Lo scorso 14 Aprile è uscito l’atteso nuovo album di Kendrick Lamar, DAMN., un disco che non smette di far parlare e lasciarsi ascoltare. Ne approfittiamo per sviscerare l’album con un approfondimento in due parti: una dedicata ai testi di Lamar, e l’altra alla musica a cura di Giuseppe Mancino e Giulio Pecci. Un manuale di istruzioni all’ascolto di quello che è già un masterpiece.
I TESTI
a cura di Giuseppe Mancino
Se parliamo dei testi, il lavoro di Kendrick Lamar è allucinante, e non esito a dire che ci troviamo di fronte al suo lavoro più complesso in questa ottica. Ad oggi, in realtà, non si è ben capito quale sia il messaggio che il rapper di Compton ha nascosto in DAMN., considerando le svariate interpretazioni che sono riuscito a trarre dai miei quindicimila (all’incirca) ascolti. Per mostrarvi la perfezione del lavoro di Kendrick, vi sintetizzerò alcune delle teorie più interessanti, sia di mia inventiva, sia pensate da altri.
The Other Color: per giorni si è speculato sulla teoria e la speranza di un secondo album, ma non è arrivato
L’aspetto più curioso è legato alla teoria del secondo album che si è diffusa a macchia d’olio su internet nei giorni successivi alla pubblicazione del disco: al seguito di svariati indizi, come una foto di Kendrick davanti a un muro blu e un paio di tweet sospetti di Sounwave (storico produttore di TDE), si pensava che il “TOC” di cui Kendrick parlava in The Heart Pt.4 non fosse altro che The Other Color, proprio riferito al blu, e quindi fosse un riferimento ad un altro album in uscita.
Sarà stata la perfezione di questa teoria, sarà stata l’inusuale difficoltà nel trovare un messaggio in DAMN., ma ci ho creduto fino alla fine, e non vi nascondo la mia assoluta delusione quando a mezzanotte di Pasqua non c’era nessun TOC, ma solo mandrie di fan, ovviamente amareggiati come me.
È interessante, però, pensare a un album nell’album, quando si parla di DAMN.: molte persone, infatti, hanno elaborato la teoria del REVERSE proprio come risposta a chi chiedeva con insistenza un doppio album.
SPOILER ALERT: DA QUI FINO ALLE CONCLUSIONI SULL’ALBUM ESPORRÒ DELLE TEORIE CHE CONTENGONO ANTICIPAZIONI SUL DISCO… POTREBBE TOGLIERE IL PIACERE DELLA SCOPERTA!
WE GON’ PUT IT IN REVERSE. Sono queste le parole con cui Kid Capri illumina la lampadina dei fan di Kendrick, che a questo punto si chiedono: “E se bastasse ascoltare le tracce all’inverso?”
In effetti questa teoria è molto interessante, dato che si ha l’impressione che in questo modo Kendrick “muoia” sparato dalla donna in BLOOD., dopo essere caduto in tutte le tentazioni che lo terrorizzavano in FEAR..
È molto più curioso, a mio avviso, come il disco presenti delle forti somiglianze con il primo libro biblico di Giobbe, citato sempre in FEAR.
“All this money, is God playin’ a joke on me?
Is it for the moment, and will he see me as Job?
Take it from me and leave me worse than I was before?”
A tal proposito, ho notato un’evidente somiglianza tra i versi del sopracitato libro e i pezzi presenti nell’album; innanzitutto, essendo Giobbe una metafora che esprime le contraddizioni della giustizia, non si può non notare come Kendrick nella traccia numero 1 venga proprio ucciso da una donna cieca, alla quale potremmo quindi attribuire l’identità della Giustizia.
Subito dopo, ho trovato evidente una somiglianza tra i ventidue versi che compongono il prologo del libro di Giobbe e le quattordici tracce di Damn, che sembrano ricalcare il tema della tentazione, della punizione ingiustificata, ma anche dell’attaccamento ai beni materiali piuttosto che a Dio.
Tra riferimenti biblici e profonde riflessioni sulla vita, King Kendrick sforna un vero e proprio masterpiece letterario
Ad esempio, basta notare la somiglianza tra il verso Job 1:11 e l’undicesima traccia dell’album, che parlano entrambe della perdita di qualcosa o qualcuno e della reazione che ne potrebbe derivare. Nei pezzi, però, Kendrick sembra mostrare un’attitudine opposta a quella di Giobbe, un’attitudine dubbiosa e poco fedele nei confronti di Dio, un’attitudine che secondo il cugino Carl (come afferma in alcune skit contenute nell’album) dipende dal DNA della razza nera, che secondo la sua interpretazione del Deuteronomio è in realtà la vera stirpe discendente da Israele, quella guidata da Mosè nell’Esodo verso la Terra Promessa e condannata da Dio a soffrire prima di godere della luce divina.
Se, arrivati alla traccia 14, si lascia suonare l’album al contrario, si noterà come la corrispondenza tematica col libro di Giobbe andrà avanti fino al verso 22, ovvero fino alla traccia 6, LOYALTY (in italiano “fedeltà”), che guardacaso è concorde nel tema col 1:22 del libro biblico. Probabilmente, le tracce dalla uno alla cinque rappresentano ciò che tiene Kendrick legato alla Terra e al materialismo, e come emerge dall’anagramma dell’ ultima lettera di ogni pezzo: “EARTH LED 2 DEATH”, ovvero La Terra portò alla morte, che si concretizza sempre nel primo pezzo, sempre per mano della Giustizia.
Questa chiave di lettura sicuramente non manca di fascino, e modestamente è tutta frutto del mio cervello.. ma se vi dicessi che non è tutto?
Ho trovato, infatti, delle curiose somiglianze tra la figura del profeta biblico per antonomasia, Mosè, e quella del nuovo profeta degli afro-americani, Kendrick Lamar in persona. Entrambi di razza mista, entrambi hanno una sorella, entrambi hanno ucciso un uomo. L’idea di metterli a confronto è nata da un riferimento di Kung Fu Kenny nella seconda traccia, DNA.:
“These are the times, level number 9
Look up in the sky, 10 is on the way
Sentence on the way, killings on the way
Motherfucker, I got winners on the way”
Il riferimento è chiaro: Kendrick invita a guardare in cielo alludendo alla nona piaga d’Egitto, narrata nel libro dell’Esodo, che consiste nell’imbrunire del cielo per la durata di tre giorni. Poi anticipa “10 is on the way“, come per predire la decima piaga, la morte dei primogeniti egiziani, che precederà a sua volta la liberazione degli Israeliti. Ci sono, ovviamente, numerosi altri indizi nell’album che rimandano a Mosè, e non è chiaro se questi indizi sono solo dei semplici accenni al profeta oppure se mirano a indirizzare l’ascoltatore nella giusta direzione interpretativa; di certo sono spunti interessanti e danno un’idea riguardo alla grandezza del lavoro svolto da K.Dot.
Fine spoiler. Tra riferimenti biblici e profonde riflessioni sulla vita, King Kendrick sforna un vero e proprio masterpiece letterario prima che un album, un’opera più astratta e meno ordinata di To Pimp a Butterfly ma non per questo meno curata, ma che anzi è perfettamente studiata per lasciare spazio all’interpretazione dell’ascoltatore. DAMN. è infatti tutt’altro che lineare e logico nello storytelling come il predecessore, presentando invece uno stile molto più criptico e ponendosi un obiettivo complesso: spingere alla riflessione.
In un mondo in cui Dio è sempre più messo alla porta in favore di quelli che definiamo “idoli”, l’artista lo rimette prepotentemente al centro delle nostre esistenze, ricordandoci che forse sarebbe il caso di pensare meno a soddisfare i nostri istinti quotidiani e al contrario volgere lo sguardo un po’ più in là: in qualsiasi momento la nostra vita più cambiare radicalmente o addirittura finire senza preavviso, e a quel punto potrebbe essere troppo tardi per chiedere una mano a Dio.
LA MUSICA
a cura di Giulio Pecci
C’è un motivo per cui ce la siamo presa “comoda” (per i folli ritmi del giornalismo moderno) nell’analizzare questo disco, mentre a nemmeno due ore dalla sua uscita, a volte addirittura prima, già erano stati spesi fiumi di parole. Cosa in parte normale e giustificabile, visto che parliamo del rapper più importante ed influente del momento, uno dei più importanti della storia probabilmente. La motivazione è che questo non è un album che si può capire ed analizzare in ventiquattro ore, come in molti hanno avuto la pretesa di fare, perché è veramente complesso, sotto ogni punto di vista, dai testi alla musica.
DAMN. è un compromesso fra Good Kid Maad City e To Pimp A Butterfly che segna un’ulteriore crescita e consapevolezza di Kendrick Lamar
No, non è un To Pimp A Butterfly Vol. 2, e questo solo in parte c’era da aspettarselo, cosa un po’ meno evidente nei testi, come sottolineato ed analizzato ottimamente da Giuseppe, ma chiaro fin da subito nella parte musicale. Ero stato il primo infatti ad ipotizzare qualche tempo fa che forse ci si poteva aspettare che Kendrick continuasse quella via che aveva intrapreso con coraggio ed incredibile efficacia, ma come tutti i veri artisti il prodigio di Compton ha eluso qualunque previsione ed aspettativa, e ha seguito un’altra strada che risulta comunque di livello altissimo, e con pochi se non nessun paragone nell’attuale scena per qualità e complessità. Insomma diciamolo forte e chiaro e partiamo da questa premessa: il livello delle produzioni su praticamente tutte le tracce del disco, è semplicemente di un altro livello.
La musica dell’album rispecchia in un certo senso il “cubismo” della sua controparte lirica, non troviamo un’unica linea, un filo rosso che ci guida come poteva essere per TPAB, ma tante sfaccettature diverse e complesse, intersecate e che interagiscono fra loro o che si ignorano sfacciatamente, come ad esempio il passaggio fra l’onirica e prevalentemente strumentale PRIDE. al beat micidiale di HUMBLE., primo singolo dell’album. Si capisce quindi perché il lavoro abbia incontrato, soprattutto nelle prime ore dalla sua uscita, una doppia ricezione da parte di un pubblico incredibilmente eterogeneo per ascolti e background culturale.
Chi infatti ha conosciuto Kendrick Lamar con To Pimp A Butterfly non si è ritrovato, almeno all’inizio, nelle sonorità più strettamente rap ed hip-hop dell’album, più vicine a volte a Good Kid Maad city che a TPAB, mente i fans della prima ora ed i cultori del genere si sono ovviamente esaltati per un ritorno a qualcosa a loro più consono. Chi ha ragione?
Nessuno dei due probabilmente, visto che in realtà tendo a pensare che a livello musicale DAMN. sia un buon compromesso fra il secondo ed il terzo album di Lamar con un’ ulteriore crescita e consapevolezza da parte del rapper losangelino, che ha acquisito una tale libertà creativa, e vive un momento così magico, che può permettersi mosse assolutamente “folli”, come lasciare che un’intera traccia (cfr. PRIDE.) sia prodotta dal diciottenne chitarrista dei The Internet Steve Lacy, che come esperienza di produzione ha soltanto una collaborazione con J. Cole, oppure prendere una superstar mondiale come Rihanna ed invece di farle cantare un ritornello catchy decidere di usarla per i cori e per farle cantare/rappare una breve strofa. O ancora, inserire gli U2 (!) fra l’elenco dei featuring, facendo impazzire il mondo.
Kendrick ha unito persone da gusti e storie molto lontane tra loro, appassionati di jazz ed hip-hop heads, studenti universitari e ragazzi lavoratori che trovano nel rap il loro sfogo quotidiano
Tutte mosse sulla carta abbastanza rischiose, ma che ripagano, al punto che LOYALTY. con Rihanna risulta comunque una hit da classifica, ma con qualcosa di originale e particolare, PRIDE. è uno dei migliori pezzi dell’album ed XXX per cui Bono presta la voce è in tutto e per tutto un pezzo di Kendrick, e non come qualcuno aveva ipotizzato un tentativo folle e triste di rivitalizzare la carriera degli U2 (per quello forse non basterebbe l’intervento divino).
L’album vede poi un grande ritorno in un lavoro di questo livello, quello di uno strumento che negli ultimi anni era spesso stato lasciato languire in una specie di purgatorio musicale, a smaltire i propri peccati d’ego: la chitarra. C’è veramente tanta sei corde nel disco, per lo meno per ¾ di esso, in modo evidente nella già citata PRIDE. o in LUST. ed in modo più discreto in altre tracce come FEAR. Altra caratteristica di alcuni dei migliori pezzi sono gli improvvisi e geniali “beat changes” come in DNA. ma soprattutto nella canzone forse più complessa nonché una delle migliori dell’album, DUCKWORTH., cambi che non possono far altro che scatenare reazioni del genere.
Come era lecito aspettarsi inoltre, i produttori e i musicisti accreditati per la scrittura e la produzione delle tracce sono la crème de la crème mondiale, Mike Will Made It, Sounwave, DJ Dahi e Anthony Tiffith affiancati da Thundercat, BadBadNotGood, James Blake, Terrace Martin e tanti altri ancora (non vi svelo le tracce di competenza di ognuno, vi toglierei il gusto della sorpresa).
Voglio chiudere il discorso tornando sulla sua ormai incredibilmente variegata ed enorme fan base. Si può dire che in un certo senso Kendrick con TPAB abbia portato chi ascoltava rap ed hip-hop ad aprire i propri orizzonti musicali, facendo conoscere e aumentando a dismisura la fama di giganti moderni del jazz come Terrace Martin, Kamasi Washington, Thundercat e Flyng Lotus (“Last LP I tried to lift the black artists But it’s a difference between black artists and wack artists” canta in ELEMENT, riferendosi direttamente ai suoi “colleghi”). Questa volta invece pare abbia seguito il procedimento inverso, ovvero portare la nuova fetta di fan che si era costruito con l’album precedente, più abituati a quel tipo di ascolti, verso sonorità che non erano pane per i loro denti. Insomma ha preso chi lo ha amato per Good Kid Maad City e chi lo ha amato per To Pimp A Butterfly e li ha, definitivamente, messi insieme (per chi già non era fan di tutte e due le cose ovviamente).
Nel 2017 delle divisioni, della nuova ondata di razzismo e omofobia, DAMN. assume un’importanza sociale come fu lo scorso anno Lemonade di Beyoncé
Credo che un artista che riesce a fare un qualcosa del genere sia un unicum attualmente, e che sia un procedimento, che io voglio credere ricercato e voluto fortemente, di cui si sottovaluta forse l’importanza a livello di influenza sull’ambiente musicale e le sue dinamiche, così come sulla cultura e sugli ascolti degli appassionati. Kendrick ha unito persone per gusti e storie molto lontane da loro portando insieme appassionati di jazz ed hip-hop heads, studenti universitari e ragazzi lavoratori che trovano nel rap il loro sfogo quotidiano.
Nel 2017 delle divisioni, nella nuova ondata di razzismo e omofobia, credo che sia già di per sé questa un’impresa incredibile, per certi versi simile a livello sociale a quella portata avanti da Beyoncé l’anno scorso con Lemonade, ma con un radicamento ancora più profondo perché agisce direttamente sulla sfera più intima delle persone, sui loro gusti personali, e li porta insieme, annullando barriere di genere e lasciando perdere slogan politici anacronistici e boriosi discorsi, puntando al sodo.
Quindi grazie mille K-Dot, o meglio, Kung Fu Kenny e alla prossima.