“Il buio d’agosto non era mai stato così carico come adesso.
Carico di cosa? La bellezza del tempo che passa.”
La scorsa primavera è uscito in edizione italiana l’ultimo capitolo della lotta in sei volumi di Karl Ove Knausgård: il libro – Fine – è passato un po’ in sordina, in quel momento eravamo probabilmente troppo occupati dalla lotta alla pandemia per schiantarci dentro la battaglia finale dello scrittore norvegese. I sei libri del ciclo Min Kamp – La mia battaglia sono usciti originariamente tra il 2009 e il 2011, ormai un decennio fa; ma questo non vuol dire che la lunga opera di Knausgård sia invecchiata al punto da aver perduto il mordente con la contemporaneità, qualunque cosa voglia dire. A mano a mano che i volumi venivano tradotti nelle altre lingue (impresa realizzata in italiano da Margherita Podestà Heir) avevamo la possibilità di leggere la lotta di Karl Ove, di immergerci nel racconto autobiografico della sua vita senza compromessi; quei libri ci facevano compagnia nei diversi momenti delle nostre vite, ci accompagnavano, e nel corso del pazzo decennio che abbiamo attraversato potevamo mescolare la nostra esperienza alla singola esperienza di un’altra vita per farne uscire fuori un cocktail dinamitardo, interrogarci su che cosa sia una vita e se sia possibile raccontarla fedelmente, fino a che punto può essere fallace la nostra mente quando ricorda, con il pericolo sempre addosso di sprofondare nel burrone dell’oblio o della distorsione o dell’inganno.
Knausgård ha sperimentato questa possibilità aperta della letteratura in modo radicale, una lotta con l’io e i propri ricordi, un tentativo drastico di non addomesticare i pensieri o nascondere le figure che girano intorno alla propria vita dietro a un personaggio. Se Proust nascondeva un uomo dietro la figura di Albertine, Knausgård usa nomi e cognomi precisi. È naturale che questo percorso sia disseminato di fallimenti, perché la vita si scorda e la scrittura può essere una forma di mistificazione: anche volessimo descrivere il più fedelmente possibile un altro essere umano dovremmo arrenderci a raccontare un punto di vista parziale, l’errore è dietro l’angolo e spara al dorso. Knausgård se ne rende conto, è troppo intelligente per non saperlo: la lotta è destinata al fallimento, e per certi tratti Fine sembra un percorso di riflessione sul deragliamento dell’intera opera. Sarebbe inutile perdersi tra discorsi sull’autofiction, sull’appropriazione della vita dell’altro, o quanto ci sia di falso o di vero nella pretesa di raccontare la realtà e gli altri, e su come si seleziona un ricordo, o quanto raccontare possa diventare usare; eppure Knausgård fa riflessioni su questo aspetto in maniera luminosa, perché l’ultimo lungo (1270 pagine) capitolo della battaglia fa i conti pure con le reazioni delle persone di cui Knausgård ha raccontato nei libri – lo zio paterno, la moglie Linda, il fratello, l’ex fidanzata – e in che modo loro si rapportano al racconto dello scrittore.
Ci troviamo catapultati nei giorni in cui sta per uscire il primissimo volume del romanzo, quello che affonda nella morte del padre, e Knausgård deve fare i conti con il mondo esterno. Scrivendo si era perduto in un sicuro processo creativo solitario, libero da giudizi e sguardi, ora deve mandare il romanzo alle persone di cui ha scritto perché è inevitabile che lo leggeranno. È il momento in cui la scrittura apre il confronto con lo sguardo esterno, e la diversità dei loro sguardi. Linda non la prende benissimo. Lo zio paterno è incazzato con il nipote, nelle sue email minaccia di mettere in mezzo i tribunali per avere diffamato la famiglia Knausgård e il suo buon nome, per avere distorto la realtà. Questo evento smuove enormi riflessioni nello scrittore sulla natura del suo progetto – riflessioni intermittenti tra una visita di un vecchio amico e la vita che scorre insieme ai tre figli e la moglie – ma quando l’editor gli fa notare che non pubblicando i libri permetterebbe a un commercialista di Kristiansand di decidere come dovrà essere la letteratura norvegese, Knausgård annuisce. C’è molto del cuore della battaglia di Knausgård in questo frammento: perché di cosa stiamo parlando quando parliamo di Min Kamp? del banale diario di una vita, lo sfogo di un ragazzo cresciuto che rimette in ordine i suoi ricordi, di pappette da preparare ai bambini e pannolini da cambiare, di un’appropriazione di nomi e storie, di letteratura norvegese, della ricerca del romanzo – e fino a che punto si può arrivare al sacrificio in nome della letteratura. È una controversia insoluta, che arriva a scavare in gola quando leggiamo le interviste a Linda Boström Knausgård, raccontata nei volumi in tutta sé stessa e con le sue debolezze e i suoi dolori. Allo stesso tempo come facciamo a sapere quanto sia davvero lei la donna di cui scrive Knausgård, come si misura il livello di sincerità del reale quando sconfina dalla realtà del quotidiano; non possiamo risolvere la questione se non arrendendoci al fatto che pure l’autofiction è una forma di fiction allo stato brado, che per quanto abbiamo letto di Linda Boström Knausgård non la conosceremo mai per davvero, né sapremo cosa pensa oggi – 20 maggio duemilaeventuno – la testa di Karl Ove Knausgård, che per quanto lo abbiamo osservato e probabilmente capito attraverso i suoi libri, è impossibile conoscerlo per davvero. Pentrare le tenebre di un cuore umano.
Questa è una forma di resa alla battaglia che Knausgård affronta in Fine: per farlo ha dovuto attraversare un’intera vita alla rovescia, e si è trovato davanti una frontiera invisibile che sta tutta nel passaggio dall’io al tu, nell’indecifrabilità di questo passaggio che non si può abbattere. E non sembra innaturale che la parte centrale – Il nome e il numero – sia una disamina del nazismo e della vita di Adolf Hitler che prende il via con un saggio personale su una poesia di Paul Celan, una poesia dove l’io che canta ripetutamente si fonde con un senso più collettivo dell’io, un noi lacerato di assenza: un occhio che piange. Knausgård ci tiene a mettere in evidenza l’arbitrarietà dell’io, ma anche la sua forza misteriosa, una forza soggettiva capace di piegare la realtà. La lunga esplorazione sul nazismo nella parte centrale è un naturale proseguimento dell’opera; la voce che racconta è sempre la stessa: che si parli di cartoni animati o del Mein Kampf di Hitler la lettura non subisce scossoni, perché la scrittura di Knausgård arriva come un vortice. Passare dalla vita di Knausgård a quella di Adolf Hitler nel giro di qualche centinaio di pagine non appare contraddittorio fintanto che stiamo parlando di storie – diversissime – e del tentativo di replicare all’infinito l’io nelle sue variabili molteplici.
Il disagio raccontato da Knausgård nel leggere le pagine di un libro che ha cambiato la storia della realtà con conseguenze devastanti è sempre presente nell’angolino della testa dello scrittore: Knausgård si butta nel Mein Kampf per comprendere le misteriose e malate origini del nazismo a partire da una vita, da una geografia, da una guerra, e per farlo naturalmente un libro non è abbastanza; salta con naturalezza dalla poesia di Celan ai diari di Victor Klemperer, si getta violento a leggere Gitta Sereny e Knut Hamsun, legge e annota come Kubizek ha raccontato la sua amicizia con Hitler quando erano giovani e disperati. In tutti questi momenti Knausgård si dimostra un grandioso narratore, devastante per la capacità di raccontare uno sconvolgimento europeo senza mai essere fuori luogo e fuori posto.
Knausgård non compra direttamente il Mein Kampf in libreria, se lo fa comprare e spedire, si rende conto che si tratta di uno di quei libri che deformano la percezione della persona che lo sta leggendo e ammette di non volersi compromettere, seppure la lettura di Knausgård non abbia interessi ideologici. Del resto il titolo del ciclo di romanzi che richiama così da vicino il testo di Hitler è sin dall’inizio un lanciafiamme gettato sulla testa del lettore, che si porta sempre dietro l’equivoco che possa essere la scelta paracula di uno scrittore paraculo che vuole far salire le vendite (glielo dice lo zio, a tratti lo pensa lui stesso). E invece Fine è un’esperienza totale e totalizzante. Mettersi a esplorare la vita di Hitler, la sua giovinezza, buttarci dentro i ritagli delle sue molteplici biografie, confondere tutto con i versi di un poeta errante ebreo che ha vissuto una strangolatura dentro le ossa, occupare le pagine con riflessioni sul monologo di Molly Bloom e sull’arte contemporanea e l’innovazione dell’impressionismo, e come questa si sia traslata nel romanzo e nella Ricerca di Proust. Ecco: tutto questo insieme è una bomba. E allora Karl Ove è veramente un grande scrittore – anche quando ricorda male e accetta di ricordare male, anche quando contraddice la sua timidezza con il racconto dei fatti suoi – che nella sfrenata battaglia alla ricerca dell’io arriva a dissolvere l’io.
Cartolina da Malmö. Credit: Fredrik Ivansson, unsplash
Io, tu, noi, loro. Sono i frammenti del discorso che compongono una storia. Il nonno di Knausgård che fa battute antisemite aderendo al suo tempo è un frammento schizzato via dal suo tempo e rientrato nel nostro con una forza assolutamente ineguale che fa riflettere su cosa sia il consenso alla propria epoca, alla propria uniforme. Protagonisti sono uomini e donne di carne e ossa coi loro difetti e i loro pensieri, anche se la zona dei pensieri profondi è inaccessibile: nel passaggio io-tu-noi-loro-lui/lei è naturale incappare nei fraintendimenti. Lo stesso Knausgård non fa sconti a sé stesso e agli altri: che sia il padre o la donna che ama, la sua indagine è tesa alla ricerca dell’autentico, qualcosa che comunque è destinato a fallire per sua natura perché la lingua è una traduzione di realtà e non una riproduzione. Questa ricerca ossessiva sulla propria famiglia, o sulla propria generazione, su Bergen e Malmö, si estende ossessa oltre le radici e i confini e arriva addirittura a scalzare il tempo quando Knausgård si concede questi fiati e se ne va oltre: oltre gli ascolti dei dischi e delle percosse alla batteria da ragazzo, ogni mente umana si estende oltre le ordinarie giornate e Knausgård ci indica un orizzonte, qualcosa che sta lì e si sposta sempre in avanti anche quando abbiamo il miraggio di acciuffarlo; la mente umana è inafferrabile e irrequieta, capace di vomitarsi in pagine e pagine di divagazioni e ricordi, dolori confusi e lutti, innamoramenti e riflessioni sull’olocausto.
Questo non vuol dire che ogni pagina di Knausgård sia memorabile: la scrittura si distende vorace sul lettore come se fosse tutta un processo, e pure il lettore deve fare la sua lotta per resistere. È lo stesso Knausgård a raccontare il processo di travolgenza iniziale, l’inizio dell’avventura della sua lotta: «Mentre scrivevo, non pensavo a nulla di tutto questo, né alla rappresentazione della realtà, alla sua esposizione o all’integrità di mio padre, tutto avveniva intuitivamente, avevo cominciato con un foglio bianco e la volontà di scrivere e mi ero ritrovato alla fine con quel romanzo preciso». Un romanzo che è insieme romanzo e meta-romanzo, anima e corpo, diario e riemergenza, battaglia filosofica e saggio narrativo (cosa che gli riesce splendidamente), noia e illuminazione, radice e sradicamento, il capriccio di un bambino e una sigaretta spenta male, infinite pagine di tentennamenti, debolezze e dubbi, a cui potresti dare un’accettata senza svilirne il senso e il conturbante. Probabilmente è impossibile riprodurre i fantasmi di una mente, e i limiti dell’io, e soprattutto quelli dell’altro – per giocare con il titolo di una biografia: ogni storia è una storia di fantasmi, di assenze, di mancanze, di buchi, rotture; però è questo il senso della lotta knausgaardiana, sfidare le frontiere per arrivare al cuore. Se riusciamo ad accettare la sfida ci resterà addosso qualcosa, anche solo il ricordo di un viaggio alla deriva dell’io. Di un’atmosfera.
Io, io, io, ripete Celan nella poesia in cui affonda Knausgård a mezzo libro: cosa vuole dire io chi lo sa. Nemmeno alla fine di Fine ce ne faremo un’idea. Nemmeno nel gesto più banale della realtà, ripetuto all’infinito: «Mi sono riseduto e, dopo essermi versato il caffè tiepido dal thermos, mi sono acceso un’altra sigaretta». Perché questo io sgangherato e nudo (finto, vero, difettoso, luminoso), questo io che corrompe e corrode dall’interno, non è solamente una raccolta di storie e incroci, ma una voce che ci fa sballottolare e traballare, qualcosa che si afferra all’anima e la striglia, che si rimodula a seconda dei terremoti che sono gli incontri, o la lettura di una pagina dei diari di Gombrowicz mescolata al cerume nelle orecchie; l’esplosione sotterranea che improvvisamente ti fa chiedere qualcosa come: che cos’è l’arte?, in mezzo a un deserto di “passeggini scandinavi, genitori sfiniti e piscine calde”. E alla Fine della battaglia schiantiamo al suolo abbagliati, come solo gli esseri umani sanno essere quando si scrollano da dosso la lotta.