Kim Ki-Duk: ai poster (e alle gif) l’ardua sentenza

E poi ho capito perchè alle persone piace tanto il cinema coreano, che poi alla fine è quasi un’esclusiva di Kim Ki-Duk, quello che anche all’ultima Mostra del Cinema di Venezia si è beccato gli applausi della platea per un film sull’evirazione, ovvero per i film di un certo peso.

Moebius – Kim Ki-Duk

Non è la lentezza. Cioè, non c’entrano niente cose come Michelangelo Antonioni, la noia, i dialoghi tagliati fino allo stremo, e i giri del ventilatore quasi muti, fino al colpo di genio di qualche parola che sembra dirti perfettamente quello che stavi pensando anche tu, profondamente. Antonioni in bianco e nero che, mentre sonnecchi perchè la pellicola sembra essersi incartata su se stessa, ti risveglia con qualche cazzotto nell’occhio.

Non è la poesia del cinema orientale. Non è che ci sia molto di orientale nei personaggi di Kim Ki-Duk, hanno troppo spesso l’aspetto di pazzi occidentali, in cura medica, ovvero non pazzi kerouackiani di vita, ma solitari amanti del retrogusto di far qualcosa no-sense. I personaggi sono soli, lo strozzino di Pietà si veste alla occidentale e dovunque viva nel mondo (in Corea o a Parigi) farebbe un po’ la stessa vita: la differenza sta nel cucinare un’anguilla rispetto a una braciola. Kim Ki-Duk è un ex pittore che da giovincello è partito dalla sua terra coreana per andare a vivere a Parigi, come deve aver letto da qualche parte: ogni artista deve andare per un periodo a Parigi. E a Parigi ha iniziato a scrivere sceneggiature. Quella solitudine ovviamente deve averla provata anche lui in prima persona, e oggi fa di tutto per farcela espiare.

Non è la mania per le pulizie, che ogni tanto affoga gli ambienti scuri dei suoi film. C’è sempre un casino pazzesco, e poi all’improvviso una voglia di rimettere a posto i pezzi. Ma ammenochè non siamo tutti dei fissati delle pulizie di privamera, non è questa la ragione per cui ci animiamo tanto a premiare di Leoni d’Oro e applausi il regista coreano.

Pietà – Kim Ki-Duk

Ho una mezza idea che possa essere l’estetica dirty, un po’ anni Ottanta newyorkesi passati nei locali a sentire la musica noise, però senza nessuna traccia di musica, ma solo di vite di merda che si incrociano. In fondo a ognugno di noi capita di sentire di vivere la propria vita di merda. E i sentimenti greci!, dicono sia anche per quei sentimenti altissimi greci: roba come pathos, espiazione, pietà! E poi non ci nascondiamo che ci sono originali colpi di scena, trovate da surrealismo, e rapporti vissuti veramente al cento per cento, senza tutte quelle pretese ipocrite occidentali che ci facciamo noi. No, ma non credo sia per questo.

Potrebbe essere la pesantezza, ovvero il fatto che sono film pesanti. Prendiamo il caso di quel certo libro di culto che ha diviso il mondo in leggeri e pesanti, ovvero quel libro dal nome lunghissimo di uno scrittore ceco che ora va tanto di moda nelle citazioni, tanto che un giorno potrebbe superare Jim Morrison. Ecco, in quel libro si narrava che esistessero persone di due tipi: i leggeri e i pesanti, e che in fondo poi alla fine i leggeri fossero attratti dai pesanti, e viceversa. Comunque la giri ognuno di noi dovrebbe amare i film pesanti. Ma nessun film pesante è uguale all’altro. Ci sono i film pesanti di Godard, che sono pesanti perchè a un punto è capace di mettere una donna a ciarlare di filosofia con uno sconosciuto, o qualcuno a riflettere sull’estetica di una tazzina di caffè, e possono non essere pesanti per chi li vede. Ci sono film pesanti di Bergman, Lars Von Trier, Bertolucci, Rossellini, eccetera. Poi ci sono film pesanti come quelli italiani nuova maniera della Comencini, e storie di eutanasia, amore romantico problematico, violenza sulle donne, madri e padri degeneri, e tutta quella serie di storie sfumate di sentimento che eccitano il pubblico. Ecco, la pesantezza di Kim Ki-Duk è più simile a quella del secondo genere, cioè è legata alla storia difficile, alla trama che si impregna di pietas.

Ma comunque non siamo ancora arrivati al punto centrale della questione, e cioè com’è diventato un genio del XXI secolo della regia un regista coreano. Perchè piace insomma.

Ferro 3 – Kim Ki-Duk

Ammetto di avere i miei limiti umani, per esempio il fatto di diventare ogni giorno un poco meno sensibile alla pietas. Potrebbe essere un poco tutta una questione di senso sballato del romanticismo, ovvero quello ottocentesco molto carnale e ideale assieme, contro quello tutto zucchero filato e cartone animato che poi è venuto fuori nel tempo. Ho i miei limiti umani, dico, perchè su Ferro 3 quasi mi stavo addormentando, ed era un pomeriggio di quelli freschi, non faceva un caldo soffocante fuori, e avevo davvero curiosità di vederlo, senza pregiudizi davvero, anzi avevo grandi aspettative quel pomeriggio perchè tutti ne parlavano bene, e mi sembrava di aver perso un pezzo di storia del cinema, o così ne avevi impressione in giro quando sentivi nominare Ferro 3, che nella mia mente non era neanche una mazza da golf all’epoca, ma solo il nome strano di un film. Ma è ovvio che con un film del genere diventi un genio della cinematografia post-moderna. Ci sono tutti gli elementi per piacere. Ci sono tutti gli elementi del cult, tanto che le gif animate di Ferro 3 un giorno saranno un pezzo di stile tanto quelle di Anna Karina oggi. Le ragazze porteranno i capelli alla coreana, sfidando il tempo della frangetta vintage.

Mi si perdoni già il termine, ma Ferro 3 è melenso. Come quando aggiungi troppo zucchero nel caffè, e a me capita spesso. Ovvero in quel significato lì, sdolcinato, pieno di zucchero, da farti arricciare i capelli e strabuzzare gli occhi dalla stanchezza, noioso come Antonioni ma senza le parole di Antonioni, nessun cazzotto, con personaggi a cartone animato che sembrano prendere lezioni da quello che era il favoloso mondo di un’altra francese frangettosa passata alla storia del cinema. Ma questa è una cosa che capita a me personalmente, e conservo un po’ di autonomia per dire che il segreto di questo regista coreano acclamato dalla critica e dal pubblico assieme sono tutte queste contraddizioni: un livello di melensità instant, un livello di pathos, la storia originale con colpi di scena, la pesantezza della trama, e il fatto che sia coreano.

Ai poster l’ardua sentenza: dipende da quelli, in fondo, se un film ha successo oppure no.

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