Sono passati 25 anni dalla morte di Kurt Cobain, e ancora oggi sfogliare i suoi diari fa uno strano effetto. Le sue parole sono autentiche – non è forse anche per questo se è finito per diventare lo speciale portavoce di una generazione malgrado la sua volontà? Cobain ci ha letteralmente straziato e trapassato con la sua sincerità, tanto da essere ancora oggi un’ispirazione non solo per chi è cresciuto intorno agli anni Novanta, ma sconfinando verso le generazioni successive che pure hanno ascoltato la sua musica, consumato i suoi dischi, e urlato che in fondo la vita è quel che è – and whatever nevermind. Già, ma perché proprio Cobain? Se guardiamo alla fine degli Ottanta e all’inizio dei Novanta la scena musicale americana underground stava vivendo davvero un bel momento, basti pensare a quel noise rock dei Sonic Youth che aveva attraversato tutti gli Ottanta esplodendo definitivo in Daydream Nation. Fu proprio quel clima fecondo ad animare la mente artistica del giovanissimo Kurt Cobain: probabilmente non sapeva ancora che sarebbe diventato un messaggero apocalittico, né immaginava in che modo sarebbe riuscito a farlo. Però l’istinto gli fece comprare una chitarra e poi fondare un gruppo seguendo l’esempio di band che amava come Melvins o Black Flag (manterrà vivo però un certo contatto melodico con gli adorati Beatles). Ora sapeva che per esprimersi avrebbe scelto la musica, che quella musica poteva arrivare a parlare, animare, agitare – permettere quella connessione superiore e quasi mistica tra mente e corpo capace di tirare fuori la verità.
La verità di Kurt Cobain non è molto diversa da quelle che in fondo sperimentiamo un po’ tutti, eppure lui ha avuto il pregio di riuscire a raccontarla meglio e con molte meno balle di tutti i discorsi quotidiani che ci sussurriamo o gridiamo esasperatamente. Senza le mistificazioni, le vanità, e i giri di parole che usiamo tutti i giorni. Una verità sbattuta in faccia, che arriva diritta al destinatario: stiamo vivendo in un sistema marcio, deviato, che tende a un certo consenso sociale; uno sfrenato liberismo economico attraversa le nostre coscienze, questo ci trasmette pure una speciale ansia, soffriamo di un ripetuto mal di stomaco e nausea, di una perdita di contatto sano con la realtà. Così, il divorzio dei genitori di Kurt diventa l’evento di rottura dell’innocenza – tanto che lui continuerà a far riferimenti nel suoi testi anche dopo anni (“that legendary divorce is such a bore” — Serve the Servants). È proprio in quel momento che Kurt Cobain scopre pure una cosa fondamentale, ovvero che la diversità non ha necessariamente un’accezione negativa, che può essere unicità. E questo è forse uno dei più grandi insegnamenti che è riuscito a lasciarci. Sin da piccoli cresciamo in un ambiente che prova a modellarci su un certo livello di consenso sociale: con le sue parole Cobain ha ridato valore a tutti quelli che si sono sentiti diversi, messi all’angolo come scarti o emarginati. Li ha presi tutti per mano e gli ha detto: fregatevene di cosa vi dicono tutti. E lo ha fatto non solo attraverso la musica e le canzoni, ma con piccoli atti d’amore con cui ha dato spazio a tutta la sua sincera creatività spesso controcorrente al senso comune. La sua mente era già proiettata al futuro, più lungimirante di certi contemporanei: dalla parte delle donne, dei gay, della black music più autentica non ancora contaminata e che veniva dalle strade. Ha dato voce e forza a chi ha sperimentato un qualsiasi tipo di debolezza umana, ha reso tutti noi più umani. E poi, all’apice del successo ha disertato: si è sparato, ha detto ciao a tutto e tutti, al grande palco della vana gloria e a tutti quelli che provavano a essere come lui. Non è divertente? — e allo stesso tempo straziante.
Kurt Cobain è un’ispirazione perché a distanza di 25 anni dal suo commiato le canzoni dei Nirvana suonano ancora attuali, e spezzano il cuore. In Utero è probabilmente il punto di arrivo del sound della band: il talento melodico di Cobain alla sua massima espressione avvolto dagli echi di un grunge avvolgente e conclusivo. Se Bleach era stato l’esordio sporco, Nevermind il grido che risvegliava tutti, Incesticide il ritorno a casa tra le braccia calde del punk, con In Utero i Nirvana ci danno l’addio più profondo e triste possibile. Ci sarà ancora la parentesi dell’Unplugged in New York, dove abbiamo avuto modo di immaginare quel Kurt Cobain solista e cantautore che non avremmo visto e ascoltato mai. Continuiamo però a trascinarcelo dentro, avvolto da un doloroso senso di vuoto. A 25 anni di distanza ancora si sente, quel vuoto — ma quanta ispirazione riesce ancora a darci.
Mi piace incolpare la generazione dei genitori per essere giunti così vicini al cambiamento sociale arrendendosi dopo i pochi sforzi di successo da parte dei media e del governo per mutilare il movimento usando i vari Manson e gli altri rappresentanti della cultura hippie come esempi di propaganda su come non fossero altro che malattie anti-patriottiche, comuniste, sataniche, inumane, e a loro volta i baby boomer sono diventati i più perfetti, conformisti, yuppie ipocriti che una generazione abbia mai prodotto.