Il primo album di Kevin Morby in versione cantautore solista è Harlem River del lontano 2013. Da quelle giornate smarrite nella memoria, trascorse a sussurrare al fiume newyorkese, ne è passato di tempo, e intanto Kevin Morby – texano giramondo – ha attraversato gli Stati Uniti d’America con la sua musica e i suoi dischi, portandosi dietro fantasmi ingombranti come Bob Dylan e Lou Reed. Arriva sempre un momento in cui un cantautore statunitense deve fare i conti con lo spettro delle grandi voci americane, a suo modo Morby se l’è sempre cavata benissimo, è riuscito a prendere da Dylan, da Reed, persino da Cohen, ma ci ha messo anche tanto di sé stesso, affermandosi come uno dei cantautori più autentici dell’indie-rock e folk americano del decennio scorso e di quello in corso. La musica di Kevin Morby è come una grande parabola degli Stati Uniti girovaghi. Con City Music nel 2017, Morby ha dipinto un grande affresco sonoro delle città americane, si è messo in viaggio nel cuore rumoroso d’America per provare a dare un suono alle sue città; con Oh My God del 2019 ha esplorato una certa vena del folk da gospel religioso; con Sundowner del 2020 è tornato alla sterminata patria randagia dell’indie-rock che fa luccicare la chitarra. In un certo senso il nuovo album This Is a Photograph sembra un punto d’arrivo di un percorso di continua ricerca cantautoriale. Dopo tanto aver viaggiato, sudato, suonato, Morby ci dà una riprova del suo talento da compositore americano di razza, quasi libero dalle ingombranti grandi voci americane e pieno di prodigiosa amarezza.
Siamo a Memphis. La città che si è presa Jeff Buckley. La città del rock’n’roll. La città di Elvis e del Delta Blues del Mississippi. This Is a Photograph è un’ode a Memphis, una camera oscura per sviluppare un rullino di fotografie e paesaggi in via d’estinzione. Se vai a Memphis non andare a nuotare nel fiume Mississippi, canta Kevin Morby in Disappearing, e la mente va subito a Jeff Buckley che annega nel Mississippi, c’è un caldo rumore d’acqua che scorre e gorgheggia nel disco di Morby, e la figura di Jeff Buckley che torna come un fantasma risorto in A Coat of Butterflies, canto di profonda e sospesa amarezza americana per tutti i figli perduti d’America. Girovagando tra le strade di Memphis, Kevin Morby sembra essersi messo alla ricerca di quei volti smarriti, si sofferma in particolare sulla vicenda di Jeff Buckley e scrive che la sua voce ha messo le ali alla Hallelujah di Leonard Cohen. E così veniamo risucchiati in una storia che ha tanti punti di contatto; Cohen che ha scritto uno di quei pezzi immortali che si fanno ricantare dappertutto, Buckley che è stato uno dei suoi più grandi interpreti; è come quando nella tradizione del Delta nascevano canti blues secolari che si facevano ricantare dalle voci più belle e amare d’America; e allora nelle fotografie scattate da Kevin Morby sembra quasi di risentire gli echi dei più antichi canti dell’America profonda che si ripetono per l’eternità, e i volti giovani degli eroi sommersi come Jeff Buckley.
Memphis riemerge dalle acque ed è piena di fantasmi, Kevin Morby scende nei suoi abissi per acciuffarli e immortalarli. È una discesa con la chitarra in spalla, a partire dalla potente title-track dedicata al padre che appartiene al Kevin Morby più puro, figlio sovversivo e irrequieto del folk-rock contemporaneo. Una discesa dolce e amara nel cuore tenebroso del Tennessee, come nel bellissimo momento di Bittersweat, TN, con la voce di Erin Rea che accompagna quella di Morby in un canto a due che mette i brividi e si potrebbe mandare avanti a oltranza. Nel nuovo album la voce di Kevin Morby sembra ancora più affilata di sempre, la sentiamo farsi urgente in Stop Before I Cry dove il pianoforte accompagna Kevin in un canto disperato del sud; la sentiamo riverberare dylaniana nella conclusiva Goodbye To Good Times. Quello che accade con This Is a Photograph – la sua magia – è l’ascolto più naturale possibile di un disco che si lascia godere dalla prima all’ultima traccia. Non è solamente l’effetto di una discesa agli inferi in una Memphis avvilita dalle sue storie di fantasmi, il Mississippi o il balcone dove hanno ammazzato Martin Luther King; è il modo in cui Kevin Morby aziona una straordinaria macchina che va avanti e indietro nel tempo, tocca la grazia nei suoi chiaroscuri, la dolcezza e l’amarezza insieme, e ci fa perdere perdere e perdere nelle torbide acque dei torrenti più puri del cantautorato americano.