Perdersi nel meraviglioso mondo di Julio Cortázar

Nel 1962 Julio Cortázar pubblica la Rayuela, ovvero un libro che può leggersi in due sensi: uno pagina per pagina, capitolo dopo capitolo, sequenzialmente, ovvero come si leggono tutti i libri del mondo; l’altro verso di lettura è seguire i numeri dei capitoli secondo una sequenza indicata dallo stesso scrittore argentino, che fa così: 73 – 1 – 2 – 116 – 3, e via dicendo. Il capitolo 73 inizia così: ”Hai fatto bene a venire a casa, amore, sentendoti tanto stanco”; il numero 1 invece parte con un ”Avrei incontrato la Maga?”, e via una dissertazione sul lungosenna parigino. Alla fine c’è anche una mappa di Parigi, per aficionados. Potete leggere questa monografia in due versi, uno seguendo la sequenza numerica tradizionale, l’altro secondo quella che vi darò io.

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Il tabacco e il jazz sono due universi paralleli del mondo cortazariano. Dall’Argentina non vengono mica solo papi e calciatori, esiste un intero mondo che scrive, danza con le parole, aspira a fare il trombettista, poi fallisce, e diventa uno scrittore di racconti.

Come diceva Tabucchi, il racconto è il romanzo di un pigro. Ma non facciamolo pesare a Julio.

Musica, malinconico alimento di noi che viviam d’amore!


Cronopios e famas

Ovvero due tipi umani con cui spesso veniamo a trovarci. Tipo per Kundera sono leggeri e pesanti, per Cortazar si va oltre, nei racconti utopici dei cronopios, nella razionalità dei famas. Estratto da altrove:

Esempio massimo di cronopio per Cortazar è Louis Armstrong. Ai suoi concerti era pieno di cronopios – dice Julio. Anche Paul Blackburn, poeta americano sconosciuto in queste terre, è cronopio. Ci basti girarci intorno per riconoscere i cronopios. Roberto Bolano che da ragazzo rubava libri per sfamarsi di letteratura è un cronopio; Alekos Panagulis che sale sul Partenone con una tavoletta di esplosivo a scopo dimostrativo, senza volerla fare esplodere, è un fottutissimo esempio massimo di cronopio; Il Pasto Nudo di Burroughs è realismo cronopico; i Flaming Lips sono cronopios, e Josè Mourinho, e lo sguardo perso di chi ti fissa senza parlare; le parole di un vecchio poeta incantato, Socrate, l’odore della carta di questo secolo, una nota di John Cale, un mercenario di sogni, Reykjavik, Jan Palach, stralci di disobbedienza civile, e le labbra in tempesta, Amleto e Giuda, la vecchia maitresse, una bottiglia di vino rosso che ti implora di prenderla su una spiaggia all’alba. Adesso questo non si scambi per uno sporco elogio di un mondo cronopio, giacchè un cronopio autentico non può esistere senza una moltitudine di famas, mentre i famas potrebbero continuare a vivere in un mondo che non conta cronopios. Il cronopio ha bisogno dei famas, perché è fondamentalmente un ribelle in lotta, in certi casi agisce semplicemente per contrasto, per reazione: ha bisogno dei famas che tengono in ordine le sorti del mondo che lui tenta di mettere in disordine insomma. Il cronopio è un primitivo e selvaggio, e se anche arrivasse il momento in cui si instaurasse una ‘dittatura cronopica’ sarebbe un momento d’anarchia, le radio parlerebbero in rumero, i treni partirebbero in ritardo, si nominerebbe ministro degli interni un giorno Lou Reed e un giorno Amos Oz, e si scriverebbero più poesie di burocrazie. La strada del cronopio è un’altra, non quella di diventare maggioranza, non quella di eliminare i famas, ma quella di essere il progressista utopico che porta nuove idee nel mondo: alcune non verranno capite subito dai famas, ma altre piano piano esploderanno, e i famas le faranno loro, e quando questo accadrà ci sarà un progresso. Il cronopio fa esplodere le sue bombe, e accende i famas.


Lo scrittore argentino, che però visse anche a Parigi, ci cavò fuori una vita violenta.

Il suo volto delicato dalla pelle quasi trasparente si affacciava forse ai vecchi portici del ghetto del Marais, forse stava chiaccherando con una venditrice di patate fritte o mangiando un salsicciotto caldo nel boulevard Sebastopol.

È sepolto a Montparnasse il cadavere di Julio, dicono che la sua tomba sia visitata tanto quanto quella di Morrison, ma esagerano.


Il Futuro

E so molto bene che non ci sarai.
Non ci sarai nella strada,
non nel mormorio che sgorga di notte
dai pali che la illuminano,
neppure nel gesto di scegliere il menù,
o nel sorriso che alleggerisce il “tutto completo” delle sotterranee,
nei libri prestati e nell’arrivederci a domani.

Nei miei sogni non ci sarai,
nel destino originale delle parole,
né ci sarai in un numero di telefono
o nel colore di un paio di guanti, di una blusa.
Mi infurierò, amor mio, e non sarà per te,
e non per te comprerò dolci,
all’angolo della strada mi fermerò,
a quell’angolo a cui non svolterai,
e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so molto bene che non ci sarai,
né qui dentro, il carcere dove ancora ti detengo,
né la fuori, in quel fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai per niente, non sarai neppure ricordo,
e quando ti penserò, penserò un pensiero
che oscuramente cerca di ricordarsi di te.


Uno scrittore è anche spesso un poeta, un rapitore di parole. Meno il romanziere. Ma lo scrittore di racconti è un poeta, soprattutto uno come J. C. , perché gioca con le parole, e spesso le fotte. Portandosele appresso sotto il braccio.

Se devo vivere senza di te, che sia duro e cruento,
la minestra fredda, le scarpe rotte, o che a metà dell’opulenza
si alzi il secco ramo della tosse, che latra
il tuo nome deformato, le vocali di spuma, e nelle dita
mi si incollino le lenzuola, e niente mi dia pace.


«Appassionato di boxe, melomane, lettore a giornata piena, innamorato del cinema, borghesuccio cieco a tutto quello che oltrepassasse la sfera dell’estetica. […] Non avevo il minimo compromesso con la storia, e ancora meno con alcuna ideologia o politica: ero quello che si dice un giovane liberale […]».

“Il grande racconto breve condensa l’ossessione della bestiaccia. Da un racconto di questo genere si esce come da un atto d’amore, esausti ed estranei al mondo circostante, al quale si torna a poco a poco con uno sguardo di sorpresa, di lento riconoscimento, molte volte di sollievo e tante altre di rassegnazione”

«Peripezie dell’acqua»
Basta conoscerla abbastanza per capire che l’acqua è stanca di essere un liquido. Lo dimostra il fatto che appena si presenta l’opportunità si trasforma in ghiaccio o in vapore. Ma neanche così è soddisfatta, il vapore si perde in assurde divagazioni e il ghiaccio è goffo e grezzo, si sistema dove può e in genere serve solo a dare vivacità ai pinguini e al gin tonic. Perciò l’acqua preferisce la delicata neve, che l’aiuta ad avverare la sua speranza più segreta: quella di fissare la forma di tutto ciò che non è acqua, le case, i prati, le montagne, gli alberi.


El realismo magico

Per esempio il parto dei coniglietti magici in Lettera a una signorina a Parigi.

Le bestie possono uscire dovunque nel Bestiario.


Questa è una chicca: Rayuela capitolo sette letto dallo scrittore argentino.

Tocco la tua bocca. Con un dito tocco il contorno della tua bocca. La disegno come se uscisse dalla mia mano, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, faccio nascere ogni volta la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie e ti disegna sul viso, una bocca scelta tra tutte, con sovrana libertà scelta da me per disegnarla con la mia mano sul tuo viso, e che per un caso che non arrivo a comprendere coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti disegna.

Mi guardi, da vicino mi guardi, sempre più da vicino, e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo man mano sempre più da vicino e i nostri occhi si fanno grandi, si avvicinano, si sovrappongono, e i ciclopi si guardano respirando confusi. Le bocche si incontrano e lottano tiepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando nel loro recinto dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio. Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, di accarezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranze oscure. E se ci mordiamo il dolore è dolce, e se affoghiamo in un breve e terribile assorbirsi simultaneo del fiato, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare contro di me, come una luna nell’acqua.


Il racconto che ispirò Blow-Up di Antonioni.

Le bave del diavolo

Non si saprà mai come raccontarlo, se in prima persona o in seconda, usando la terza del plurale o inventando continuamente forme che non serviranno a niente. Se si potesse dire: io videro salire la luna, oppure: ci mi duole il fondo degli occhi, e soprattutto così: tu la donna boinda erano le nubi che continuano a correre davanti ai miei tuoi suoi nostri vostri visi. Che diavolo.

Una volta cominciato a raccontare se fosse possibile andare a prendere una birra da qualche parte e che la macchina andasse avanti da sola (perché scrivo a macchina), sarebbe la perfezione. E non è un modo di dire. La perfezione, si, perché qui il buco che si deve raccontare è anch’esso una macchina (d’altro genere, una Contax I.I.2), e potrebbe darsi che una macchina ne sappia a proposito di un’altra macchina più di me, di te, di lei-la donna bionda- e delle nuvole. Ma dello scemo ho soltanto la fortuna, e so che se me ne vado questa Remington resterà pietrificata sopra il tavolo con quell’aspetto  di doppiamente immobili che hanno le cose che si muovono quando non si muovono. Allora devo scrivere. Uno di noi tutti deve scrivere, se tutto ciò deve essere raccontato. Meglio che lo faccia io che sono morto, che sono meno compromesso del resto; io che non vedo altro che le nubi e posso pensare senza distrarmi, scrivere senza distrarmi (ecco, ne passa un’altra con un orlo grigio), e ricordarmi senza distrarmi, io che sono morto (e vivo, non si tratta di ingannare nessuno, lo si vedrà quando verrà il momento opportuno, perché in qualche modo devo pur procedere e ho cominciato da questa punta, quella posteriore, quella dell’inizio, che dopotutto è la migliore delle punte, quando si vuole raccontare qualcosa).

All’improvviso mi domando perché mai devo raccontarlo, ma se uno cominciasse a domandarsi perché fa tutto quello che fa, (…) Che io sappia, nessuno ha spiegato il perché di questo, sicché la cosa migliore è piantarla con i pudori e mettersi a raccontare, perché dopotutto nessuno si vergogna di respirare o di mettersi le scarpe; sono cose che si fanno, e quando succede qualcosa di strano, quando dentro la scarpa troviamo un ragno o al respirare si sente come un vetro rotto, allora bisogna raccontare quello che succede, raccontarlo ai ragazzi dell’ufficio oppure al medico. Ahi, dottore, ogni volta che respiro…Raccontarlo sempre, sempre togliersi quel noioso stuzzichio allo stomaco. E già che stiamo per raccontarlo, mettiamo le cose un pò in ordine, scendiamo le scale di questa casa fino alla domenica 7 di novembre, giusto un mese fa. Si scendono cinque piani e ci si ritrova nella domenica, con un sole inaspettato, per un novembre a Parigi, con moltissima voglia di andarsene un po’ in giro, a vedere cose, a fare fotografie (perché eravamo fotografi, siamo fotografo). So bene che la cosa più difficile sarà trovare il modo di raccontarlo, e non ho timore di ripetermi. (…)

Raccontiamole dunque adagio, si potrà vedere quel che succede man mano che lo vado raccontando.(…)

Roberto Michel, franco-cileno, traduttore e fotografo dilettante a tempo perso, uscì dal numero II di rue Monsieur-le-Prince la domenica 7 novembre del corrente anno(adesso ne passano due più piccole, con gli orli argentati). Stava lavorando da tre settimane alla traduzione in francese del trattato sulle ricusazioni e i ricorsi di Josè Norberto Allende, professore all’università di Santiago. E’ strano che ci sia vento a Parigi, (…) Ma c’era anche il sole, a cavallo del vento e amico dei gatti, per cui niente mi avrebbe impedito di fare un giro lungo le banchine della Senna e scattare qualche foto della Conciergerie e della Sainte-Chapelle. Erano le dieci appena e calcolai che verso le undici avrei avuto buona luce, la migliore luce possibile in autunno. (…)

Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata precocemente ai fanciulli, perché richiede disciplina, educazione estetica, buon occhio e dita sicure. Non si tratta di mettersi in agguato della menzogna, come qualsiasi reporter, e captare la stupida silhouette del personaggio che esce dal numero 10 di Downing Street, ma in ogni modo quando si va in giro con la macchina fotografica c’è come un dovere di star attenti, di non perdere quel brusco e delizioso riflesso di un raggio di sole su una vecchia pietra, o la corsa trecce al vento di una bambina che torna con una pagnotta o una bottiglia di latte. Michel sapeva che il fotofrafo subisce una specie di trasformazione della sua personale maniera di vedere le cose in virtù di un’altra maniera che la macchina insidiosamente gli impone (adesso passa una gran nuvola quasi nera), ma non perdeva la fiducia, sapendo che gli bastava uscire senza la Contax per recuperare il tono distratto, la visione senza inquadratura, la luce senza diaframma e senza I/250. Anche adesso (che parola, “adesso”, che stupida menzogna) potevo restar seduto sulla spalletta sopra il fiume, guardando passare i barconi rossi e neri, senza che mi venisse in mente di pensare fotograficamente le scene, solo lasciandomi andare nel lasciarsi andare delle cose, correndo immobile con il tempo. E il vento ormai non soffiava più.

(…) Non avevo voglia di scattare fotografie, e accesi una sigaretta per fare qualcosa; credo che nel momento in cui avvicinavo il fiammifero al tabacco vidi per la prima volta il ragazzino.

Ciò che avevo scambiato per una coppia era piuttosto simile a un bambino con la propria madre, anche se mi rendevo conto nello stesso tempo che non si trattava affatto di un bambino con la propria madre, che si trattava di una coppia nel senso che siamo soliti attribuire alle coppie quando le vediamo appoggiate ai parapetti o abbracciate sulle panchine delle piazze.

Siccome non avevo nulla da fare, avevo tempo in abbondanza per domandarmi perché mai quel ragazzetto pareva così nervoso (…) Tutto ciò era così evidente lì, a cinque metri di distanza-ed eravamo soli a ridosso del parapetto, sulla punta dell’isola-, che da principio la paura del ragazzo non mi permise di veder bene la donna bionda. (…) Credo di saper guardare, se qualcosa sono capace di fare, e che ogni guardare trasuda falsità, perché è ciò che ci getta più al di fuori di noi stessi, senza la più piccola garanzia, mentre invece l’odorare (ma Michel si svia facilmente, non si deve lasciarlo declamare a suo capriccio). Ad ogni modo, prevedendone in anticipo la probabile falsificazione, guardare diventa possibile; basta forse scegliere tra il guardare e la cosa guardata, spogliare le cose di tanti panni altrui. E naturalmente tutto ciò è piuttosto difficile.

Del ragazzo ricordo l’immagine prima che il vero corpo (si capirà dopo quel che voglio dire), mentre sono sicuro, adesso, che della donna ricordo molto meglio il corpo che l’immagine. Era sottile e snella, due parole ingiuste per dire quello che era, e indossava un cappotto di pelle quasi nero, quasi lungo, quasi bello. Tutto il vento di quella mattina (ora soffiava appena e non faceva freddo) le era passato fra i capelli biondi che ritagliavano il suo viso bianco e oscuro-due parole ingiuste- e lasciava il mondo in piedi e orribilmente solo davanti ai suoi occhi neri, i suoi occhi che cadevano addosso alle cose come due aquile, due salti nel vuoto, due raffiche di fango verde. Non descrivo niente, cerco piuttosto di comprendere. E ho detto due raffiche di fango verde.

Siamo giusti, il ragazzo era vestito abbastanza bene e portava guanti gialli che io avrei giurato fossero di suo fratello maggiore, studente di legge o di scienze sociali; era spassoso vedere le dita dei guanti spuntar fuori dalla tasca della giacca. Per molto tempo non lo vidi in faccia, soltanto un profilo per niente sciocco (…) Sui quattordici anni, forse quindici, lo si indovinava vestito e nutrito dai genitori, ma senza una lira in tasca, costretto a discutere con i compagni prima di decidersi per un caffè, un cognac o un pacchetto di sigarette. Doveva camminare per le vie pensando alle compagne di scuola, o a come sarebbe bello andare al cinema a vedere l’ultimo film (…) Per questo tanta strada, tutto il fiume per lui (ma senza una lira) e la città misteriosa dei quindici anni, con i suoi segni sulle porte, i suoi gatti che fanno sussultare, il cartoccio di patate fritte, a trenta franchi, la rivista pornografica piegata in quattro, la solitudine come un vuoto nelle tasche, gli incontri felici, il fervore per tante cose incomprese ma illuminate da un amore totale, dalla disponibilità simile al vento e alle vie. Questa era la biografia del ragazzo e di qualsiasi ragazzo, ma questo lo vedevo adesso isolato, divenuto unico per la presenza della donna bionda che continuava a parlargli. (…) Riassumendo, il ragazzo era inquieto, e non ci voleva molto per indovinare quello che era successo pochi minuti prima, al massimo mezz’ora prima. Il ragazzo si era spinto fino all’estremità dell’isola: vede la donna e la trova meravigliosa. La donna non aspettava altro perché era lì appunto per aspettare cose del genere, o forse il ragazzo arrivò prima e lei lo vide da una finestra o da un’automobile e gli andò incontro, provocando il dialogo con qualunque pretesto, sicura fin dal primo momento che lui avrebbe avuto paura e voglia di fuggire, ma che naturalmente sarebbe rimasto, arrogante e accigliato, fingendosi un veterano, esperto nei piaceri dell’avventura. Il resto era facile perché stava svolgendosi a cinque metri di distanza da me e chiunque sarebbe stato capace di misurare le tappe del gioco, la schermaglia irrisoria; il suo maggiore incanto non era il suo svolgersi, bensì la previsione dell’esito. Il ragazzo avrebbe finito con l’allegare un pretesto qualsiasi, un appuntamento, un incarico, e se ne sarebbe andato vergognoso e vacillante, facendo ogni sforzo per camminare disinvolto, nudo sotto lo sguardo ironico che lo avrebbe seguito fino alla fine. Oppure sarebbe rimasto, affascinato o semplicemente incapace di prendere l’iniziativa, e la donna avrebbe cominciato ad accarezzargli i capelli, parlandogli senza voce ormai, e all’improvviso lo avrebbe preso per un braccio per portarselo via, a meno che lui, con un tremore forse già permeato dal desiderio, dal pericolo dell’avventura, non osasse passarle un braccio attorno alla vita e baciarla. Tutto ciò poteva accadere, ma non accadeva ancora, e Michel perversamente aspettava, seduto sulla spalletta, preparando quasi senza rendersene conto la macchina fotografica per scattare una foto pittoresca in un angolo dell’isola con una coppia niente affatto comune che si sta parlando e guardando…

Era curioso che la scena (il nulla, quasi: due che stanno lì, disegualmente giovani) avesse come un’aria inquietante. Pensai che questo ce lo mettevo io, e che la mia foto, se l’avessi scattata, avrebbe restituito le cose alla loro sciocca verità. Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa pensava l’uomo col cappello grigio seduto al volante dell’automobile ferma sul molo che conduce alla passerella, e che leggeva il giornale o dormiva. Lo avevo appena scoperto, perché la gente dentro una macchina ferma quasi scompare, si perde in quella squallida gabbia privata della bellezza che le danno il movimento e il pericolo. Eppure l’automobile era stata lì tutto il tempo, formando parte (o deformando quella parte) dell’isola. Una macchina come dire un fanale dell’illuminazione pubblica, una panchina della piazza. Mai come il vento, la luce del sole quelle materie sempre nuove per la pelle e per gli occhi, o anche come il ragazzo e la donna, unici, messi lì per alterare l’isola, per farmela apparire differente. Insomma, poteva succedere che l’uomo del giornale stesse attento a quel che accadeva e sentisse come me quel retrogusto maligno d’ogni aspettativa, La donna adesso si era dolcemente voltata in modo da stringere il ragazzo fra sé e il parapetto, li vedevo quasi di profilo e lui era più alto, non molto più alto di lei, ma tuttavia lei lo soverchiava, sembrava come librarsi su di lui (…) Perché attendere ancora? Con un diaframma sedici, in’inquadratura che escludesse l’orribile automobile nera, ma comprendesse quell’albero, necessario per rompere uno spazio troppo grigio..

Alzai la macchina, finsi di studiare una messa a fuoco che non li includeva, e rimasi in agguato, sicuro di cogliere finalmente il gesto rivelatore, l’espressione che riassume tutto, la vita a cui il movimento dà ritmo ma che un’immagine rigida distrugge frantumando il tempo, se non si afferra l’impercettibile frazione essenziale. Non dovetti aspettare molto. La donna seguitava nel suo piano di avvincere il ragazzo, di togliergli fibra a fibra i suoi ultimi resti di libertà, in una lentissima tortura deliziosa. Immaginai gli esiti possibili (adesso spunta una nuvola spugnosa, quasi sola nel cielo), previdi l’arrivo alla casa (probabilmente un pianoterra, che lei avrebbe riempito di cuscini e di gatti) e sospettai la tremenda paura del ragazzo e la sua decisione disperata di nasconderla e di lasciarsi trascinare fingendo che niente di tutto quello gli riusciva nuovo. Chiudendo gli occhi, se veramente li chiusi, misi a fuoco la scena, i baci scherzosi, la donna che respinge dolcemente le mani che tentano di spogliarla come nei romanzi, su un letto coperto forse da una trapunta lilla, e che costringe invece lui a lasciarsi togliere gli abiti, madre e figlio, veramente, sotto una luce gialla di globo elettrico, e tutto  sarebbe finito come sempre forse, o forse tutto sarebbe andato in un altro modo e l’iniziazione dell’adolescente si sarebbe limitata, non avrebbe potuto far altro che limitarsi a un lungo proemio, in cui le goffaggini, le carezze esasperanti, la corsa delle mani si risolvessero chissà in che, in un piacere solitario e individuale, in un petulante diniego mescolato all’arte di stancare e di sconcertare tanta innocenza offesa. Poteva andare così; quella donna non cercava nel ragazzo un amante, e insieme se ne impadroniva per uno scopo impossibile da intendere senza immaginarlo come gioco crudele, desiderio di desiderare senza soddisfazione, di eccitarsi per qualcun altro, qualcuno che non poteva assolutamente essere quel ragazzo.

Michel è colpevole di letteratura, di architetture irreali. Niente gli piace di più dell’immaginare eccezioni, individui fuori della specie, mostri non sempre ripugnanti. Ma quella donna invitava all’invenzione, dando forse le chiavi sufficienti per scoprire la verità. Prima che se ne andasse, e ora poteva già nutrire il mio ricordo per molti giorni, giacché sono propenso alla ruminazione, decisi di non perdere neppure un minuto di più. Feci entrare tutto nel mirino (con l’albero, la spalletta, il sole delle undici) e scattai la foto. Nello stesso istante capivo che i due se n’erano resi conto e che mi stavano guardando, il ragazzo sorpreso e come arrogante, ma la donna irritata, risolutamente ostili il suo corpo e il suo viso che si sapevano rubati, ignominiosamente prigionieri in una piccola immagine chimica.

Lo potrei riferire in ogni particolare, ma non ne vale la pena. La donna parlò dicendo che nessuno aveva il diritto di scattare una foto senza permesso, ed esigette la consegna del rotolo della pellicola. (…) Da parte mia mi importava ben poco darle o no il rotolo della pellicola, ma chiunque mi conosce sa che le cose bisogna chiedermele con le buone. Il risultato è che mi limitai ad esprimere l’opinione che la fotografia non solo non è vietata nei luoghi pubblici, ma che anzi può contare sul più grande favore ufficiale e privato. E mentre glielo dicevo me la spassavo dentro di me vedendo come il ragazzo andava restando indietro – e di colpo (sembrava quasi incredibile) si voltava e partiva di corsa, credendo di camminare, il poverino, ma in realtà dandosela a gambe al galoppo, passando a fianco dell’automobile, perdendosi come un filo di ragnatela nell’aria della mattina.

Ma le ragnatele si chiamano anche bave del diavolo, e Michel dovette far fronte a imprecazioni particolareggiate, sentirsi chiamare rompiscatole e imbecille, mentre deliberatamente si impegnava a sorridere e a respingere, con semplici cenni del capo, quando udii sbattere la porta di un’auto. L’uomo dal cappello grigio era lì che ci guardava. Solamente allora compresi che anch’egli aveva una parte nella commedia.Cominciò a camminare verso di noi, tenendo in una mano il giornale che aveva finto di leggere. Ciò di cui meglio mi ricordo è la smorfia che gli torceva la bocca e gli riempiva la faccia di rughe, (…) Ma tutto il resto era finto, pagliaccio infarinato o uomo senza sangue (…) Il pagliaccio e la donna si consultavano in silenzio: formavano un perfetto triangolo insopportabile, qualcosa che si doveva rompere come uno schiocco. (…)

Ciò che segue è accaduto qui, in questo stesso momento si può dire, in una stanza di un quinto piano. Vari giorni trascorsero prima che Michel sviluppasse le fotografie della domenica; le sue istantanee della Conciergerie e della Sainte-Chappelle erano come dovevano essere. Trovò due o tre inquadrature di prova già dimenticate, un tentativo non riuscito di captare un gatto incredibilmente appollaiato sulla cima di un orinatoio pubblico, e anche la foto della donna bionda e dell’adolescente. Il negativo era così buono che preparò un ingrandimento; l’ingrandimento venne così bene che ne fece un altro molto più grande, quasi come un cartellone pubblicitario. Non gli venne in mente (se lo domanda adesso e se lo ridomanda) che solo le istantanee della Conciergerie meritavano tanta fatica. Di tutta la serie, l’unica istantanea che lo interessava era quella dell’estremità dell’isola; attaccò l’ingrandimento ad una parete della stanza e il primo giorno rimase un po’ di tempo a osservarlo e a ricordare, in quell’operazione comparativa e malinconica del ricordo davanti alla realtà perduta; ricordo pietrificato, come ogni fotografia, in cui non mancava nulla, nemmeno e soprattutto il nulla, che era in verità ciò che aveva fissato la scena. (…) I due primi giorni accettai quello che avevo fatto, dalla foto in sé fino all’ingrandimento sulla parete, (…) La prima sorpresa fu stupida; non mi era mai capitato di pensare che quando guardiamo una fotografia di fronte, gli occhi ripetono esattamente la visione e la posizione dell’obiettivo; sono cose queste che si danno per scontate, e nessuno si sofferma a ripensarle. Dalla mia sedia, con la macchina per scrivere davanti, fissavo la foto lì a tre metri di distanza; e allora mi venne in mente che mi ero messo esattamente nel punto di mira dell’obiettivo. Così andava bene; senza dubbio era il modo migliore per apprezzare una foto, anche se la visione in diagonale poteva avere i suoi incanti e magari anche le sue sorprese. (…); ora mi attirava la donna, ora il ragazzo, ora il selciato, su cui una foglia secca si era ammirevolmente situata per valorizzare un settore laterale. Allora riposavo un istante dal mio lavoro, e rientravo una volta di più in quella mattina che permeava la fotografia, ricordavo ironicamente l’immagine collerica della donna che esigeva la consegna della pellicola, la fuga ridicola e patetica del ragazzo, l’entrata in scena dell’uomo dalla faccia bianca. In fondo ero soddisfatto di me stesso; la mia uscita di scena non era stata troppo brillante (…) Ma la cosa importante, l’unica veramente importante era l’aver aiutato il ragazzo a scappare in tempo (questo nel caso che le mie teorie fossero esatte, il che non era sufficientemente dimostrato, ma il semplice fatto della fuga sembrava provarlo). Con il mio intervento di ficcanaso gli avevo dato l’opportunità di utilizzare finalmente la sua paura per qualcosa di positivo; adesso doveva sentirsi pentito, diminuito, scarsamente virile. Ma questo era meglio, piuttosto che la compagnia di una donna capace di guardare come quella lo aveva guardato all’isola. (…) In fondo, quella foto era stata una buona azione.Non come buona azione però la guardavo nelle frequenti pause del mio lavoro. In quel momento non sapevo perché la guardavo. (…) Credo che il tremito quasi furtivo delle foglie dell’albero non mi allarmò, che continuai una frase incominciata e la terminai con pieno rispetto della sintassi. Le abitudini sono come grandi erbari, in ultima analisi un ingrandimento di ottanta per sessanta somiglia a uno schermo cinematografico, sul quale all’estremità di un’isola una donna parla con un ragazzo e un albero agita qualche foglia secca sopra le loro teste. Ma le mani erano davvero troppo. Avevo finito di scrivere: “Donc la seconde clé réside dans la nature intrinseque des difficultés que les sociétes” – vidi che la mano della donna cominciava a chiudersi adagio, dito per dito. Di me non rimase nulla, una frase in francese che non sarà finita mai, una macchina per scrivere che cade a terra, una seggiola che scricchiola e vacilla, una nebbia. Il ragazzo aveva abbassato la testa, come i pugili quando sono allo stremo e aspettano solo il colpo di grazia; si era alzato il bavero del cappotto, pareva più che mai un prigioniero, la perfetta vittima che dà una mano alla catastrofe. La donna adesso gli parlava all’orecchio, e la mano si apriva ancora per posarsi sulla guancia di lui, accarezzandola e accarezzandola, bruciandola senza fretta. Il ragazzo era meno spaventato che diffidente, una o due volte lanciò uno sguardo furtivo al di sopra della spalla della donna, e lei continuava a parlare, spiegando qualcosa che lo faceva guardare ad ogni momento verso quel punto in cui Michel sapeva benissimo trovarsi la macchina con l’uomo dal cappello grigio, accuratamente escluso dalla fotografia, ma che ad ogni modo si rifletteva negli occhi del ragazzo e (come dubitarne adesso) nelle parole della donna, nelle mani della donna, nella presenza vicaria della donna. Quando vidi venire l’uomo, fermarsi accanto a loro e fissarli, le mani nelle tasche e con un’aria fra tediata ed esigente, padrone che sta fischiare ai propri cani dopo averli lasciati divertire un poco sulla piazza, compresi, se quello era comprendere, quel che doveva succedere, quello che doveva essere successo, quello che avrebbe dovuto succedere in quel momento, fra quella gente, in quel quel punto dove ero arrivato io ad alterare un ordine, innocentemente immischiato in ciò che non era accaduto, ma che adesso sarebbe accaduto, che adesso stava per compiersi. E quello che allora avevo immaginato era molto meno orribile della realtà, quella donna che non era lì per sé, non accarezzava né proponeva né incoraggiava per il proprio piacere, per portarsi via l’angelo spettinato e giocare con il terrore e con la grazia desiderante di lui. Il vero padrone aspettava, sorridendo petulante, sicuro ormai dell’opera; (…) Il resto sarebbe stato molto semplice, la macchina, una casa qualsiasi, le bevande, le immagini eccitanti, le lacrime troppo tardi, il risveglio all’inferno. E io non potevo farci nulla. (…) Improvvisamente, l’ordine si invertiva, loro erano vivi, si muovevano, decidevano ed erano decisi, andavano verso il loro futuro; e da questo lato, prigioniero di un altro tempo, di una stanza e un quinto piano, dell’ignorare chi fossero quella donna e quell’uomo e quel fanciullo, di essere soltanto la lente del mio obiettivo, qualcosa di rigido, incapace d’intervento. Mi gettavano in faccia la più orrenda beffa, quella di decidere di fronte alla mia impotenza, (…) Tutto stava per risolversi lì, in quell’istante; c’era come un immenso silenzio che non aveva nulla a che vedere col silenzio fisico. (…) Credo d’aver gridato, d’aver gridato terribilmente, e d’aver saputo in quell’attimo stesso che cominciavo ad avvicinarmi, dieci centimetri, un passo, un altro passo, l’albero muoveva lentamente i suoi rami in primo piano, una macchia del parapetto veniva in primo piano, la faccia della donna, rivolta verso di me come sorpresa, stava ingrandendosi, e allora mi spostai un poco, voglio dire che la macchina si spostò lentamente, e senza perdere di vista la donna cominciò ad avvicinarsi all’uomo che mi stava guardando con i buchi neri che aveva al posto degli occhi, mi guardava fra il sorpreso e l’iroso, volendo inchiodarmi nell’aria, e in quell’istante riuscii a vedere una specie di immenso uccello sfuocato che passava d’un sol volo davanti all’immagine, e mi appoggiai alla parete della mia stanza, e fui felice perché il ragazzo era appena fuggito, lo vedevo mentre correva, di nuovo a fuoco, mentre fuggiva con tutti i capelli al vento, imparando finalmente a volare sull’isola, ad arrivare alla passerella, a tornare in città. Per la seconda volta io lo aiutavo a salvarsi, lo restituivo al suo precario paradiso. Ansando mi fermai davanti a loro; non c’era bisogno di procedere oltre, il gioco era giocato. Della donna si vedevano solamente una spalla e una parte dei capelli, brutalmente tagliati dall’inquadratura dell’immagine; ma di fronte c’era l’uomo, semiaperta la bocca in cui vedevo tremare una lingua nera, e alzava adagio le mani portandole in primo piano, perfettamente a fuoco ancora per un istante, trasformato poi tutto lui in una massa confusa che cancellava l’isola, l’albero, e io chiusi gli occhi e non volli guardare più, e mi coprii il viso e scoppiai a piangere, come un idiota.Ora passa una grande nuvola bianca, come in tutti questi giorni, in tutti questi minuti innumerevoli. Quello che rimane da dire è sempre una nuvola, due nuvole, o lunghe ore di cielo perfettamente limpido, rettangolo purissimo appeso con gli spilli sulla parete della mia stanza. Fu quello che vidi riaprendo gli occhi e asciugandomeli con le dita: il cielo limpido, e quindi una nuvola che entrava da sinistra, portava a spasso lentamente la sua grazia e si perdeva verso destra. E poi un’altra, e a volte invece era tutto grigio, tutto è una nuvola enorme, e improvvisamente crepitano gli spruzzi della pioggia, per un lungo momento si vede piovere sull’immagine, come un pianto a rovescio, e a poco a poco il quadro si rischiara, forse vien fuori il sole, e di nuovo entrano le nuvole, a due, a tre per volta. E i colombi, a volte, e anche qualche passerotto.

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