“Il diritto internazionale esiste soltanto nei manuali di diritto internazionale.” Ashley Montagu
Il panificio di Kiev
In un panificio di Kiev, nel cuore dell’Ucraina, lavoravano alcuni tra i più forti calciatori che quella città e quelle terre avessero mai visto. Faticavano tanto, dormivano poco e mangiavano ancora meno. Non solo, quel lavoro dovevano tenerselo anche stretto. Sì perché tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, se capitavi nella parte sbagliata del mondo, nel volgere di pochi istanti, potevi perdere tutto, inclusa la vita. L’Europa non faceva eccezione. Kiev era occupata dai nazisti, e tutti quegli atleti erano prigionieri. Costretti a rinunciare quasi a tutto decisero, a rischio della vita, di non rinunciare al calcio. E arrivò il giorno in cui, proprio su un campo di calcio, ebbero la possibilità di sfidare i loro aguzzini: i militari della Wehrmacht, con un arbitro delle SS.
Questa storia somiglia a un film: anzi per dirla meglio, c’è un film che somiglia a questa storia e, per dirla tutta, i film sono almeno due. Il primo del 1962 è The Last Goal; il secondo, ben più famoso è Fuga per la vittoria, del 1981, diretto da John Houston, che vede tra i protagonisti stelle del cinema come Michael Caine e Sylvester Stallone e del calcio come Pelè. Ma quelli, appunto, sono solo dei film. La storia di quegli anni è ben più tragica e calciatori poco noti, seppure ben dotati, ne scrissero una pagina che col tempo si è persa tra le pieghe di quella guerra globale sigillata dal fungo di Hiroshima e Nagasaki.
In quel tempo più che le tattiche calcistiche prevalevano le tattiche di guerra, fatte di carte firmate, atti di forza e bluff annunciati, di bombardamenti e di uccisioni a sangue freddo. Le squadre schierate in campo, anzi sui fronti, erano a volte chiare a volte meno, come per esempio nel caso dei patti tra Hitler e Stalin. Ora, a distanza di anni, la storia la vediamo chiara, con i nazisti da una parte, insieme a qualche piccolo alleato, e tutti gli altri dall’altra. Nel divenire di quegli anni e di quegli eventi però, non tutto era così limpido e cosi scontato: come per esempio da che parte potesse davvero schierarsi l’Unione Sovietica, in evidente trattativa, anche a guerra in corso, col Fuhrer.
Il leader bolscevico Trotsky, dall’interno del partito e del paese, con la sua Opposizione di Sinistra, cercava da anni di combattere la sanguinosa repressione stalinista, e già nel 1933 in un suo scritto, accomunava Hitler e Stalin nella definizione di “stelle gemelle”, cosa che non si rivelò per nulla sbagliata qualche anno dopo, alla luce dei fatti. Cerchiamo di sciogliere bene le questioni del fronte orientale per comprendere alcune dinamiche decisive dell’intero conflitto e di conseguenza anche di quella particolare partita di calcio a Kiev.
Calcio e regime
Il 22 giugno del 1941 l’evento del giorno nella capitale ucraina è l’inaugurazioe dello stadio. In campo ci sono la Dinamo di Kiev e il CSKA. Queste che sembrano solo sigle, per distinguere le varie compagini sportive, in realtà raccontano una parte della storia e della struttura sovietica. Dinamo è il nome che le autorità sovietiche assegnarono alle squadre legate al Ministero dell’Interno; in pratica le squadre della polizia, che, pertanto, controllava tutte le Dinamo d’Europa a partire dal 1923, quando la OKS Mosca, divenne Dinamo Mosca, entrando sotto il controllo del comandante di turno della CEKA (poi KGB). Queste scelte arrivano fino al cuore dell’Europa, con la Dinamo Berlino nella Germania dell’Est, controllata dalla Stasi, la polizia politica tedesca orientale. CSKA, di Mosca in modo particolare, invece è la sigla della squadra dell’esercito, legata all’Armata Rossa. L’appartenenza all’apparato senza dubbio la caratterizzava, ma il controllo era un po’ meno invasivo rispetto alle dinamo. Un altro CSKA che riportò risultati sportivi importanti, oltre quello di Mosca, fu certamente quello di Sofia. Per le squadre delle aziende ferroviarie nazionali, invece si utilizzò la denominazione Lokomotiv, con l’intento di mettere in piedi gruppi competitivi, scegliendo i calciatori tra i dipendenti delle ferrovie statali. Ci sono anche altre sigle legate a fabbriche e settori particolari, un esempio ne è la Torpedo di Mosca. E poi non dimentichiamo lo Spartak, squadra che rievocava una storia secolare di rivolta e libertà.
“Quando ero piccolo chiesi a mio padre: Papà, perché tifi per lo Spartak?, e lui rispose: Perché lo Spartak non è legata a nessuna parte definita della società sovietica. La Dinamo, gli aveva spiegato suo padre, era la squadra del Kgb, il Cska quella dell’esercito, la Torpedo quella della fabbrica Zil, la Lokomotiv quella delle ferrovie e solo lo Spartak era indipendente. Tifare Spartak era una piccola maniera di dire “no!”. Calcio e Potere – Simon Kuper
Come detto dunque quel giorno a Kiev dovevano affrontarsi la Dinamo e il CSKA. Tuttavia quella partita non si disputò, perché il calendario della storia cominciò a far volare bombe tedesche sulla città ucraina, senza neanche una dichiarazione di guerra formale. Era ufficialmente cominciata l’invasione nazista in URSS: prendeva avvio l’operazione Barbarossa, che andava ad infrangere l’accordo di non belligeranza tra Hitler e Stalin. Il patto Ribbentrop – Molotov, firmato da una manciata di mesi era già carta straccia. Quella palla a centro dunque non si batterà, anche se lo stadio sarà risparmiato dalle bombe. Una tempestiva comunicazione ufficializza che la partita si recupererà dopo la guerra, e i biglietti restano validi. Sarà disputata il 25 giugno del 1944. Ma non è certo questa la partita passata alla storia. Il Death Match, la cosiddetta partita della morte, è determinata proprio dalle condizioni che si vengono a creare con l’occupazione tedesca di Kiev.
Il Patto Ribbentrop – Molotov
Il 23 agosto del 1939 a Mosca i due ministri degli esteri tedesco e sovietico, Joachim von Ribbentrop e Vjačeslav Molotov, apposero le loro firme in calce al patto che prese il loro nome, e che impegnava Hitler e Stalin a non farsi la guerra tra loro. Mosca ha sempre avuto un’attenzione particolare per i confini del proprio impero a occidente, quei territori che comprendono il Baltico, l’Ucraina e la Polonia. Per la Germania invece si trattava di assicurarsi, almeno momentaneamente, la tranquillità sul fronte orientale mentre era impegnata in una guerra col resto dell’Europa, l’impegno sui due fronti contemporaneamente non sarebbe stata una scelta percorribile. Quel Patto invece garantiva dieci anni di non aggressione. Non solo, i due paesi si impegnavano anche a non appoggiare paesi terzi in azioni offensive e a non entrare in coalizioni rivolte contro uno di essi. L’accordo si completava con un “protocollo segreto” che definiva alcune acquisizioni territoriali in relazione ai loro propositi di espansione; pertanto l’URSS si assicurò l’annessione della Polonia orientale, i Paesi baltici e la Bessarabia, per ristabilire i vecchi confini dell’Impero zarista, mentre la Germania, la parte occidentale della Polonia.
Gli accordi Stalin – Hitler sulle appropriazioni territoriali filarono talmente lisci che prevedevano anche un protocollo supplementare in quattro articoli che sostanzialmente definiva ancor meglio le sfere di influenza. Il confine tra le due zone doveva coincidere con la frontiera settentrionale della Lituania, che cadeva così nella zona di interesse tedesca. Questo significava che Finlandia, Estonia e Lettonia, espressamente indicate nell’accordo, erano nell’area sovietica. La Germania dichiarava il suo disinteresse nei confronti della Bessarabia. Sulla carta era tutto a posto, ma lo era meno per i popoli che avrebbero subito quelle conseguenze, tanto più che la ricerca del Fuhrer del cosiddetto Lebensraum, vale a dire la ricerca di uno spazio vitale per il popolo che secondo Hitler era giudicato il più forte, non metteva al sicuro nessuno da nuove mire espansionistiche. Men che meno l’Ucraina, in merito alla quale, ancor prima della firma del patto il dittatore ebbe a dire: “Ho bisogno dell’Ucraina, altrimenti ci faranno morire di fame come durante la guerra passata.”
Le strategie del Reich non erano certo quelle messe nero su bianco. L’idea di prendersi anche l’Unione Sovietica, del resto, era presente sin dall’inizio, in discussione c’era solo il quando. Con l’invasione della Polonia nel 1939, la Germania avvia il conflitto mondiale, si prende velocemente l’Europa occidentale e come in una partita a scacchi deve decidere da che parte dirigersi: se verso la Gran Bretagna o Mosca. Ritenendo le forze britanniche meglio preparate, decide di virare a est, sottovalutando sia l’Armata Rossa che la popolazione russa. Si valuta che la primavera sia la stagione ideale per avviare quella che avrebbe dovuto essere un’offensiva lampo – un Blitzkrieg – da concludere vittoriosamente in quattro mesi; o al massimo in autunno, evitando l’inverno.
A intralciare i piani tedeschi, tuttavia, giunge l’alleato italiano. La disastrosa campagna di Grecia a cui Mussolini annunciò di “spezzare le reni” fu un fiasco tanto che dovette intervenire la Wehrmacht, ritardando di oltre un mese l’Operazione Barbarossa. Rinvio che se non fu fatale, quanto meno compromise pesantemente l’esito positivo. Al Cremlino intanto, Stalin, seppur informato dall’intelligence del Partito Comunista di un possibile attacco nazista, non ritenne possibile quella eventualità. Sbagliava.
Operazione Barbarossa
È l’alba del 22 giugno del ‘41 quando l’artiglieria della Wehrmacht attacca il confine orientale cominciando a entrare in Ucraina e in Bielorussia, a Minsk. Le direttrici su cui si muoveva l’offensiva tedesca erano rivolte verso tre città: Leningrado (oggi San Pietroburgo), Mosca, il cuore, e Kiev, a Sud, attraverso l’Ucraina. I piani di portare a termine l’operazione in pochi mesi si rivelarono un miraggio. L’opposizione dell’Armata Rossa e la resistenza delle popolazioni allungarono il conflitto fino al sopraggiungere dell’inverno che diede il colpo di grazia (come fu per Napoleone oltre cento anni prima). L’assedio di Mosca e Leningrado era in fase di stallo; le distanze per avere rifornimenti si allungarono troppo e il freddo gelava sempre più i propositi dei nazisti inducendoli a battere in ritirata verso Stalingrado (Volgograd) per intercettare i riforimenti sovietici e farli propri. Proprio a Stalingrado si consumerà la battaglia simbolo della disfatta tedesca e della strenua resistenza del popolo sovietico. Non di meno in questi lunghi mesi ci furono città occupate dalla Wehermacht e prigionieri fatti dai tedeschi, soprattutto nel primo periodo. E questo ci riporta proprio a Kiev e alla storia di quella incredibile partita di calcio. Dopo i primi bombardamenti di Giugno, Kiev fu presa a Settembre, quando le truppe della Wehrmacht occuparono la città.
Kordik, il profugo amante del calcio
Nei primi decenni del Novecento le guerre, piccole o grandi che fossero, hanno segnato la vita di un’infinità di persone. Tanti hanno dovuto trovare riparo lontano dalla propria terra di origine. È così anche per il cecoslovacco Iosif Kordik che, ferito durante la prima guerra mondiale, trova rifugio a Kiev, dove si stabilisce definitivamente. Nel giro di qualche anno si trova a dirigere il grosso panificio cittadino in cui aveva iniziato a lavorare. Di guerra in guerra, siamo nei primi anni Quaranta e a spazzare il cortile della fabbrica di pane c’era ogni giorno Nikolai Trusevich, un ingegnere panificatore che Kordik aveva assunto pur di non lasciarselo sfuggire. Trusevich però nella città occupata non poteva svolgere altra funzione che spazzare: le leggi naziste gli impedivano, essendo un nemico del Reich, di tornare a esercitare la sua vecchia professione. Ma quell’uomo che imbracciava la scopa era anche il fortissimo portiere della squadra di calcio della Dinamo Kiev. Kordik, da grande appassionato di calcio, voleva portare nella sua fabbrica tutti i calciatori possibili per dare loro una sistemazione e un rifugio.
“Kordik voleva circondarsi di figure che avessero avuto un certo prestigio sportivo e fornire ai propri dipendenti, attraverso lo sport, una valvola di sfogo perché producessero di più e lavorassero meglio. Fu così che Kordik chiese a Trusevich di andare in cerca dei suoi vecchi compagni, per formare una squadra di calcio del panificio: i giocatori assunti avrebbero ottenuto un posto per dormire, qualcosa da mangiare e una piccola protezione dalle angherie del Reich. Così il portiere riuscì ad allestire la squadra nella primavera del 1942, radunando sia giocatori della «vecchia» Dinamo Kiev che della Lokomotyv Kiev, la seconda squadra della capitale ucraina.” Filippo Marcianò
L’ora di scendere in campo
Come in tutte le città invase e occupate militarmente si cerca di resistere, spesso in clandenistinità. Oppure si cerca di fuggire per raggiungere territori sicuri. È il dramma che vive anche la popolazione di Kiev in mano ai nazisti. I tedeschi, nella loro propaganda battente, usano anche il calcio, addirittura organizzando un torneo con una manciata di squadre. L’utilizzo dello sport da parte del Reich non è una novità. Solo qualche anno prima, la macchina propagandistica del regime aveva messo in piedi il mastodontico spettacolo delle Olimpiadi di Berlino del 1936, anche se non tutto andò secondo i piani perché proprio nel finale e sotto gli occhi del Fuhrer, l’atleta nero americano Jesse Owens, vinceva ben quattro medaglie d’oro, mortificando la possibilità della “razza ariana” di primeggiare come nei sogni e nei desideri del dittatore. Proprio per questo lo stesso ministro della propaganda Goebbels aveva sospeso, con l’incedere della guerra, le uscite della nazionale di calcio, perché una eventuale sconfitta avrebbe abbattuto il morale della popolazione nel pieno di un conflitto in cui non avrebbero dovuto avere rivali.
“Centomila spettatori afflitti lasciarono lo stadio. Non vincere questa partita fu più costoso per i loro cuori che conquistare qualsiasi città ad est” Joseph Goebbels
Oltretutto Hitler aveva una avversione particolare per il calcio, essendo un prodotto della cultura anglosassone, e tanto bastava. Lo stesso Goebbels si trovò a gestire una questione politico-calcistica proprio quando in Europa cominciarono a spirare i primi venti di guerra. Matthias Sindelar, tra l’altro di origine ebrea, è il fuoriclasse indiscusso della nazionale austriaca, uno che con le sue giocate incantava l’Europa intera, capace di mettere la palla in rete dribblando dalla metà campo alla porta tutta la squadra inglese, proprio come fece Maradona anni dopo. La Germania si prese l’Austria 12 marzo 1938 (Anschluss). A quel punto Sindelar avrebbe dovuto confluire nella nazionale del Reich, almeno questi erano i desideri di Goebbels. Ma non erano desideri corrisposti e questo lascia delle ombre sulla morte del calciatore pochi mesi dopo, trovato morto insieme alla sua fidanzata italiana (di origine ebrea anch’essa), in una camera, pare per le esalazioni di una stufa. In molti sospettano l’intervento di una mortifera mano della Gestapo.
Ma nonostante l’antipatia per questo sport di Hitler, e i traffici loschi di Goebbels, i tedeschi del calcio ne andavano pazzi, e forse anche per questo, l’idea di un torneo a Kiev fu resa possibile dagli stessi alti comandi in grado in loco della Wehrmacht stessa. Kordik non poteva farsi sfuggire un’occasione simile. Grazie alla ricerca di vecchi compagni di squadra da parte di Trusevich, tra forni, impastatrici e farina, si annidavano i migliori talenti del calcio ucraino. Le squadre partecipanti erano sei: quattro formate da militari occupanti (truppe tedesche soprattutto ma anche rumene e ungheresi), poi la Ruch (ucraina) squadra sostenuta dal movimento nazionalista ucraino anti-sovietico e filo-tedesco, e infine quella di Kordik, che prese il nome di FC Start. La Start era formata da otto ex calciatori della Dinamo di Kiev e da tre della Lokomotiv sempre di Kiev. Trusevich era il portiere e capitano, Mikhail Sviridovskiy allenatore e giocatore. La difesa e il centrocampo erano molto buoni ma i veri punti di forza erano il portiere e soprattutto l’attacco, formato da Mikhail Melnik, Ivan Kuzmenko, dal tiro potente e preciso e da Makar Goncharenko, dotato di gran talento, il vero fuoriclasse della campagine. Trusevich e Putistin intanto trovarono in un magazzino delle divise rosse : “Non abbiamo armi” disse Trusevich “ma possiamo combattere per la vittoria in campo. Indosseremo questo colore, il colore della nostra bandiera: i fascisti devono imparare che questo colore non si piegherà”. Alcuni richiami rossi Trusevich li mise anche sulla sua maglia nera da portiere.
I calciatori- fornai della Start, non appena scendevano in campo, sembravano dimenticare la tanta fatica, il poco sonno e i modesti pasti, per ritornare in un lampo a essere gli atleti di qualche tempo prima. Il 7 a 2 alla prima uscita rifilato alla squadra nazionalista Ruch è subito un campanello d’allarme per i tedeschi che immediatamente spostano le partite in uno stadio più piccolo con l’obiettivo, malriuscito, di sopire gli entusiasmi della gente di Kiev che invece va ad aumentare con le sonanti vittorie per 6 a 2 e per 11 a 0, ai danni della truppa ungherese e rumena. La Start continuò a vincerle tutte, diventando il simbolo silenzioso della resistenza ai tedeschi, tenendo sempre più alto il morale dei cittadini di Kiev, nonostante la guerra. I tedeschi rafforzarono le loro squadre prendendo calciatori da altre divisioni di stanza in altre zone dell’Ucraina, ma il risultato non cambia: 5 a 1 per la Start. Dopo sette partite, tutte vinte, il bilancio era di 43 gol fatti e solo 8 subiti, nonostante i sempre più massacranti turni alla fabbrica del pane.
La Partita
I Tedeschi, che almeno in quella fase della guerra, non conoscevano sconfitte, non potevano certo permettere un tale affronto: seppure su un campo di calcio. Il 9 agosto del 1942 si preparava così quella che sarebbe passata alla storia come “la partita della morte”. Per questa rivincita che suonava un po’ come una finale, i nazisti reclutano tutti i migliori calciatori presenti tra le fila dell’esercito. Decisero di giocarsi letteralmente tutto, al punto che furono affissi manifesti dell’incontro e fu data grande visibilità alla sfida. Alle cinque del pomeriggio si trovarono contro due squadre, una, Flakelf , ben allenata e in carne, con addirittura undici riserve, l’altra, la Start, composta da undici uomini, stanchi e provati, con più ossa che carne e per di più senza nessuna riserva. Prima del via, gli ucraini raccolsero tutte le forze per incoraggiarsi con l’urlo Hurà, che era anche quello che l’Armata Rossa usava in guerra contro i tedeschi, che lo sentirono.
Chi si scelse come arbitro? Un tedesco naturalmente, forse addirittura delle SS. A questo punto la storia si confonde con la leggenda. Alcune testimonianze riportano di spalti interamente occupati da soldati armati della Wehrmacht, di intimidazioni prima e durante la partita e di un arbitro nettamente dall parte dei suoi connazionali. Ad andare in vantaggio sono i tedeschi – pare con un fallo abbastanza netto sul portiere Trusevich – non rilevato dall’arbitro. Ma la Start è di fatto imbattibile: il tempo di riprendere il gioco, e nonostante falli molti duri, chiude il primo tempo in vantaggio per 3 a 1, grazie a un tiro da molto lontano su punizione di Kuzmenko e a una doppietta del bomber Goncharenko, che, in uno salta tutta la difesa, e nell’altro si cimenta in una acrobatica mezza rovesciata.
“Siamo veramente impressionati dalla vostra abilità calcistica e abbiamo ammirato il vostro gioco del primo tempo. Ora però dovete capire che non potete sperare di vincere. Prima di tornare in campo, prendetevi un minuto per pensare alle conseguenze”. Questa sarebbero state le parole chiare e minacciose di un ufficiale dell SS all’intervallo, nello spogliatoio della Start.
Parole che pare ebbero un certo effetto mandando in confusione gli ucraini, che alla ripresa del gioco subirono ben due gol, portando il risultato sul 3 a 3. Ma fu solo un attimo, non ce n’era per nessuno. La Start si riportò in vantaggio di ben 2 gol, sul 5 a 3, infischiandosene delle minacce delle SS. Ma non è finita, perché per i tedeschi la disfatta prese i contorni dell’umiliazione, quando il terzino ucraino Klimenko, saltò tutta la difesa tedesca, compreso il portiere, e, solo, sulla linea della porta sguarnita, invece di segnare, si voltò verso la tribuna delle autorità naziste, e spazzò la palla il più lontano possibile dalla rete. Fu anche questo gesto a firmare la definitiva condanna a morte di molti di quei calciatori? Difficile dirlo con certezza. Quel che è certo è che non aiutò.
Il fischio finale
Al fischio finale, i calciatori vincitori cominciarono a pensare alle conseguenze di quella ulteriore vittoria. È lo stesso Goncharenko a raccontare:
“Ci trovammo in un silenzio cupo, tetro dello stadio vuoto, soli in mezzo al campo, capimmo di aver firmato con i nostri goal anche la nostra condanna a morte… Ci attardavamo sul campo, come se stando lì fossimo al sicuro, salvi. La paura cominciò a impadronirsi di noi, avevamo fatto semplicemente quello che ritenevamo giusto, non per essere eroi, ma solo come Ucraini che avevano una dignità ed un onore di uomini e di calciatori… Adesso eravamo spaventati per quello che ci aspettava… Avevamo di nuovo la stessa paura dell’inizio partita, che avevamo scacciato con quell’urlo di Hurà, talmente tanta paura da avere persino paura di mostrarla…”.
Nonostante la paura ci fu un’ultima appendice, l’8 a 0 affibbiato alla Ruch. E poi fu la fine.
Molti di quei calciatori morirono. Difficile dire se come conseguenza diretta di quella partita o della guerra, in quanto prigionieri. In tanti subirono le torture della Gestapo, prima di essere deportati nel campo di concentramento di Syrec, poco fuori Kiev, nelle mani delle SS. Invece Kuzmenko, autore del primo gol, Klimenko autore del gesto che umiliò i tedeschi e Trusevich, portiere e capitano, morirono insieme, nella stessa circostanza, giustiziati il 24 febbraio 1943 a seguito di un rastrellamento. Il bomber Goncharenko e Sviridovskiy, riuscirono a fuggire e pare siano stati gli unici a salvarsi. Ma neanche per loro inizialmente fu facile, perché vennero accusati da una parte di russi di essersi imboscati in partite di pallone con i tedeschi invece di combattere a difesa di Mosca e Stalingrado. La polemica durò poco, perché alla porpaganda sovietica faceva più comodo tenerli come eroi, enfatizzando la vicenda. Nel 1981 lo Stadio Zenit di Kiev venne ribattezzato Stadio Start. Erano state solo poche partite di calcio, ma per la popolazione di Kiev, ridotta in schiavitù, gli eventi su quel rettangolo di gioco, furono una piccola rivalsa nei confronti degli occupanti, un modo per non arrendersi, per sopravvivere, per continuare a combattere, a lottare, con la speranza di poter sempre segnare, ancora, un gol per la vittoria.