La cosa più brutta per chi sia ricercato dalla polizia in una città come Barcellona è che tutte le botteghe restano chiuse fino a tardi. Quando si dorme all’aperto ci si sveglia sempre all’alba, e non c’è un caffè a Barcellona che si apra molto prima delle nove. (Goerge Orwell – Omaggio alla Catalogna)
Il vento è movimento e forza. Riesce a spazzar via la quiete con il furore della sua passione. Ci sono giornate in cui il vento per strada finisce per sfiorare anche voi, occasionali passanti in cerca di riparo – e qui ne comprendete la forza sfacciata, perché senza quel vento tutto sarebbe immobile intorno.
I movimenti indipendentisti somigliano molto al vento. Rimescolano le carte della quiete, e si fondano su antiche utopie del caos. Negli ultimi tempi i venti indipendentisti sembrano essere tornati con forza a rivendicare aspirazioni e spazi, riportando al centro un lungo dibattito che sembrava abbandonato nell’era della società interconnessa e globale: cosa significa essere indipendentisti. Mentre da un lato si fa largo la retorica dell’abbattimento delle frontiere nazionali e del “no borders”, piccole identità nazionali sembrano riemergere con forza, e ci rendono il conto di quanto siamo in realtà fragili e disorientati. Basti pensare a come in seno al progetto dell’Unione Europea siano emersi i fantasmi di rivendicazioni e aspirazioni diverse – così è difficile non pensare che la paventata unione sia ancora insoddisfacente per i cittadini europei.
Forse ci siamo illusi che la vecchia utopia europea potesse realizzarsi, anche se sapevano che il grido alle frontiere aperte era solo uno slogan di facciata, e che l’Europa non riusciva a trovare se stessa e la sua vocazione. Sbandata, proseguiva a tentoni, pensando che la forza di un progetto e di una visione con il tempo potesse realizzarsi. Ma mancava il collante che teneva insieme la comunità immaginaria, mancava la nazione europea, mancava il sogno che accendeva gli spiriti dei cittadini: in una parola mancava il vento. Già la Brexit e il riemergere di movimenti populisti nazionalisti rispecchiavano la realtà molto più della moneta unica. Ma esiste un caso di comunità nazionale che è ancora diverso, e di cui negli ultimi tempi sentiamo il vento agitarsi in Europa. Possiamo fingere di ignorarlo e aspettare che passi, oppure provare a capire perché continua a soffiare e non si spegne.
L’indipendentismo catalano
Per paesi che si affacciano sul Mediterraneo come Spagna e Italia il concetto di stato nazionale è fragile. Hanno vissuto scambi, contaminazioni, dominazioni – così non è certo stupefacente se nel dialetto napoletano troviamo retaggi di lingua francese, e in quello veneto di lingua spagnola. Come non è stupefacente che il catalano sia un po’ una commistione di spagnolo e francese – per la sua natura di lingua “dei Pirenei”, parlata nella Catalogna spagnola, Andorra e nella regione del Rossiglione in Francia, a confine con la Spagna. In fondo le lingue a cosa servono se non al fine pratico di comunicare tra noi. Se immaginiamo la nascita del catalano come lingua autonoma dobbiamo per forza immaginare un uomo che voleva parlare del tempo e del commercio con gli amici in un’area circoscritta: quella macchia è la Catalogna. Fa niente se poi sopra è stato disegnato un confine che per una parte è finito in Spagna e per un’altra in Francia. Spesso le Corone non han tenuto in conto gli uomini. Così – con il problem solving che tracciava il confine dei due stati lungo una catena montuosa, e la Pace dei Pirenei – la signora che viveva nella regione del Rossiglione diventava una cittadina francese, e la figlia andata in sposa a un artigiano di Barcellona – spagnola.
Che per tutti questi anni e sommovimenti il catalano abbia resistito al tempo e alla storia è un piccolo miracolo. Non fraintendiamoci – non è miracoloso che il catalano venga parlato, ma che abbia la funzione e l’autonomia di una vera e propria lingua – che venga insegnato a scuola, che dia forma e sostanza a conversazioni in ufficio, che venga utilizzato nei depliant turistici come lingua propria insieme allo spagnolo. È qualcosa che per esempio a Napoli sarebbe difficile da immaginare, perché il napoletano è sia dialetto che lingua parallela (a volte fondante) della città, ma non ha l’autonomia linguistica e la forza di arrivare in forma scritta ufficiale per le strade e nelle scuole.
Pensiamo al Primavera Sound Festival e all’importanza della lingua catalana per il festival più “internazionale” d’Europa. Il sito del Primavera Sound è disponibile in tre lingue: catalano, spagnolo e inglese. Nonostante il festival si riservi di restare in silenzio sulla questione dell’indipendentismo catalano – e comprendiamo bene tutti i perché, la centralità dell’identità catalana assume un aspetto abbastanza importante per un festival che continua ad attrarre anno dopo anno un pubblico misto da tutta l’Europa e il mondo. Talmente importante che non stupisce come lo scorso Settembre il festival abbia deciso di “esporsi” con una dichiarazione di condanna alla dura risposta del governo di Madrid al referendum indipendentista catalano, con arresti e scontri che avevano messo in disordine la città che ospita il festival, Barcellona. In quell’occasione il Primavera Sound ha fatto un appello all’unità, condannato la repressione, esprimendo sostegno a tutte le istituzioni, i corpi e le persone che avevano subito una violazione dei loro diritti civili fondamentali. E non stupisce se da quella dura risposta di Rajoy in poi, il vento indipendentista si sia andato rafforzando – perché non esiste unità che giustifichi la violenza di quelle giornate.
Immaginate di vivere in un paese che non vi rappresenta più, e viaggia a un ritmo diverso dal vostro (sì – è tremendamente facile immaginarlo anche da qui). Immaginate che la vostra sensibilità e le vostre idee vengano sistematicamente messe a tacere da una forza più grande – che chiameremo governo, un governo mescolato a revanscismi franchisti e politiche dell’austerity che da parte vostra poco condividete. Forse sarete spinti da un vento che vi chiede di diventare più autonomi, indipendenti, in poco parole più liberi di cercare la vostra personale direzione al progresso. Forse inizierete a vivere come un peso la storia che vi ha portato a essere “dipendenti” da idee, sogni, comunanze, che non avete mai amato e condiviso, forse vi sentirete intrappolati – come quando mandate avanti una vecchia relazione a memoria, e non c’è più romanticismo e voglia di utopie, ma solo la realtà di sottofondo e tutte le sue ossessioni. Allora quel vento catalano qualche volta avrà sfiorato anche voi e i vostri pensieri, e non saranno i pensieri leghisti che non hanno mai avuto una storia o un’identità a plasmarli, non saranno i pensieri leghisti balzati fuori da una serie di interessi comuni tra un numero imprecisato di imprenditori, amanti delle statistiche del Pil italiano e fanatici di un fantomatico spirito del Nord.
Saranno pensieri di emancipazione e autonomia.
Dopo Francisco Franco
La via più allegra del mondo, la strada dove vivono insieme alla volta le quattro stagioni dell’anno, l’unica via della terra che vorrei non finisse mai, ricca in suoni, abbondante di brezze, bella di incontri, vecchia di Sangue: Rambla di Barcellona. – Federico García Lorca, poeta ucciso da Franco
“L’identità nazionale catalana, frustrata per anni dal regime di Franco, ha finalmente avuto modo di fiorire con il ritorno della democrazia” – ci racconta Giacomo, italiano che vive e lavora a Barcellona. “In una situazione dove i rappresentanti del precedente regime sono in gran parte confluiti nel principale partito di governo (cfr. il Partito Popolare), è inevitabile che i Catalani si sentano parte di uno stato che non ha del tutto rigettato quel periodo buio della sua storia. In Italia il fascismo è stato cacciato con molta più sicurezza, mentre in Spagna la transizione negli anni ’70 non ha portato a una vera e propria condanna. In un contesto del genere la Catalogna sembra essere la comunità autonoma più progressista in un paese dalle forti nostalgie franchiste”, aggiunge.
La percezione che in Spagna si abbia un problema a partire proprio da come sia nata la Costutizione del 1978 è palpabile. Il governo di Madrid e Rajoy hanno puntato il dito contro il carattere incostituzionale del referendum catalano dello scorso primo Ottobre, appellandosi all’articolo 155 della Costituzione spagnola che – con un sofisticato e sapiente mix di sofismo tautologico – obbliga a far rispettare la Costituzione con tutti i mezzi. Se una Comunità Autonoma non rispetta gli obblighi costituzionali e le sue leggi, o si comporta in modo da attentare gli interessi generali della Spagna – parafrando il testo – l’articolo 155 autorizza il governo a prendere le misure necessarie per obbligare tale comunità ad adempiere agli obblighi. Sì – anche forzatamente.
In Spagna sono stati diversi gli appelli che hanno preceduto il referendum a mettere in chiaro l’incostuzionalità del progetto. Cinquecento professori universitari spagnoli avevano firmato un manifesto in difesa della costituzione definendo il referendum illegale: il Parlamento catalano “sta sovvertendo le regole basilari del costituzionalismo e abusando del potere che gli è stato conferito” – sottoscrivevano. Lo scrittore Javier Cercas aveva definito invece il referendum un vero e proprio golpe illegittimo, tuttavia auspicava di trovare una soluzione in senso federale per l’Europa che garantisse più autonomia e spazi aperti, proprio a partire dall’esperienza catalana. Ma il problema dei vari appelli nel nome della Costituzione resta nel momento in cui un paese (o una sua parte) non crede nel processo che ha portato alla nascita della carta costituzionale. Nonostante la Costituzione Spagnola abbia garantito un’autonomia a regioni come Catalogna o Paesi Baschi, sembra mancare una vera e propria fiducia in questa carta nata dalla retorica del “prima la democrazia, e poi i diritti sociali”. Ovvero, quell’idea per cui una Costituzione si è posta come primo obiettivo e collante nazionale di far fuori Francisco Franco. Il Francisco Franco che ha sempre messo a tacere ogni autonomia, che sognava una grande Spagna centralizzata, il dittatore che ha ammazzato poeti e dissidenti. Il Francisco Franco che – come un fantasma – ancora si aggira per la Spagna.
In un clima in cui il governo di Rajoy ha risposto con violenza e durezza all’auto-proclamato referendum indipendentista catalano, arrivando a mobilitare le forze di polizia contro le persone, e ad arrestare i dissidenti, in nome di cosa resta da difendere una carta costituzionale? – se la stessa carta costituzionale “ammette” la legittimità di tale violenza. In un momento in cui l’Europa cerca disperatamente di ridefinire se stessa, senza ripetere gli errori delle sanguinarie guerre che hanno portato alla mappa geografica con cui ci muoviamo attraverso i confini oggi, forse sarebbe il caso di ascoltare cosa hanno da dire gli indipendentisti – e anche i loro oppositori, perché no.
Indipendentisti e non
“Non penso che ci sia una maggioranza di Catalani favorevoli all’indipendenza, ma lo stato centrale dovrebbe smettere di trattare come bambini disubbidienti milioni di cittadini, e prendere sul serio le loro richieste, ascoltarli, e fargli capire che la Spagna vuole davvero che la Catalogna resti all’interno del paese”. Giacomo ci racconta una frattura anche all’interno dei catalani stessi. Del resto al tempo dell’Europa il significato di indipendentismo ha mutato i suoi connotati, perché contiene in sé l’equivoco che proclamare l’indipendenza da uno stato centrale possa voler dire proclamarla automaticamente dall’Europa (anche se slogan come Catalunya, Nou Estat D’Europa, contraddicono la veloce equazione) . E le titubanze e la fuga di Puidgemont all’estero dopo il referendum del primo Ottobre, sono state una parentesi della parabola indipendentista catalana che ha confuso ulteriormente le idee.
Ma chi sono questi cittadini che – a turno – vogliono o non vogliono l’indipendenza? Cosa li spinge ad assecondare il vento – o lottare contro quel vento? Grazie all’aiuto di Roberta D’Orazio, italiana che vive da tempo a Barcellona, abbiamo raccolto due testimonianze sul significato di indipendentismo nella comunità catalana.
“L’indipendenza non ha senso. La Catalogna senza la Spagna non può sopravvivere” – è la voce di Carmen, anche lei italiana, sposata da tempo con un catalano contrario alle rivendicazioni indipendentiste. Naturalmente non tutti quelli che vivono in Catalogna sono a favore di uno stato indipendente o delle richieste di maggiore autonomia. Per Carmen le rivendicazioni catalane ricordano molto quelle della Lega Nord in Italia, “anche se la Catalogna si appella a motivi storici, che non esistono – perché non è mai stato un reino autonomo, e non ha mai avuto un’indipendenza nel corso della storia. Era un contado che dipendeva dalla Spagna. E anche se sono passati 300 anni si continua a festeggiare una sconfitta”. Carmen si riferisce alla Giornata Nazionale della Catalogna, festeggiata ogni anno l’11 Settembre. Dopo aver perduto la parte francese oltre i Pirenei, la Catalogna mantiene la sua autonomia in Spagna, ma fa la scelta di appoggiare il pretendente al trono spagnolo sbagliato – così il vincitore si vendica mettendo a ferro e fuoco Barcellona, sancendo la fine dell’autonomia catalana l’11 Settembre 1714. È la Spagna castigliana a vincere, quella di Madrid. E ancora oggi sui campi di calcio si gioca una partita più importante di quella tra Messi e Cristiano Ronaldo. “La Costituzione a suo tempo qualcuno la votò” – Carmen è piuttosto dura nel ricordare che anche i catalani sono complici della nascita di quella Costituzione post-Franco con cui oggi sono critici.
“La speranza è quella di costruire uno stato al passo coi tempi nel XXI secolo: senza monarchia, senza Senato e con leggi più moderne. Non come quelle di una Costituzione che risale al 1978 e nessuno ha mai voluto ritoccare”. L’altra voce è quella di Pol, 30 anni, favorevole all’indipendenza della Catalogna senza se e senza ma. Per Pol le richieste catalane non sono solo lo sfogo contro una Madrid ladrona, e non sono solo il frutto di un sussulto economico: “la ragione è identitaria, non ci sentiamo rappresentati dallo stato spagnolo. Non è che vero che odiamo la Spagna, il problema è che il Governo Spagnolo somiglia a un regime dittatoriale del XX secolo”.
Pol fa parte di una generazione di catalani che lo scorso settembre si è mobilitata nel nome delle speranze di quel referendum del primo Ottobre da più parti definito illegale. Una generazione che ha trovato voce soprattutto nei trentenni che hanno espresso il loro malcontento pubblicamente attraverso manifestazioni che chiedevano più autonomia e indipendenza. Da Barcellona l’immagine di Madrid è quella di un “mostro colonialista” e di un “signore feudale” – sono solo alcune delle definizioni che si sentono spesso dai racconti e le testimonianze di chi ha partecipato attivamente al movimento indipendentista catalano. È ovvio che in questo quadro la reazione dura del governo spagnolo al posto di spegnere quel vento lo abbia riacceso, insieme agli animi e alle rivendicazioni catalane. “Da più di quarant’anni in Spagna non c’erano prigionieri politici, qual è la soluzione per patteggiare in un contesto del genere?” – si chiede Pol.
Eppure il patteggiamento alla fine c’è stato lo stesso lo scorso 21 Dicembre, quando i catalani sono andati alle urne – “convocati” dal governo di Rajoy. Indipendentisti o meno, in Catalogna si è votato affinché la Spagna intera avesse un quadro di questa rivendicazione, di questo vento, di quanto sia realista o meno. I risultati confermano una Catalogna che è ancora alla ricerca di un cambiamento – e di una sua identità.
La città futura
Volendo immaginare la città futura dovremmo fare i conti con l’idea di una città aperta, ricca di contaminazioni e scambi, senza barriere. Barcellona, la sua Rambla, i suoi spazi, come viva ipotesi di un mondo futuro aperto. Il risorgere di movimenti nazionalisti o indipendentisti ci mette a confronto con la fatica del progetto Europa, della sua austerità, e dello scarso sentimento di immedesimazione che anima i suoi abitanti. E così la Catalunya diventa un’ipotesi in seno a una Spagna che viaggia a un ritmo diverso – e qualunque cosa accadrà di qui a poi, a Bruxelles dovrà andare lo sforzo di comprendere con quanta forza questo vento sta soffiando, e come costruire le città future. Quelle che vivremo.