Non è un mistero: siamo iperconnessi. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione tecnologica e, chi più, chi meno, ma in media un po’ tutti, ci siamo lasciati travolgere. Esistono i social, tramite cui, purtroppo o per fortuna, condividiamo molto di noi. Il concetto stesso di quotidianità scorre secondo il percorso fatto di pixel, 4g e like (o cuori, dipende dal social) dettato compulsivamente da questi mezzi: svegliarsi, zittire la sveglia, un rapido sguardo a Instagram, Facebook e Twitter, fare colazione, impegnarsi nello studio o nel lavoro con qualche furtiva incursione social relegata alle pause e avanti così, fino all’ora di andare a letto.
Eppure, in tutto questo fiorire di like, swipe up, dirette e condivisioni, possediamo ancora un filtro, diversi modi per tutelarci. In un mondo ormai abituato a condividere sempre, condividere tutto, possiamo sempre scegliere come mostrarci e cosa di noi rendere agli altri. Nella corsa alla condivisione sfrenata, alla monetizzazione legata ai click e alle visualizzazioni, la nostra vita privata per fortuna resta tale.
Pensiamoci un attimo: e se non fosse più così? Se fosse anche peggio? Se, all’improvviso e a livello mondiale, venissero messi in commercio dei robottini tanto morbidi e carini, dal cuore alimentato a batteria e occhi fotocamera-muniti arivati a stravolgere quello che normalmente intendiamo per vita tra le quattro mura?
A instillarci in testa questi dubbi ci pensa la scrittrice argentina Samanta Schweblin con il suo ultimo romanzo, Kentuki, in arrivo in Italia il 19 settembre per Edizioni Sur nella traduzione di Maria Nicola.
Non erano belli, eppure avevano qualcosa di sofisticato che non riusciva a mettere a fuoco. Che cos’erano esattamente?
Nel mondo più che verosimile raccontato da Samanta Schweblin, quella condivisione ossessiva di spezzoni della propria vita è arrivata al livello successivo: siamo oltre la logica social, infatti non si tratta più solo di supporti tecnologici da utilizzare per renderci un po’ più comoda e veloce la vita e di semplici app per condividere contenuti e fatti che ci piacciono, che ci riguardano. Ciò accade quando, come per magia, abitanti di paesi lontanissimi tra loro (l’Argentina dell’autrice, ma non solo: Cina, Croazia, Israele, Messico, persino in Italia e in tanti altri posti intorno al mondo) si ritrovano ammaliati dai kentuki, questi animaletti teneri e morbidi, peluche fuori e robottino dentro.
Se all’apparenza possono ricordare un’evoluzione dei primi animaletti tecnologici che tutti abbiamo conosciuto e curato negli anni Novanta, i kentuki raccontati da Samanta Schweblin ricordano il Big Brother is watching you di orwelliana memoria. In un formato molto più piccolo, però.
Emilia non riuscì a capire subito quello che vedeva. Il lato frontale della scatola era quasi tutto trasparente, si vedeva l’interno vuoto, e sugli altri lati c’erano fotografie di profilo, di fronte e di spalle di un peluche rosa e nero, un coniglio rosa e nero che assomigliava più a un cocomero che a un coniglio. Aveva gli occhi sporgenti e due lunghe orecchie sopra la testa. Le univa un fermaglio a forma di osso, che le teneva dritte per pochi centimetri, e poi le lasciava ricadere languide ai lati.
Coniglietti, corvi, topini, draghi pronti ad essere adottati da chi desideri accoglierli in casa propria e diventare quindi padrone di un kentuki, quasi fosse un cucciolo vero. Chi adotta questi esserini (pagandoli una cifra considerevole) è consapevole di stare spalancando le porte a qualcun altro. Nella scelta del kentuki si può decidere di averne uno o di esserlo.
Cosa vuol dire essere kentuki? Al posto di comprare l’animaletto-robot fisico, si ottiene una scheda di connessione e questa si ha accesso al dentro: comodamente e spesso in maniera totalmente causale, si creano delle reti tra un determinato computer o tablet e un kentuki. Chi sceglie di essere kentuki ha la possibilità di vedere cosa succede, proprio grazie agli occhietti del peluche che nascondono una telecamera.
Alla lunga il kentuki avrebbe comunque finito per sapere di lei più cose di quante lei ne sapesse di lui, però la padrona era lei e non avrebbe permesso che il suo peluche fosse nulla di più di un animaletto. In fin dei conti, non le serviva nient’altro che un animale da compagnia. Non gli avrebbe fatto nessuna domanda, e senza le sue domande il kentuki si sarebbe trovato unicamente a dipendere dai suoi movimenti. Non avrebbe avuto modo di comunicare. Era una crudeltà necessaria.
Che sia per passatempo, compagnia, curiosità o perversione, cominciano a instaurarsi così, da un punto all’altro del pianeta, diverse connessioni. A volte impensabili, morbose o interrotte. Come fare a mettere fine a un legame non voluto? Una volta che la connessione salta, questa non è nuovamente replicabile e il gioco domestico di chi guarda e si lascia guardare viene interrotto senza la possibilità di tornare indietro.
Con uno stile affilato, a tratti morboso e senza dubbio frammentato, Samanta Schweblin scrive una distopia che ci sembra molto più vicina di quanto possiamo immaginare. I flash che escono da ciascun capitolo di Kentuki sembrano ricordarci a cadenza regolare che la tecnologia ha fatto passi da gigante e tutto quello che viene raccontato potrebbe accadere, magari è già accaduto.
È un romanzo che rapisce, questo Kentuki. Ci fa sentire molto vicini alla signora anziana che vive lontana dal figlio e che trova sollievo nell’essere il kentuki di una giovane ragazza tedesca che potrebbe essere sua figlia, per l’appunto; al bambino che trasgredisce le regole nel tempo dedicato allo studio e col suo animaletto robotico finisce per vedere la neve; al padre che finisce per affezionarsi al kentuki più del figlio che ne avrebbe bisogno per migliorare il suo modo di relazionarsi agli altri e per superare il divorzio dei genitori.
A farla da padrone, in Kentuki, non sono i possessori del gioco in sé, né chi viene osservato da questi piccoli e teneri big brother, tantomeno gli stessi animaletti. La componente dominante di questo romanzo è senza dubbio la comunicazione tra due e più persone e i limiti che spesso tendiamo ad oltrepassare. Si può scegliere se mettersi in contatto o meno con la persona dall’altro capo del mondo o se porre fine al tutto, si può persino sostituire il vecchio kentuki con uno nuovo e ricominciare tutto da capo.
Tutto quello che Samanta Schweblin racconta nel suo ultimo romanzo è così plausibile da sembrarci realizzato di qui a poco. Si avvererà mai, in un futuro neanche troppo lontano, qualcosa del genere? Di sicuro a lettura ultimata finirete per chiedervelo.