A cura di Vittoria Beatrice Giovine
A distanza di tre anni da Mechanical Bull, il settimo lavoro in studio dei Kings of Leon, presenta una novità sostanziale: non sono Angelo Petraglia -storico producer della band- e Jacquire Kings a occuparsi della produzione del disco. La coppia che aveva curato la produzione di tutti gli album dei Kings, dal loro debutto con Youth & Young Manhood (2003), fino al più recente del 2013 è stata sostituita da Markus Braus, già produttore degli Arcade Fire e collaboratore ai dischi di Mumford & Sons, Florence and the Machine e Coldplay. Sembra proprio che questa volta i Kings abbiano scelto di abbandonare la vecchia via per una nuova, andando a registrare con il loro nuovo produttore in California, per creare qualcosa di diverso dal solito.
Fin dalle prime note, infatti, è evidente come l’intero sound della band sia meno rock rispetto agli album precedenti e decisamente più incline al mainstream: le chitarre di Waste a Momente hanno un suono sporco che ricorda vagamente lo stile di The Edge dei U2, i cori si fondono con il synth, molto utilizzato anche nelle tracce successive. La voce del cantante, Caleb Followill, rimane un punto fermo tra le caratteristiche dei Kings ed è esaltata dalle percussioni.
In generale i brani hanno una linea melodica pulita e fresca, che solo in alcuni tratti viene resa un po’ più energica dai riff di chitarra; ma se da un lato il suono ci appare leggero, dall’altro i temi trattati sono, invece, piuttosto inquietanti. la seconda traccia del disco, Reverend, si riferisce al cantante country Blaze Foley, morto tragicamente a soli 39 anni. Come Muchacho, semplice a un primo ascolto, è in realtà una sentita dedica a un amico mancato a causa del cancro. E poi Over, che narra il suicidio di un uomo troppo fragile e sopraffatto dalla vita. Non mancano le storie di vita e i sogni infranti, come nel caso della cameriera protagonista di Waste A Moment, che lascia il suo Texas per dirigersi a Hollywood. E come se tutto questo non bastasse, i Followill ci vogliono parlare anche di fantasmi e amori impossibili, come in Find Me, brano in cui una giovane ragazza s’innamora dello spettro che infesta la sua camera d’albergo.
Il disco si conclude con la title track, Walls, che si differenzia tra i pezzi per la dolcezza della chitarra acustica che l’accompagna.
Walls è per questi motivi tutt’altro che leggero, anzi, tra sogni infranti, morti tragiche e spettri, è l’album più cupo (almeno nei temi) che i Kings of Leon abbiano mai realizzato. Tuttavia, sembra proprio che il gruppo abbia raggiunto l’equilibrio perfetto tra novità e voglia di sperimentare e fedeltà all’inconfondibile stile che ha permesso loro di ritagliarsi uno spazio sulla scena alternative rock made in USA.