Lunghe strade che ci collegano a periodi passati, che aleggiano in atmosfere sognanti, fatte di loop e arpeggi di chitarra. C’è una parola, ripetuta in Bottle It In, che ne racchiude lo spirito e lo stile: backwards. A rovescio, indietro. Tutto, all’interno di questo album, è giocato su questo piano da un classico Kurt Vile, nella sua cornice di senso, quella che ha costruito intorno alla sua immagine, la cornice di senso entro la quale essa è inscritta.
Giunto al settimo album, il sornione Kurt Vile sa ancora intrappolarci in melodie che passano dal downtempo (la maggior parte) all’uptempo (Yeah Bones). È un classico Kurt Vile, che riesce a proiettare il suo mondo interiore per mostrarlo a chi ascolta. La proiezione, inevitabilmente, è frutto della sua natura, e ne rispecchia le caratteristiche: Bottle It In è un disco fuori dai canoni odierni, fuori dal tempo, ma perfettamente in linea con ciò che ci aspettavamo da Kurt.
Uno spaccato di vita quotidiana, di solitudine ed al contempo di voglia di uscire da questa situazione, che prende come riferimento i momenti prima del sorgere del sole.
Stop this plane ‘cause I wanna get off / Pull over somewhere on the side of a cloud and
Watch me get out / Watch me go down
Il disprezzo per la tecnologia, che accompagna Vile nell’essere fuori dai canoni odierni, viene espresso placidamente in Mutinies:
I think things were way easier with a regular telephone-ment
Impunity and disillusionment / I guess we see now just how far that went
Ma anche nella movimentata Yeah Bones. In questi tratti il settimo lavoro di Kurt Vile sembra un manifesto contro la nomofobia (la paura incontrollata di rimanere sconnessi dal contatto con la rete di telefonia mobile).
When nobody calls you on the phone
Don’t break your bones over it
You’ll only leave yourself lonesome
To show for it
La lente sotto cui guardare l’album, per inquadrarlo al meglio, è una lente colorata: a metà tra i rimandi seventies e nineties. Quello di Kurt Vile è un essere retrò che viene espresso non solo a parole, ma anche nei modi in cui si esprime, tra il folk rock, dilatato dalle nuance psych e da un grande uso del tremolo, ed il primo indie rock.
Loading Zones, primo singolo estratto dal disco, lo riassume a pieno tramite la narrativa di stampo “street” e la composizione. Fingerpicking e modulazioni del suono con il tremolo costruite intorno alla metafora di libertà, sintetizzata nell’atto di parcheggiare gratis dove gli pare. Vile racconta il suo modo di essere con richiami a Bruce Springsteen, ma inserendo nella canzone anche un coro di stampo piuttosto punk nei toni (i park for free, ripetuto diverse volte).
Altra perla è la lunghissima Skinny Girl, altra canzone da dieci minuti, forse il brano più bello del disco. La chitarra, dal sapore seventies, ondeggia per tutta la canzone, in pieno stile space rock, fino a che non viene interrotta da inserti quasi industrial, con effetti wah-wah.
Come Vile ripete più volte in Hysteria, “the devil’s in the details”, ce ne dà prova per tutta la durata della sua settima fatica, cesellando riverberi backwards, riprendendo il suono settanta ma facendone quello che ne vuole, un po’ come il suo modo di parcheggiare.