Kendrick Lamar è un giovane rapper statutinense, con una classica adolescenza difficile alle spalle ed un radioso futuro davanti a se. Good Kid m.A.A.d. city è il coronamento di un percorso artistico che lo ha visto affermarsi nell’universo hip hop americano e mondiale. Il motivo per cui ascoltate Kendrick Lamar, a meno che non abbiate già apprezzato l’acclamato Section.80 lo scorso anno, è uno solo ed è la metà di 19. Kendrick è nato e cresciuto a Compton, città LosAngelina icona della ThugLife nella costa occidentale degli states. In GKMC la città è onnipresente, c’è tutto il travagliato mondo interiore di Kendrick e tutte le sfumature di ciò che lo circonda o lo ha circondato in vita sua, c’è, didascalicamente, un bravo ragazzo ed una città strana in cui crescere. Questo è un disco visceralmente autobiografico ed introspettivo, oltre che sorprendentemente ambizioso.
Il primo centro tematico dell’opera lo troviamo già nella seconda traccia, Bitch Don’t Kill My Vibe, Kendrick incide subito a fuoco nelle nostre menti il formidabile hook con la sua voce robotica (preferita alla versione con Lady Gaga), tratto distintivo lungo tutto il disco. Sorprendono il flow fuori dal comune e la consapevolezza con cui canta della sua identità e vicenda artistica, in questo momento di arrivo al successo, circondato da persone, complicazioni, vibe-killers dai quali vuole allontanarsi e restare solo, lontano dai colleghi arrivisti, da logiche esterne alla sua arte e a quello che vuole restituire alla sua gente, alla sua città, unico sostegno a cui essere grato per dove si trova ora, per la fortuna che ha e che non spreca per il guadagno rapido di una stagione. A questo manifesto segue una stridente e folgorante Backseat Freestyle, un Kendrick giovane, che prende confidenza col rap (in macchina con amici, su un cd di basi) e parla di money&power e di bitches, quello che sogna all’inizio di un percorso, come nelle prime scene di un film (il disco è sottotitolato “a short film by Kendrick Lamar” e le dinamiche narrative ricalcano proprio quelle di una pellicola di introspezione autobiografica), con tono aggressivo ed un beat da club. Seguono vicende, testimonianze, logiche e tentazioni di un giovane nella città, Kendrick è capace di un incredibile wordplay, oltre che di liriche raffinate e complesse incasellate con grande efficacia rappresentativa.
L’intera produzione del disco è caratterizzata da un marcato carattere West Coast che può, ad un primo approccio, far storcere il naso, ma tutto è sempre orchestrato ad arte: i beat con il rullante high-pitched, gli archi, i lead e i campioni funzionano, come anche le strutture e i bridge melodici, sebbene con diversi risultati, su tutti i pezzi del disco. Tutto è costantemente strumentale allo scenario, alla giustapposizione di diversi mood e momenti narrativi, espediente chiaro tra Bitch Don’t Kill My Vibe e Backseat Freestyle, come di nuovo tra Good Kid, clarinetto e basso agile, e la sucessiva m.A.A.d. city, synth in puro stile gangsta rap e un Kendrick ancora giovane con voce acerba e lamentosa. Ad incuriosire dai primissimi ascolti è l’ampia gamma di registro vocale nella quale Kendrick spazia anche più volte nello stesso pezzo, altro mezzo per rendere i diversi tempi narrativi e fare ancora più vivido l’affresco.
Alla collaborazione con Drake in Poetic Justice, provvidenziale giustizia poetica invocata per la violenza che soffoca l’amore (come un fiore che sboccia in una stanza buia, come un good kid in una mad city), segue prima la coppia di pezzi che dà il titolo al disco e poi Swimming Pools, in cui il rapper tratta i demoni dell’alcol impersonando anche la sua coscienza, che inizia su sonorità sintetiche e profonde simil-M83, per esplodere su un chorus con uno degli hook più assassini che si possano trovare in un pezzo hip-hop.
L’atto finale è il culmine dell’opera: i 12 minuti di analisi artistica di Sing About Me, I’m Dying Of Thirst terminano sulle preghiere di un battesimo che chiudono il cerchio aperto con quelle dei primi secondi del disco e introducono Real, spannung emotiva della storia, non il primo pezzo a colpire nell’ascolto, ma di certo uno dei più tematicamente significativi. Kendrick si interroga su cosa significhi essere “real”, il desiderio di un ragazzo per emergere da uomo, amare il posto da cui si viene e le cose con cui ci si identifica, avere money-power-respect, finché non è suo padre, ancora in un messaggio al telefono, a chiarire il punto: “Any nigga can kill a man, that don’t make you a real nigga, real is responsability” e poi la madre ad indicargli la via, restituire alla comunità, parole di incoraggiamento ed esperienza, imparare da propri errori e trasmettere ciò che ha imparato.
Questo è il tema al centro di Good kid m.A.A.d. city, il cammino per diventare un uomo di un giovane confuso, attratto dalle forze viscerali dell’animo umano, amore ed odio, peccato e redenzione, fratelli e criminali, ma a salvare Kendrick dai demoni della città è la città stessa, la comunità che lo sostiene, che lo elegge a proprio eroe e lo aspetta “like the 1st and the 15th” (i giorni dell’assegno previdenziale), è la sua famiglia. Dalle parole della madre si apre un epilogo esterno, sui tioli di coda, ed è Compton, celebrazione della città, ma soprattutto incoronazione di “king Kendrick” dalle mani di Dr. Dre, eroe archetipico del quartiere, da ragazzo di strada a pioniere del gangsta rap, poi produttore e ancora oggi rapper di maggior successo al mondo (per avere un’idea del suo fatturato quest’anno potete sommare quelli di Jay-Z, Kanye e Diddy). Si inaugura “the new faith of Kendrick Lamar” culto autoproclamato per l’ambizione di un nuovo grande rapper, già maturo e oggi nuovo re, con un disco di una profondità tematica, lirica e tecnica impressionante, che non per questo manca di divertire o sorprendere quando, dopo settimane, lo si ascolta ancora voraci e ci si trovano ancora sorprese. A mani basse disco (hip-hop?) dell’anno.
Interscope/Aftermath/Top Dawg, 2012