitter e facebook sì. In un mondo nuovo del genere la crisi dei giornali di carta, della stampa, non è una buona notizia per nostalgici, ma è anche perfettamente coerente al modus nuovo che stiamo vivendo sulla e sotto pelle.

L’ultima news della serie è l’annuncio della probabile chiusura dell’inserto musicale XL di Repubblica: nessuno si deve essere stupito più di tanto visto che la musica è probabilmente il settore più colpito da questa grande trasformazione. Oggi la musica viaggia a ritmi straordinari da tempo reale, grazie a servizi di streaming possiamo addirittura ascoltare quello che vogliamo quando lo vogliamo, e spunta a mesi alterni addirittura la concorrenza di questi software sul modello Spotify e Deezer. Inoltre, siamo connessi al mondo intero, e XL deve fare i conti con Pitchfork, e Consequence of Sound, più le varie webzine e riviste esclusivamente online che tutti i giorni martellano di notizie e ascolti. Anche Il Mucchio si è trovato a dover fare i conti con questa trasformazione, e così ha dovuto aggiornare il sito ai nuovi standard. Tutto diventa una questione di proposta musicale e culturale assieme: quello  che diventa importante per essere degli aficionados di una webzine nel XXI secolo è che la proposta sia di qualità, e aggiornata continuamente. In questo senso il valore delle firme de Il Mucchio diventa meno importante dell’istante in cui il messaggio viene trasmesso. La recensione di un certo disco uscita lo stesso giorno del rilascio del disco su un magazine online, acquisisce un plus rispetto a quella da attendere da scoprire solo su carta. Se un tempo l’attesa del piacere era essa stessa piacere, oggi il piacere è immediato. Siamo di fronte, insomma, a una trasformazione epocale della fruizione della cultura: questo potrebbe avere un effetto positivo sulla distribuzione della conoscenza, che non verrà riservata soltanto ad alcuni, ma distribuita (secondo ovviamente i gusti e la curiosità di ricerca) in maniera più equa. E questa mi pare una grande conquista della trasformazione che stiamo vivendo. Dall’altro assistiamo alla lotta di concorrenza spietata tra tutti, e non conta più il nome del giornale, conta quanto va bene la giornata, e quanti colpi di culo hai in quella particolare giornata. Le conseguenze del nuovo modello, e la lenta agonia del giornale di carta, non hanno però ancora trovato un equilibrio di mercato. Ci si può davvero sostenere soltanto con la pubblicità in questo nuovo modello?

Riguardo Il Mucchio Massimo Del Papa ha denunciato lo stato delle cose attuali: ”Mi informano che un giornale in fase terminale, senza fare nomi il mucchio, starebbe tirando avanti grazie all’apporto di novizi che avrebbero accettato di faticare senza alcun compenso, giusto per onor di firma.” La disgrazia del nuovo modello è questa: il numero di persone sempre crescenti disposte a scrivere gratuitamente o per pochi spicci su un giornale o un magazine. Pensiamoci un attimo: la trasformazione della figura di giornalista in web content, social media editor, copy writer, web editor, e via dicendo. Un modello americano che però non possiamo permetterci, data la situazione totalmente diversa che viviamo in Italia con un Ordine dei Giornalisti che mantiene in vigore un sistema che non si regge in piedi. Il presupposto del sistema è semplicissimo: vuoi scrivere per me?però gratis, in cambio ti faccio il tesserino, oppure puoi entrare con accrediti agli eventi (Tone Deaf è un magazine australiano musicale che mette in chiaro subito le cose con i collaboratori che non siano quelli fissi, se vuoi scrivere avrai appena gli accrediti per gli eventi e i concerti). In un certo senso lo smantellamento del sistema ordinario, ovvero quello dello smercio non pagato di tesserini, potrebbe alleggerire già una situazione saturissima. Resta la questione del fare i conti col grande cambiamento, e di cosa deve fare oggi una rivista per essere innovativa.

Io non credo che i giornali su carta debbano scomparire, checchè ne dicano gli iPad che comunque quotidianamente ci rendono il servizio di poterli leggere. Però forse devono prepararsi all’ipotesi di scomparire, e in questo partono avvantaggiati, perchè lo zoccolo duro della fan-base (oggi si dice così, più che lettori) loro ce l’hanno già. In un futuro, in cui questa transizione si sarà realizzata a pieno, conterà molto di più la qualità, ma l’offerta sarà sempre più numerosa, per via della falicità di non dover stampare, e la concorrenza sarà spietata. Vorrei citare una riflessione di Gabriele Del Grande, che è un reporter (non iscritto all’albo) che ultimamente – per esempio – è stato in Siria e ci ha regalato un intenso reportage su Internazionale: ”Mentre la stampa italiana muore di vecchiaia e di privilegi, è nato un nuovo giornalismo. Un giornalismo povero, fatto di pochissimi soldi e di occhi nuovi. Gli occhi di tanti ragazzi e ragazze che viaggiano a piedi, senza redazioni alle spalle, senza scorte e senza grandi alberghi, senza traduttori e senza militari. (..) È un giornalismo post-coloniale. È il giornalismo della nostra generazione.

Foto di Gabriele Del Grande (Siria)

In questo nuovo tipo di ”giornalismo post-coloniale” o 2.0, per usare le varie espressioni che in fondo non contano niente, quello che conterà saranno anzitutto i contenuti e la proposta di selezione, la scelta delle news da dare, la linea editoriale, e la qualità dei contenuti di lunga durata, dunque anche la bravura e la passione con la quale si fanno le cose. Vedremo se andrà così, o se il mercato non riuscirà a creare un equilibrio del genere. Ovviamente le storzature ci saranno, e ce ne saranno tantissime. Ma le vie e i modelli sono due a questo punto: produrre tutto su tutto, senza selezione e scelta, fare i generalisti, sottopagare i redattori, o non pagarli per niente; o uscire da questa trasformazione con una proposta di lettura (e ascolto, nel caso si tratti di musica). Integrare tutte le qualità che internet ci permette di offrire al pubblico, e non trattarlo come una fan-base: video, fotografia digitale, suoni, riferimenti, link esterni. Smuovere la cultura in fondo, che sarebbe una gran bella iniziativa globale. In ogni caso è nell’interesse nostro e vostro che si scelga il secondo modello.

Probabilmente il vero limite che ci troveremo ad affrontare in futuro sarà linguistico, per la crescente alfabetizzazione inglese del lettore medio italiano, bisognerà dunque fare i conti con una concorrenza di lingua inglese che parte ovviamente favorita a livello mondiale, e stare attenti nel non cadere nell’errore di fare i traduttori piuttosto che i propositori. Ma è un problema troppo futuro perchè io possa preoccuparmene in vita.

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