«Ho detto migliaia di volte che avrei sempre voluto scrivere un solo libro. Non ero soddisfatto del primo, ed è questo il motivo per cui ho scritto il secondo. Non ero soddisfatto del secondo e così ho scritto il terzo, e così via. Ora con il Barone, posso chiudere la storia. Con questo romanzo posso davvero dire di aver scritto un solo libro nella mia vita. Questo è il libro – Satantango, Melancolia, Háború és háború e il Barone. Questo è il mio solo libro.»
Così, in un’intervista alla Paris Review, László Krasznahorkai – il più grande scrittore ungherese vivente, uno dei massimi autori contemporanei – presentava il suo Il ritorno del Barone Wenckheim, vincitore del National Book Award for Translated Literature nel 2019. Edito da Bompiani, che continua la sua meritoria opera di traduzione del maestro magiaro, il Barone è – per citare ancora le parole dell’autore – una cadenza ai suoi tre romanzi citati (Guerra e guerra del 1999 non è ancora stato tradotto in italiano).
1985, 1989, 1999, 2016: questo l’arco temporale nel quale Krasznahorkai ha costruito il suo grande romanzo della letteratura ungherese. Trascorrono, dunque quasi trent’anni tra il primo e l’ultimo, ideale, capitolo che racconta del ritorno – a sessantaquattro anni – del barone Béla Wenckheim nel suo paese natio della sperduta provincia ungherese. È un uomo avvolto dal mistero, pallido, magrissimo, alto come un grattacielo, occhi neri, sguardo trasognato. È costretto a ritornare in Ungheria da Buenos Aires, dove è rimasto travolto dai debiti di gioco.
La mia vita è stata tenuta a galla da queste due cose: dal fatto che conoscevo una città e che in quella città conoscevo Lei, e ciò significa che non ho mai amato nulla in vita mia più di quella città e di Lei in quella città.
Marika, che lui chiama Marietta, è l’amore della sua adolescenza, mai sbocciato, eppure serbato nel cuore del barone come l’unico vero momento della propria esistenza.
Intorno a questo filo principale che scompare e riappare come un fiume carsico, Krasznahorkai costruisce un’incredibile sinfonia sghemba e funerea – come nel misterioso incipit in cui un direttore d’orchestra esercita il totale controllo sui suoi musicisti – che tiene uniti storie e personaggi. C’è il Professore, uno dei massimi esperti mondiali in muschi e licheni, ritiratosi dagli allori accademici per rinchiudersi in un selvatico eremitaggio e dedicarsi a faticosi esercizi di esenzione dal pensiero nelle immediate vicinanze della città. Il Capitano, figura autoritaria, violenta ed eversiva che guida le Forze Locali, bikers che, pagina dopo pagina appaiono come un inquietante gruppo paramilitare fuori controllo. Dante, losco faccendiere implicato nel business delle slot machine e poi ancora gli orfani, il sindaco, il bibliotecario e la sua segretaria, il caporedattore del giornale d’opposizione, tutti a muoversi dentro una giostra folle e dissennata. Su tutto, come un drappo listato a lutto, la provincia ungherese coi suoi pettegolezzi, le sue meschinità, la sua vita piccolo borghese ma anche – e soprattutto in questo nuovo capitolo – il livore, l’odio, la violenza, il razzismo – aleggiano tra le pagine i corpi dei migranti che riempiono le strade sotto il controllo di Viktor Orbán – l’avidità, il disegno di un nuovo ordine.
Ancora una volta, come nei due romanzi precedenti, la storia è dominata dall’attesa di un evento messianico – il carismatico Irimiás in Satantango, la balena in piazza Kossuth nella Malinconia – che qui, però fin da subito, manifesta lampanti le sue fragilità.
Il ritorno del Barone Wenckheim abbandona la struttura rigida degli esordi ma non certo quella cifra stilistica che George Szirtes definì un “lento flusso di lava narrativa”. Anzi, se possibile, Krasznahorkai mira ancora più in alto nel solco di un flusso di coscienza continuo. Pur diviso in capitoli molto ampi, il Barone sperimenta un flusso di parole impressionante senza porre alcun punto per paragrafi interi che procedono per lunghissime pagine. Gli stessi paragrafi non presentano alcuna discontinuità, costringendo il lettore a rendersi conto all’improvviso del cambio di scenario, dei personaggi o della voce narrante. Sia detto senza fraintendimenti: Il ritorno del Barone Wenckheim è spesso un romanzo ostico; un ostinato incedere in lunghe spirali che sfiancano e a un tempo trasmettono in maniera assolutamente efficace il deserto emotivo e morale della provincia ungherese. La scrittura di Krasznahorkai nel Barone è fatta d’improvvise sacche stagnanti, di riflessioni – quelle del professore – che sembrano deragliare verso territori dostoevskijani, ma anche di repentine accelerazioni, momenti ricchi di elementi ironici e grotteschi, humour nero, situazioni romantiche, e ancora pagine che sono come radure di bellezza a spezzare il disordine.
Cosa ti costa cancellare tutto ciò che è ungherese, hai sentito tutto ciò che ti ho qui presentato, tu hai in mano la mannaia, e io ti prego e ti scongiuro: abbassala su di noi, non avere dubbi, non esitare, e soprattutto non rimandare la cosa, perché noi siamo pericolosi per tutto il genere umano, per cui alza quella mannaia, alzala, alzala, alzala, più in alto, più in alto ancora, e calala su questa meschina nazione.
Ma più di ogni altra cosa, il Barone è un libro che parla della perdita delle illusioni, dello schianto selvaggio tanto verso un passato idealizzato – quello privato – quanto verso quello pubblico e politico. I personaggi di Krasznahorkai – qui ancor più che nei romanzi precedenti – sono creature sole, spesso meschine o altrimenti abbandonate, che abitano un mondo moralmente ed eticamente desolato, dove vigono solo le leggi della furbizia e della forza. Che sia l’Ungheria rurale sull’ultimo limite del comunismo, o quella xenofoba e fascista della situazione odierna, Krasznahorkai racconta un’umanità allo sbando, figlia d’illusioni politiche e personali.
…il fatto che spariva della gente, e senza lasciar alcuna traccia, e che frantumavano la testa di alcune statue, e che delle campane cadevano giù dalle torri, e che ammazzavano delle vacche pronte per il macello, fracassando loro la testa, e poi che dalla Torre dell’acqua una o più persone avevano fatto uscire migliaia di metri cubi d’acqua durante un’unica notte inondando così tutta via Dobozi.
In un romanzo che flirta per la prima volta con la contemporaneità – ci sono Facebook e Twitter, Linkedin e l’iPhone, addirittura il ricordo di un incontro con un giovane Jorge Mario Bergoglio – Krasznahorkai sembra quasi decidere apertamente di perdersi. Non tutti i fili narrativi si sciolgono in un loro punto di arrivo, non tutto sembra trovare una sua soluzione, ancora di più non tutto approda a un senso perché l’autore ne rifiuta la ricerca. Piuttosto, Il Ritorno del Barone Wenckheim vira, nelle sue pagini finali, nella direzione di una fiaba dell’orrore lasciando il lettore avvolto in un’atmosfera – questa sì – che getta una luce sinistra e conclusiva sulle intere vicende che animano il libro.
…e nemmeno il vento la voleva smettere di soffiare, per cui niente ormai sarebbe potuto essere più impietoso nei suoi riguardi, si sporse in avanti, dentro quel vento nevoso e gelido, camminava controvento, senza essere in grado di pensare, era capace solo di camminare, con un’unica frase che iniziava a prendere forma nella sua mente, solo una frase, che da quel momento in poi avrebbe continuato a ripetere tra sé e sé, solo quella volteggiava nella sua testa, senza sosta: non mi prenderete, nazisti di merda, non riuscirete mai a prendermi.