La domenica sera, quando non c’era più niente nel frigo e tutto era deserto in giro, Michele andava dall’Arabo a mangiare il kebab. In città quel piccolo spaccio che si ostinava a restare aperto fin tarda notte sette giorni su sette a smerciare kebab, falafel e affini, lo chiamavano tutti l’Arabo, anche se Kemal il proprietario veniva dal Sud della Turchia. E la Turchia non è davvero un paese arabo, non parlano neanche l’arabo in Turchia ma il turco, e per esser coerenti in città avrebbero tutti dovuto chiamarlo il Turco quel localetto del centro con le insegne al neon, però nessuno sta a guardare davvero le sfumature, soprattutto dentro una grande città, e quello che tutti definivano kebab era solo un panino con carne allo spiedo, e nessuno ci avrebbe scommesso sopra un soldo di ritrovarlo anche nelle case dei veri turchi, condito con patate, insalata, salse varie, cipolle, pomodori e qualche volta melanzane. Dentro il locale di Kemal si affollavano gli sfollati della domenica, che rientravano a casa dopo l’aperitivo elemosinando cibo d’asporto, e famiglie di immigrati in cerca di una televisione che parlasse in turco, o trasmettesse la partita di calcio di team di football esotici che a nessun italiano andava di guardare in città. E poi c’erano i ragazzini, che provavano a esser ribelli accompagnando una sigaretta al morso di un panino con carne tagliata dal Turco.
”Panino o pita?”, chiedeva il Turco, sorridendo come un dannato che si è dimenticato di tutta la parte di vita precedente, quando questa domanda forse neanche avrebbe mai sognato di farla.
”Panino”, Michele non riusciva a capire perché tutti scegliessero la pita. Il panino era fresco e croccante. ”E senza cipolle.”
”Lo so.”, sorrideva ancora il Turco, come tutti quelli che vendono qualcosa e pretendono di conoscere le abitudini dei clienti. Come il tabaccaio che allunga già la mano verso l’esatta marca di sigarette che compri tutti i dannati giorni, prima di arrivare sorprendentemente con una strana richiesta come ”hai un pacchetto di gomme?un biglietto del bus?fazzolettini?”. La riconosci sempre la delusione del tabaccaio che sperava di venderti il pacchetto quotidiano, e che ti implora con lo sguardo di non cambiare negozio, perché in fondo lui ti ha capito ed è più simpatico degli altri, e appena entri non ti fa neanche sforzare nel dire cosa vuoi.
”È da un po’ che non ti vedo”, era simpatico Kemal il Turco, e non solo perché sorrideva sempre a tutti.
”Non ero in città”, Michele mentiva, ma non gli andava mai di confessare la verità ai venditori simpatici, non gli andava di deluderlo e dirgli ”l’ultima volta che ho mangiato un tuo kebab amico qualcosa deve essere andato storto, perché non ho dormito per tutta la notte, e solo oggi che avevo il frigo vuoto mi è tornata la voglia’‘. Mentre aspettava che Jamila riempisse il panino di carne e tutto quello che aveva scelto di metter nel panino, Michele pensava che fosse davvero strano che lì dentro lavorasse una donna. Da sempre aveva dato per scontata la presenza di Jamila a servizio di Kemal, ma a pensarci bene quale altra donna faceva i panini nei localetti che vendono kebab? Erano sempre maschi, sbracciati con la t-shirt per il caldo, sudati, vestiti di bianco, manovali col cappellino in testa. Ma da Kemal c’era Jamila, e lui non si era mai accorto di quanto fosse naturale la presenza di Jamila. Forse era quella la maniera in cui Kemal si assicurava pari opportunità di lavoro nel suo locale.
”E dove sei stato?”, chiese Kemal.
”Fuori città.”, tagliò corto Michele sorridendo.
”E si sta bene fuori città?”
Michele ci pensò su. Si sta bene fuori città? Considerò l’ipotesi, pensò a una città senza Kemal e Jamila, senza il tabaccaio che sa precisamente cosa fornire tra tutte le marche di sigarette possibili, e senza la strada di casa. ”Il mondo è tutto uguale.”, disse sopraffatto dai pensieri.
”È davvero tanto tempo che io non vado fuori città, in Turchia.”
Pensò alla Turchia, doveva esser strano esser catapultati dalla Turchia a una città italiana a sudare tutto il giorno per smerciare kebab a questi strani occidentali che van sempre di fretta da qualche parte e al bancone urlano tra loro ”ehi, hai mai assaggiato il kebab di Kemal?’‘ sovraeccitati.
Quella sera il pane sembrava più croccante del solito, pensava Michele mentre lo mordeva. ”È buono questo pane, sembra quasi fresco”, rise rivolto a Kemal. ”Lo è”, esclamò il Turco. Ora stava riflettendo sulla domenica, e il pane della domenica: da qualche parte in città c’era sempre un forno che cuoceva pane fresco, anche di domenica. Ci doveva essere per forza, in qualche periferia urbana, un fornaio che guadagnava qualcosa dal riposo e dalle domeniche degli altri. O forse era il solito fornaio di sempre, quello più avido di tutti gli altri. ”Ti avevo detto senza cipolla”, aggiunse Michele scartandone una dal panino. ”Oh davvero, hai ragione. Jamilaaa!”. Jamila. Se la prendeva sempre con Jamila. Per acquietare subito quel finto screzio Michele disse che quella sera anche le cipolle erano buonissime, ci doveva essere un complotto in città: la domenica delle cose buone da mangiare. Persino le cipolle. ”Ma le cipolle son buone sempre”, ribatté il Turco. ”Non è per le cipolle, è che mi lasciano un pessimo alito”, appuntò Michele. ”Non sono da meno del vostro ketchup”, rise il Turco. Ora Jamila si stava muovendo a ritmo di qualche musica turca mentre faceva cadere la carne cotta a pezzettini dallo spiedo. Per un attimo Michele si chiese se Jamila fosse felice a fare quello che faceva, e anche se fosse davvero una turca. Forse avrebbe scommesso più sulla felicità che sull’origine di Jamila, e sì l’avrebbe detta felice in fondo. Pensò che erano anni che andava a mangiare il kebab dal Turco senza sapere niente del Turco e di Jamila: quali pensieri li affliggevano al mattino, se avevano problemi economici, se erano sposati, da dove venivano, dove erano cresciuti, e se pensassero mai a casa, e quale casa. Avrebbe voluto domandargli qualcosa, avrebbe voluto davvero saperne di più, delle rotte dei loro viaggi, e di cosa pensavano di fare a diciotto anni, che strade avevano sognato, avrebbe davvero desiderato passare una serata insieme solo con Kemal e Jamila a cena a parlare di tutto, ma si alzò, pagò tre euro e se ne andò. Per un po’ girò in tondo, entrò in un bar, prese una birra, notò l’anello scintillante di un barista anonimo, e poi prese la rotta aliena di un piccolo viaggio urbano fino al portone di casa.
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Elisa si svegliò di scatto. Era un lunedì qualunque, e aveva avuto l’incubo di doversi alzare presto. Erano solo le sei del mattino, provò a rintanarsi sotto le coperte, ma capì immediatamente come non fosse il caso di resistere all’insonnia mattutina: non avrebbe dormito più. La morsa alla gola, quella maledetta morsa alla gola. Andò verso la cucina, aprì il frigo e bevve da una bottiglia di acqua gasata che ormai aveva perduto la sua frizzantezza. Era tutta colpa di Giacomo, quel nuovo coinquilino che lasciava sempre le bottiglie sprovviste di tappo: chissà che diavolo ci faceva con quei tappi. Dannato Giacomo, pensò. Si sdraiò sul divano in cucina e prese un libro a caso poggiato sul comodino: La Divina Commedia. Per anni Elisa aveva creduto a un misterioso sottotesto nascosto in quel libro, aveva provato anche a leggerlo al contrario, dal Paradiso all’Inferno, pur di individuare il vero significato. Lo avrebbe mai trovato? Si sarebbe fidata tanto di se stessa da crederci? L’unica certezza che aveva ricavato fuori era l’inesistenza del Purgatorio prima della Commedia di Dante. E del resto anche nella vita non aveva mai riconosciuto un vero e proprio Purgatorio.
Ci sono solo inferni e paradisi, questo pensava Elisa alle sei e mezza del mattino, mentre tutto si preparava a svegliarsi. A un tratto le tremarono i piedi dal freddo, si accorse di aver dimenticato i calzini tra le coperte. Le succedeva spesso: andava a dormire coi calzini ai piedi, e poi li ritrovava al mattino chissà dove, spulciava l’intero letto, e finivano sempre nei posti più strani, per terra, in fondo al letto, ai lati del letto, e qualche volta sul cuscino. Doveva muoversi davvero tanto, nel letto, ma per fortuna non doveva dar conto a nessuno. E quando le toccava di dar conto in fondo che importanza aveva. Cambiò subito libro, aprì un libro di poesie francesi, fissò il vuoto, sospirò, invocò persone e uno jagermeister. Alle dieci e mezza sarebbe dovuta andare al Direttorio, e c’erano intere ore a separarla dall’appuntamento. Accese la televisione e fermò lo zapping solo su un vecchio film in bianco e nero, di quelli che rilassano sempre lo spirito e hanno le battute giuste al momento giusto: lo guardò, e si addormentò. Alle nove Giacomo entrò in cucina canticchiando qualcosa in inglese e la svegliò di nuovo. Sembrava così infreddolita che a Giacomo venne quasi voglia di carezzarle i capelli, ma le portò solo una coperta con sorpresa di Elisa. Lei si accucciò sotto coperta, si sentiva quasi cullata da una dolce brezza che batte su una spiaggia d’estate, e pensò quasi di disertare il Direttorio. Nella dolce brezza delle nove del mattino cominciò a pensare a Paul, quel suo vecchio fidanzato che era tornato a Leeds distrutto: avrebbe fatto bene a restare con Paul, o forse c’era del buono in quel godere la brezza delle nove del mattino sotto una coperta qualunque in casa con un tizio qualsiasi che aveva voglia di toccarle i capelli?
Di tizi che avevano voglia di toccarle i capelli per finire alle cosce ce ne n’erano tanti in giro in città, ma Giacomo era arrivato a questo desiderio davvero lentamente. All’inizio si erano odiati cordialmente, con una certa ruggine nelle parole continuavano a parlarsi senza ascoltarsi, ognuno convinto della malafede dell’altro, ognuno convinto a suo modo che qualcosa nella fisicità dell’altro urtasse la propria idea del mondo. Il naso di Giacomo, quello non contava niente di buono. E cosa dire dei polpastrelli di Elisa allora? Suggerivano sfiducia. Non si sarebbero mai stati davvero simpatici, e Giacomo per poco restò impaurito quel mattino da quell’improvvisa voglia di toccare i capelli di Elisa. Lei intuì tutto, sbuffò e disse: ”Non capisco cosa cazzo ci fai con i tappi dell’acqua”, si alzò per andare in camera e vestirsi. Diede un’occhiata all’orologio appeso alla parete, una perfetta riproduzione funzionale di un quadro di Dalì. Era in anticipo, ma sapeva che sarebbe arrivata in ritardo.
Lungo la strada verso il Direttorio pensò a quanto avesse poca voglia di recarsi in Direttorio. Erano già le dieci e dieci del mattino, si respirava una bella aria, e stava passando accanto al localetto del Turco, senza aver alcuna voglia di mangiare un kebab. Eppure fu come attratta all’interno, da uno di quei frenetici magnetismi che ti portano a gesti senza senso. ”Vuoi qualcosa?”, disse il Turco. Alzò gli occhi e fissò il menu: felafel e kebab a 3 euro, moussaka a 4, e addirittura hamburger in offerta a 2,50. ”Un’insalata di pollo”, sospirò. Un’insalata di pollo alle dieci del mattino l’aveva vista mangiare solo in Germania, ma che importanza aveva. Non aveva voglia di finire al Direttorio, e per evitarselo avrebbe fatto qualunque cosa, anche far colazione col pollo.
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Michele ed Elisa forse nemmeno si conoscono, per quel che ne sappiamo. Michele ed Elisa non si incontreranno mai. Si può andare nello stesso posto senza incontrarsi mai.
Credete nel caso? Da queste parti il caso non esiste, è una caramella balsamica che tenta di curare il raffreddore: semmai doveste riuscirci, sareste pronti a scommettere un soldo che la cura è merito suo? Da queste parti, e per queste parti intendiamo la terraferma, e dovunque sia presente un essere umano (e perciò pure su una nave nel bel mezzo dell’oceano, o su un aereo per i cieli): da queste parti esiste solo la lotta. Non possiamo necessariamente sapere cosa sarebbe successo se si fossero incontrati la domenica sera o il lunedì mattina, nell’intramezzo dei se. Forse si sarebbero detestati guardandosi, forse si sarebbero salutati, forse sono solo due pedine di un perché che non riusciamo a cogliere. Forse Michele avrebbe gettato via tutto dalle mani per baciarla. Forse no. Kemal il Turco guardandoli avrebbe ricordato la vecchia moglie che vive ancora in Turchia e non ha mai voluto seguirlo. La moglie è felice, lui chi lo sa. Jamila riflette ancora l’ipotesi della felicità. È dannatamente convinta che la troverà. Chi siamo noi per dire a Jamila che si sbaglia?