Kamasi Washington – Heaven and Hearth

Rari quanto il passaggio della cometa di Halley sulla Terra, di tanto in tanto nascono artisti che sembrano essere fatti per costituire una rivoluzione. In molti casi è difficile riconoscerli per quello che sono, forse perché davvero troppo avanguardisti, forse perché siamo noi a non essere pronti a ricevere il messaggio. A volte, però, capitano in un momento così giusto che è impossibile non accorgersi della loro grandezza. Quest’ultimo è, senza ombra di dubbio, il caso di Kamasi Washington, compositore e sassofonista già annoverato nella storia del jazz nonostante abbia pubblicato solamente un album (un doppio album dal significativo titolo The Epic) e una raccolta di variazioni su un tema dal nome Harmony of Difference. Grazie al suo talento musicale, alla sua capacità di comporre brani innovativi seppure fortemente legati alla tradizione jazzistica ma, soprattutto, all’abilità di essere in grado di divertirsi unendo l’essere umano – troppo umano – della cultura pop e l’essere divino e ancestrale della musica jazz, il musicista col bastone è riuscito a conquistare il cuore degli ascoltatori e i sold out sui palchi più ambiti di tutto il mondo.

Da quando è arrivato sulle scene musicali, Kamasi è riuscito in due piccoli miracoli che l’hanno proiettato in un olimpo della musica a cui cercano di aspirare tutti. Per prima cosa, in un mondo dominato dal paradigma dell’immediatezza della canzone, in cui lo scettro della musica strumentale sembrava essere appannaggio dell’elettronica, ha riportato in vita il jazz come genere. Allontanandosi da un fare leggermente bobo dei musicisti della scena jazzistica, in maniera davvero rivoluzionaria, ha aperto alla commistione di generi. Mantenendo integri i capisaldi del jazz ha permesso a questi di fungere da base perché il soul e il rap potessero esprimersi al meglio. Schiaffeggiando metaforicamente Wynton Marsalis e il suo odio nei confronti del Miles Davis di matrice rap, Kamasi Washington ha compreso che per far rinascere il jazz, questo doveva fungere da ancella per tutta la musica contemporanea. Le sue collaborazioni impreziosiscono il soul degli Everything Is Recorded, ad esempio, e contribuiscono a definire l’importanza miliare del rap di To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar. La musica trascende i generi e le sue note possono fondersi con il mood soul del suo bassista Thundercat o con l’elettronica onirica di Flying Lotus.

Ma Kamasi va anche oltre perché è cosciente (come il suo collega e amico Robert Glasper) che il vero seme discriminante del genere jazz sta nella capacità dei musicisti di collaborare fra di loro, di mettere la loro indiscussa abilità al servizio non di un altro artista, in forma di featuring, ma della musica stessa. La musica si alimenta di se stessa e, come per ogni altro alimento, quello cucinato con cura e sapienza, appaga l’anima. Per questo il jazzista californiano dona i suoi assoli di sax a una moltitudine di artisti, in nome della musica. Kamasi Washington è riuscito nel miracolo di rubare ai rapper di bassa lega quei bridge che, di solito, venivano loro riservati nelle composizioni di musica pop. Sarebbe un risultato incredibile se ci si riuscisse con la voce – farlo gonfiando le proprie guance nello scintillante metallo del sassofono ha un qualcosa di mirabile.

Kamasi Washington – Alessia Naccarato

 

In secondo luogo, Kamasi Washington è riuscito nella difficile impresa di risultare socialmente coinvolto e politicamente schierato senza utilizzare neppure una parola nei suoi pezzi. Potrà sembrare curioso o incredibile, eppure un’artista che fa parlare il sax viene spesso interrogato su argomenti di natura sociale durante le interviste. Questo non deve sorprendere se si bada, ancora una volta, alla tradizione jazz e a ciò che essa porta con sé. Se il jazz degli esordi era per gli afroamericani discriminati un mezzo di espressione (in molti casi l’unico) attraverso cui chiedevano solamente di poter essere considerati al pari dei bianchi in un afflato di speranza verso un’uguaglianza senza distinzione, la musica di Kamasi Washington, dichiaratamente legata alla tradizione e alle origini del genere, riprende questo spirito sociale e politico e lo mette nella sua musica. L’interpretazione dei brani, la sua esperienza personale, i titoli delle tracce, il continuo utilizzo di elementi dalla forte caratura ermeneutica, come i cori gospel, contribuiscono a far sì che la sua arte non solo parli, ma riesca anche a gridare senza utilizzare neppure una singola parola.

A tre anni da The Epic, il sassofonista di Los Angeles cambia etichetta discografica, lasciando la Brainfeeder di FlyLo e approdando alla londinese Young Turks, e annuncia l’imminente uscita di un album dal titolo Heaven and Hearth. L’hype inizia a circolare e a montare come la grande onda di Kanagawa e cresce grazie ai tre singoli che lo stesso Kamasi pubblica per anticipare l’uscita del disco.

Heaven and Hearth, già dal titolo, ci porta subito nell’universo di Kamasi Washington fatto di tradizione e futuro, di alto e di basso, di sacro e profano. D’altronde è stata questa sua capacità di lasciarsi contaminare da ciò che gli piace a far sì che potesse riscrivere un intero genere musicale. La musica di Kamasi è autobiografica nel senso più bello. Nelle sue canzoni mette alcune piccole porzioni della sua vita o della sua esperienza; la musica è per il sassofonista un modo per raccontarsi, come in un’intervista intima, rispondendo a delle domande che nessun giornalista gli farebbe.

Nell’album, come un alchimista, Kamasi Washington si è divertito a mescolare tributi verso i suoi modelli musicali, come fa in Hub-Tones dichiarato omaggio al trombettista Freddie Hubbart con il ritmo bebop sincopato introdotto dal pianoforte che tanto ricorda lo standard del 1962, con elementi della pop culture. L’esempio più geniale di questo bisogno del terreno è rappresentato da Street Fighter Mas. Il brano, su ammissione dello stesso Washington, è la realizzazione di un suo piccolo sogno nel cassetto: quando da piccolo nelle sale giochi smanettava su Street Fighter, si immaginava come un personaggio del videogioco con il suo proprio tema musicale. Street Fighter Mas è la realizzazione di questo desiderio, la scrittura del tema che narra le vicende pixelate del combattente Kamasi Washington che si può scegliere per sfidare Ken e Blanka (incredibile anche che Kamasi abbia indetto un torneo di Street Fighter la vigilia dell’uscita dell’album che ha prontamente documentato con le stories della sua pagina Instagram). E la cosa davvero stupefacente è che il brano sembra davvero un tema per un personaggio di un videogame ma sviluppato in senso sopraffino e elaboratissimo (basta immergersi nel meraviglioso video che accompagna il singolo per comprendere come si presti bene a essere una soundtrack). Ma come spesso accade per la sua musica, quella di Street Fighter non è solo goliardia ma nasconde al suo interno tutto piccolo mondo antico relativo all’infanzia di Kamasi e che per lui contiene il seme di un’uguaglianza sociale che bisognerebbe tornare ad annaffiare. Come ha detto durante l’intervista per l’uscita del singolo rilasciata a Pitchfork: “Andavamo in questo posto chiamato Rexall per giocare a Street Fighter. Al Rexall c’era gente diversa di quartieri diversi e tutti giocavano ai videogame. Era l’unico posto-equalizzatore. Essere bravi a Street Fighter era l’unica cosa importante… nella maggior parte dei casi. In altri posti, avresti avuto paura di quei ragazzi: lì si giocava e basta”.

In questa livella che abbatte ogni tipo di violenza e paura c’è la chiave della musica di Kamasi Washington che eredita dal jazz l’aspetto in assoluto più importante: la musica, come Street Fighter, può servire a creare parità. La musica oltre la differenza e che, anzi, cosciente delle diversità è in grado di porle in armonia, come faceva Bach con la polifonia. Kamasi vuole la polifonia degli esseri umani e lo fa comprendere con un album che è, forse, il suo punto più alto in campo musicale. Heaven and Hearth è un disco oltre i generi, caratterizzato da atmosfere epiche (più di quelle di The Epic), ma soprattutto è un disco che è un’ode alla musica al di là dei generi per celebrarne la grandezza.

Fists of Fury (assieme alla già citata Street Fighter Mas) apre il disco ed entra a pieno titolo nel genere delle soundtrack. Il brano è una versione ricca di soli della colonna sonora che accompagna i titoli di coda di un film d’azione degli anni ’70 ma è anche Ennio Morricone in versione tribale. Ma, soprattutto, è un inno contro le ingiustizie. Stavolta Kamasi non lascia solo che sia la musica a parlare ma fa sì che siano Dwight Trible e Patrice Queen a trasmettere il suo messaggio: “Our time as victims is over/We will no longer ask for justice/Instead, we will take our retribution”.

Le soundtrack sono seguite da momenti di jazz puro, come il già citato Hub-Tones o One of One, da brani votati alla fusion come Can You Hear Me in cui le tastiere nella seconda parte del pezzo sembrano essere frutto di un lungo studio degli assoli di Zaniwul e dei Weather Report.

Ogni brano che segue sembra essere uscito da un disco differente, a riportarci a Heaven and Hearth è solo il timbro-firma del sax di Kamasi.

Connections è una traccia dal sound funky e nostalgico intervallato da momenti di cori angelici e archi che sospendono gli strumenti nel cielo prima di farli ricascare tra le mani esperte dei musicisti con cui Kamasi ha inciso l’album. Il brano è caldo, caldissimo, sensuale come solo Isaac Hayes sapeva essere ma con i fiati a sostituire la voce del soulman. Un funky che si ritrova anche nella linea ritmica di The Psalmnist.

The Invincible Youth è, probabilmente, la vera chicca dell’album. Un brano che si apre con una sfiatata di sax e con una batteria incandescente in pieno stile free jazz e che, dopo pochi secondi, lascia spazio a un pianoforte che, in solo, introduce un tema nostalgico e sognante quasi parigino a cui si aggiungono gli altri strumenti in un magnifico crescendo ritmico che apre al solo di Kamasi e che, senza che ce ne accorgiamo, si lascia dietro la nostalgia per accelerare e diventare più spensierato. Il tutto sospinto dal contrabbasso “effettato” di Mike Mosley che contribuisce alla creazione di uno spannung musicale che, giunto al suo apice, sfuma in un assolo di basso di Thundercat per tornare al tema di piano di apertura e per ricamarci su. Il brano rappresenta una delle vette della musica del sassofonista perché, pur essendo un pezzo da virtuosi, non scade nell’intellettualoide ma apre alle infinite potenzialità della musica.

Testify e Vi Lua Vi Sol tendono al soul à la Stevie Wonder che incontra i Daft Punk di Random Access Memory, cantato in una maniera così tanto pop che striderebbe con il resto dell’album se non ne conoscessimo il vero tema.

Il secondo cd si apre con l’incantata e disneyana The Space Travelers Lullaby, pezzo orchestrale e dalle interessanti dinamiche, pubblicato come singolo, forse, proprio per dare prova della varietà armonica contenuta nell’album.

I brani più kamasiani, più simili a quelli a cui ci aveva abituati sono Song For The Fallen, Journey e Show Us The Way (il brano più breve dell’album).

Will You Sing l’ultima traccia dell’album è una canzone che, per alcuni aspetti, richiama quella di apertura chiudendo il cerchio delle OST per film immaginari che Kamasi ha composto per il suo album.

Heaven and Hearth è un album lungo, complesso che si presta ad essere ascoltato davvero da tutti perché ognuno avrà l’opportunità di trovare un brano, un assolo, un frammento a lui congeniale e che costituirà la chiave d’accesso per entrare nel mondo del sassofonista losangelino e apprezzarne le sfumature, le capacità musicali (sue e della band) e cogliere la bellezza di una musica che, come la livella di Totò, annulla le differenze ma che, come un pittore, sa far nascere il meglio di ogni singolo dal suo essere affiancato al diverso.

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