Per questo c’è l’arte, perché noi non possiamo vivere né nell’unico né nel molteplice, siamo sudditi di un altro regno di cui solo le cose che accadono due volte ci fanno intravedere la strada.
Emanuele Trevi
È la seconda volta che un romanzo di Emanuele Trevi viene a prendermi in mezzo a uno sconcerto, la testa vuota, un’idea sottile di inutilità, di nulla. Si manifesta con un titolo magnetico, La casa del mago, e inizio a intravedere una destinazione dopo un periodo di letture accantonate che ha visto succedersi Gli archetipi dell’inconscio collettivo di Carl Gustav Jung, La filosofia perenne di Aldous Huxley e La scuola cattolica di Edoardo Albinati, deposto a metà (lo riprenderò?) per sfinimento da borghesia narrata scandagliata percorsa in diacronia moltiplicata estesa onnicomprensiva.
Agli Archetipi di Jung mi ci aveva condotta lo studio dei tarocchi, uno strumento di autoconoscenza attraverso cui da qualche anno a questa parte provo gettare un ponte verso l’ignoto che sono, auscultare quanto ribolle in me sotto la superficie. Chiedermi: come stai? Rispondere, seguendo la concatenazione di simboli e archetipi stampati sulle carte: viva, di una vita non limitata a quella scandita dai fatti che compongono i giorni, ma che mi supera in estensione e profondità, e in qualche modo misterioso non esclude nulla di ciò che vedo e sento intorno a me.
Symbolon, dall’antico greco, simbolo. Il simbolo non esclude, ma include e significa, e risuona a chi è destinato come strumento di risveglio. Nell’antico uso greco il termine designava un mezzo di controllo o di riconoscimento ottenuto spezzando irregolarmente in due parti un oggetto (per es., una medaglia), in modo che chi ne avesse una potesse farsi riconoscere facendola coincidere con l’altra. [Treccani.it]
La casa del Mago è incentrato sul ricordo di Mario Trevi, padre di Emanuele e noto psicanalista junghiano. “Mago” per il dono di riuscire a dialogare e sciogliere il dolore dell’anima, il male che riverbera nell’universo costretto in sacchi di carne che siamo.
“Un uomo difficile, silenzioso, saturnino”, con un ampio “retrobottega” nella testa in cui rifugiarsi nei momenti più impensati, come in una dimensione più reale del reale, probabilmente più ricca e significativa, di certo inaccessibile. “Lo sai com’è fatto”, la frase materna costella i ricordi dello scrittore, ogni volta a giustificare la distrazione, il distacco dal mondo, la distanza siderale da molti aspetti del quotidiano di quel padre trasognato e affascinante, che il figlio non vuol comprendere ma da cui vuol farsi amare, accettando di non occupare il centro, ma restando ai margini della vita e del mistero della sua mente.
Nel tentativo più volte fallito, alla morte, di venderne la casa, una casa densa di Psiche e della sua scia materica; così intensa da respingere ogni possibile acquirente profano al campo energetico creatosi tra le mura in cui operò il guaritore di anime, Trevi figlio vi si stabilisce come rispondendo a una chiamata, eseguendo un mandato intangibile ma non per questo meno reale.
La comparsa della Visitatrice, inquieta fumatrice di cui si intuisce la fisicità e la consuetudine clandestina con la casa da tracce disseminate a mo’ di indizi, nel corso di temerarie intrusioni notturne, funge da “balzo della belva” della storia:
Una storia, per essere tale, prima o poi ha bisogno dell’irruzione improvvisa di un singolo evento, o di una presenza, o di un irripetibile concorso di circostanze capace di imprimere alla torpida regolarità dell’esistenza un qualche tipo di sussulto- e dunque una forma.
Il contatto con la psiche e con le sue zone oscure è sempre rischioso: addentrarsi nei suoi meandri è un’esperienza da cui lo psicanalista non esce mai completamente indenne. Come scrive Trevi:
Lo stesso Jung si era reso conto che la materia di quella – mai tentata prima – archeologia dell’anima gli era sfuggita dalle mani, dilatandosi.
Ho scoperto solo dopo aver iniziato questo romanzo, che Mario Trevi ha curato, tra l’altro, la prefazione all’edizione di “L’io e l’inconscio” di Jung, che ho letto pochi mesi fa. Mentre leggevo del potere ammaliante dell’inconscio mi veniva in mente Chtulhu: l’io è una struttura spaventosamente fragile, ogni suo cedimento rischia di rispedirlo al mito, al caos, a forze oscure e potentissime, antiche e inesorabili.
Il ritmo tessuto dalla scrittura di Trevi è tanto rarefatto quanto seducente. Quello che racconta con profonda ironia sembra non aver mai posseduto la prosaica pesantezza del reale, è sempre un distillato di sogno. Come in Due vite e Sogni e favole, anche ne La casa del mago dispiega un talento assoluto di medium, si fa canale per l’invisibile, ed è il costante rimando a un’altra dimensione, a un altro mondo, al simbolo, al sogno, alla psiche – propri a tutta la grande letteratura – Trevi onora con naturalezza, facendone un grande scrittore.
Descrivendo il padre e la sua sete di altrove, descrive tutti noi.
Forse non c’era un’anima più ferita di lui in tutto l’universo: e ogni volta che rileggo le parole del grande poeta, “l’anima è straniera sulla terra”, è a lui che penso. Se è straniera, non sa la strada, e questa di per sé è una cosa buona, perché non c’è nessuna strada da insegnare al prossimo, chi insegna strade è sempre un imbroglione; ma soprattutto, se è straniera non è mai interamente qui, una parte di sé manca all’appello, è rimasta nel posto da dove è venuta e dove non sa ritornare.
E con questo tocchiamo un punto decisivo: cos’è la ferita, cos’è la malattia dell’anima se non la menzogna, l’illusione fatale di appartenere completamente a questo mondo, di non provenire da nessun’altra parte?