Tra i populismi in ascesa e la solita vecchia demagogia spicciola, sono molti coloro i quali si professano “dalla parte degli ultimi”. Frase abusata, concetto inflazionato al punto tale da essere stato svuotato quasi del tutto del suo significato più bello e profondo. Ma chi sono gli ultimi? Solo coloro i quali meritano la nostra compassione? O anche i reietti, gli emarginati che vivono fuori da qualsiasi schema sociale – alle volte per una loro autoimposizione, per una loro scelta, alle volte per una sorta di stortura intrinseca nel mondo – ? Il confine è labile, le opinioni diverse. Quel che è certo è che con gli ultimi si possono far coincidere quei tipi umani che la vita ha spezzato, quelli piegati sotto un peso indefinibile e ingestibile. Le conseguenze sono ineluttabili e devastanti, e cambiano il corso dell’esistenza dei più. È di questo che parla Katya Maugeri, giornalista catanese, nel suo Liberaci dai nostri mali, romanzo inchiesta sui detenuti nelle carceri italiane. Parla di reati ingiustificabili, ma parla anche di quel peso che spinge, piega, deforma le vite di alcuni.
Partiamo dal principio. Com’è nato questo progetto? Qual è stata la scintilla che ti ha fatto desiderare di scrivere le storie dei detenuti che hai intervistato?
Liberaci dai nostri mali nasce dall’esigenza di voler raccontare una realtà spesso lasciata in ombra: quella carceraria. Un mondo che a tratti sembra parallelo al nostro, distante e inaccessibile. Non è così. È una realtà molto dolorosa intrisa chiaramente di errori – spesso atroci – ma di uomini che cercano di raggiungere un cambiamento. È un limbo in cui si ritrovano anime che hanno sbagliato e che pagano per i loro errori. Tutto è cominciato alla Casa di reclusione di Augusta, seguendo il laboratorio teatrale diretto dal magistrato e scrittrice Simona Lo Iacono, da quel momento, come spesso ha definito il direttore Antonio Gelardi, la “carcerite” non mi ha più abbandonato. Ho iniziato ad ascoltare le loro storie, a conoscerli e il desiderio di raccontare quei pensieri mi ha portato a voler realizzare, un anno dopo, insieme ad Alessandro Gruttadauria e Salvo Gravina, il reportage Oltre le sbarre. Ma non bastava. Non è un libro sul perdono, ma sentivo di dover scrivere dei loro volti, di aneddoti e persino dei silenzi: raccontare chi è per me un detenuto e che valore hanno quelle sbarre, senza alcun pregiudizio.
Per quel che riguarda l’organizzazione vera e propria, invece? Hai chiesto dei permessi speciali? E con chi ti sei coordinata?
Per realizzare le interviste servono autorizzazioni, permessi, progetti da presentare e motivare. Non è semplice, un iter burocratico complesso, ma l’allora direttore Antonio Gelardi mi ha supportata e sopportata tantissimo. Mi ha dato forza e ha creduto nel progetto sin dall’inizio.
Sapevi già cosa avessero fatto? Voglio dire, quando ti sedevi davanti a loro, con un blocco per gli appunti, una penna e nient’altro, conoscevi i crimini di cui si erano macchiati?
No. Ho scelto di approcciarmi a loro senza pregiudizi e non ho mai esordito alle chiacchierate con domande retoriche del tipo “salve, quale crimine ha commesso?”. È stato un percorso introspettivo che giungeva, inevitabilmente, a un punto di rottura: il reato. Da lì, erano loro a volerne parlare, raccontando non solo le dinamiche giudiziarie ma quelle emotive. Le conseguenze del reato commesso, dalla privazione della libertà all’annientamento dei sogni, dalla consapevolezza alla speranza.
Qual è stato l’aspetto più complesso nel cercare di dare una forma letteraria alle interviste che hai condotto? Ti sei limitata alla mera trascrizione di ciò che ti veniva raccontato o nella narrazione hai fatto un tentativo di immedesimazione come scrittrice?
Riascoltare le registrazioni delle interviste, leggere gli appunti e le frasi che avevo annotato: è stato molto più di un semplice lavoro di trascrizione. Molte delle storie erano complicate ed emotivamente difficili da raccontare, umanamente complesso dare voce a chi aveva commesso reati così gravi, ma ho cercato di cucire i loro pensieri trascrivendo sì le loro parole ma in una cornice che potesse accoglierli, ho cercato di arricchire il contenuto con pathos e colori. Di grigio e buio ne sono saturi.
Ciò che colpisce del tuo libro è il tentativo, molto ben riuscito, di tirare fuori le parti più delicate e dolci di persone che, secondo lo stereotipo più diffuso e certamente naturale, dentro sono marce fino al midollo. Come ti sei mossa? E cosa credi che abbia spinto i detenuti ad aprirsi con te senza remore di sorta?
Ho tentato di far emergere l’uomo, non il detenuto. Sembra un paradosso ma le due entità vivono nello stesso corpo: facce della stessa medaglia. Ombra e luce. E la luce molto spesso è rappresentata da quel senso di colpa che, dopo moltissimi anni di reclusione, smuove la loro coscienza (non sempre ovviamente) e delle sue ombre, appunto. Nessuna strategia. Ero dinanzi a loro consapevole di aver di fronte uomini che avevano sbagliato, e tanto, consapevole che fuori da quelle sbarre le vittime non smetteranno mai di soffrire a causa loro. Ma ero lì non per giudicare ma per raccontare. Loro lo hanno percepito e si sono affidati.
Che tipo di rapporto si è instaurato tra te e i detenuti?
Un rapporto umano. Quello che dovremmo istaurare con le persone: imparare ad ascoltare le storie altrui senza improvvisarci giudici.
Fino a che punto credi che la persona, l’uomo, vada aldilà del proprio reato? Fino a che punto credi che le due entità siano scollegate tra loro?
Il reato è una cicatrice, questo è inevitabile. Un uomo che ha commesso dei crimini non potrà più vivere senza relazionarsi ai propri errori, ma può comprenderne l’origine e distaccarsi dalle dinamiche che lo hanno portato a delinquere. Accade. Il cambiamento non è certo il risultato degli anni trascorsi in carcere: è un percorso introspettivo che si raggiunge con molta fatica e con forza di volontà. Spesso è dettato dalla famosa “goccia che fa traboccare il vaso”: il desiderio di rivoluzionare la propria vita, riscattare il proprio passato con un futuro semplice fatto di un lavoro onesto e una famiglia della quale prendersi cura. Due detenuti delle storie che ho raccontato, dopo aver trascorso tantissimi anni in carcere, pian piano stanno cercando di ricostruire una nuova strada nella quale camminare. Alla luce del sole, senza dimenticare quello che portano addosso.
Credi che il percorso carcerario possa effettivamente portare a una sorta di redenzione?
L’articolo 27 della nostra Costituzione è chiarissimo: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, quindi se durante il percorso carcerario la finalità della pena è la rieducazione credo che il detenuto abbia buone possibilità per raggiungere il punto di svolta e redimersi. La carenza di strutture (e le condizioni fatiscenti) e l’assenza di risorse alimentano un sistema che non aiuta assolutamente il condannato a riconciliarsi con la società. È chiaro, un sistema carcerario ripensato con strumenti dignitosi e adeguati alla pena detentiva comporta investimenti economici, di tempo e personale competente. Ma garantisce un’alternativa: attraverso le attività artistiche, ricreative, i laboratori, il teatro, la scrittura. È necessario il contatto umano, per allontanare da loro l’idea che fuori esista un’unica strada, quella sporca di sangue.