Qual è il rapporto fra Kanye e la culture afroamericana? Di quale cultura afroamericana stiamo parlando, innanzitutto? Quella del materialismo machista di gran parte della storia dell’hip hop? Quella del gospel come canto popolare, fonte di unione spirituale in una nazione in cui si è storicamente minoranza e subcultura? Da quale prospettiva analizzare il Kanye degli ultimi anni? Le sue uscite pubbliche, i suoi lavori si situano in un punto centrale ma borderline del dibattito pubblico su arte, politica, identità. Jesus is King è, insieme al film omonimo e ai Sunday Service, indubbiamente un tentativo di saldare insieme l’hip hop e i suoi stilemi alla tradizione gospel afroamericana, una tradizione da sempre presente nel catalogo di Kanye da Jesus Walks in poi. Un tentativo di saldare materialismo e fede. In questo disco l’operazione è assolutamente lineare ed esplicita: l’utilizzo del coro gospel come entità sovrannaturale, emanazione del divino, elemento aggregante, è praticamente onnipresente, l’unico collante di un disco altrimenti frettoloso, discontinuo, che sembra essere stato scritto e prodotto a tentoni, come in un percorso spirituale accidentato che contempla errori, cadute e nuove illuminazioni. Prova di questo è la prima traccia Every Hour, un inizio in medias res dove un piano saltellante accompagna il canto polifonico del Sunday Service Chorus. Un lavoro discontinuo, abbiamo detto: se Selah possiede un pathos sacrale profondo e anche inquietante nel campionare una traccia del New Jerusalem Baptist Church Choir, e un finale urlato e allucinato, Closed on Sunday è un pop dimesso che si regge su un arpeggio di chitarra acustica e pochi altri suoni elettronici ripetitivi. Allo stesso tempo, nel disco troviamo pezzi più vicini al vecchio Kanye, come Follow God, una traccia rap classica su un sample di Can You Lose Following God di Whole Truth; o ancora God Is, forse l’epicentro emozionale del disco, una laude cantata con voce sofferta e dolce dall’inizio alla fine, su un bellissimo sample omonimo del 1979. Altri pezzi vedono collaborazioni (Ty Dolla Sign su Everything We Need, Clipse e Kenny G in Use This Gospel) e le ormai riconoscibili sperimentazioni elettroniche sulla voce (Fred Hammond in Hands On).
L’importante è però considerare Jesus is King come parte di un insieme di senso che Kanye sta, forse goffamente, sempre per strappi, come nel suo stile, cercando di costruire. Se per lui fare musica è necessario, una missione per portare la pace nel mondo (sic), non è però più l’unica. Kanye è ormai un significante contorto in movimento, irriducibile all’espressione musicale. Tra i Sunday Service, la sua linea di abbigliamento, i suoi progetti cinematografici e di housing sostenibile, la sua filantropia verso artisti contemporanei, non si può più parlare dei suoi dischi come dell’espressione ultima, fedele, conclusiva della sua arte. Jesus is King non è quindi un’autobiografia interiore come ci si aspettava, non sono le Confessioni di un credente. E’ piuttosto un estemporaneo, caotico, sperimentale canto, dove l’interiorità bipolare di Kanye risalta su una produzione musicale forse volutamente semplice, marginale, mai tanto tradizionale.
Tradizione. Questa è una delle parole chiave. Tradizione democratica e repubblicana. Tradizione afroamericana e bianca. L’immagine tradizionale della popstar. Stick to music. Tradizione hip hop e gospel. Come interpretare lo stare in bilico, spesso cadendo, su tutti questi spigoli? Qual è il senso dell’operazione mediatica, musicale, comunitaria, anche testuale che Kanye sta portando avanti? Kanye non è un intellettuale, né (finora) un politico, assolutamente non un maitre à penser, sebbene si consideri tale. Le sue posizioni hanno però il potere di portare alla luce la scabrosità delle categorie con cui abitualmente ci si confronta con questioni come il razzismo, la politica, la storia, anche la celebrità. Kanye è davvero diventato un redneck populista inconsapevole delle problematiche della società afroamericana? E’ davvero “what happens when Negroes don’t read“, come ha detto il giornalista della CNN (uno dei maggiori network liberal americani) Bakari Sellers? E’ più razzista una frase del genere o affermare che la schiavitù è stata una scelta? Quando Kanye dice che il Partito Democratico ha sostanzialmente ingannato gli afroamericani fallendo nel promuovere politiche a loro sostegno, per poi fare riferimento solamente al dibattito sull’aborto, cosa vuole dirci? Il suo problema è davvero solo l’aborto, o il suo discorso vuole essere più ampio ma non ha gli strumenti culturali e la capacità di sintetizzare il suo pensiero? Quando in Selah canta “I’m not mean I’m just focused“, riferendosi a quegli stati di contatto col divino e di suprema concentrazione che la sua patologia gli fa sperimentare, sta giustificandosi o solo spiegandosi? La sua vicinanza col divino può essere solo un portato della sua malattia, caso peraltro non raro?
La domanda alla base potrebbe essere questa: cosa sta tentando, goffamente, di interpretare Kanye? L’ondata tradizionalista, populista, classista, abbarbicata a simboli considerati vetusti come la religione cristiana o il cappello MAGA, simboleggiata da Trump (con tutto il carrozzone) negli Stati Uniti? Oppure un tentativo di oltrepassare la dittatura del politically correct dell’opinione pubblica liberal, che vota Democratico e legge il New York Times, che si è mossa sempre dall’alto di una presunta superiorità morale ma poi, secondo Kanye, concretamente non ha migliorato le condizioni di vita della culture da cui lui proviene? In un periodo di estreme polarizzazioni, in cui -semplificando all’osso- se voti Trump sei un retrogrado e se voti Clinton sei un privilegiato che non ha studiato all’Università della vita, come considerare un artista nero che negli anni si è autonominato principe della culture non avendone però il merito (la musica di Kanye non ha mai avuto, ad esempio, la consapevolezza sociale di un Kendrick Lamar o di un Nas), e che improvvisamente rintraccia nel gospel e nella religione gli elementi per liberarsi dai condizionamenti (mentali) a cui si è sottoposto volentieri per tutta la sua vita artistica? Insomma, Kanye è davvero, per dire, il Povia americano, o vuole semplicemente smascherare i meccanismi automatici di pensiero che permettono di considerare un Povia come uno che dice la cosa sbagliata? Il vero Kanye è l’artista libero che canta “no more livin’ for the culture we nobody’s slave” o l’animo semplice che canta “hold the selfies, put the ‘Gram away, get your family, y’all hold your hands and pray“?
E ancora, se il suo supporto a Trump è il tentativo di instillare una consapevolezza diversa, che non dipenda esclusivamente dallo stare dalla parte giusta, perché non l’endorsement a correnti del Partito Democratico meno smaccatamente parte dell’establishment? Se Clinton tarpava, a suo dire, la sua essenza di maschio americano, di provider, perché Trump e non, ad esempio, Bernie Sanders? Come considerare insomma l’enorme contraddittorietà delle sue posizioni in un sistema bipolare in cui una parte si definisce -perlomeno all’apparenza- solamente in negativo, in opposizione all’altra?
Infine, sticking to music, procedendo per macrocategorie, Kanye è sempre stato un arcitradizionalista: dai primi anni 2000 il suo stile di produzione si è basato su classici soul e gospel. Se fino a The Life of Pablo almeno, però, questa scelta poteva sembrare solamente estetica, in Jesus is King è sostanziale, funzionale a un progetto. Se, citando Earnest Marks in Atlanta, tutti i neri fumano erba non perché è figo, ma perché tutti soffrono di stress post traumatico (“they gonna kill us in the streets for sure“), può il gospel essere ancora una forza unificante, o quantomeno positiva? Potrà sembrare disimpegno, parzialità o velleità estetica, ma Kanye sembra, almeno in questo, sinceramente convinto che, in mezzo a problematiche di tipo storico sociale più grandi anche di lui, forse solo col gospel, e col gospel in quanto emanazione di una fede si possa creare aggregazione e superare le polarità imposte dalle tradizioni di cui sopra. In questo senso Jesus is King è il fratello minore di quell’affascinante operazione che sono i Sunday Service, ovvero una via di mezzo tra happening (guest star, nessun annuncio, almeno all’inizio), messa (sermoni vari), riunione di famiglia (spesso anche le figlie cantano e sono al centro del palco con lui), concerto gospel (e ci siamo) e rave party (i pezzi in cui smanetta con la tastiera midi), un concentrato di socialità basato sulla musica e la condivisione del canto, ispirato a una tradizione religiosa performativa che forse lui ha identificato come collante se non sociale almeno spirituale (che, se intendiamo bene, per lui equivale a musicale. Ed effettivamente quel genere musicale è pieno di gioielli). Utopico sicuramente, superficiale neanche a dirlo, parziale e privo di contatto con la realtà, quasi sicuramente. Proprio quello che abbiamo sempre adorato di lui.