Julia Holter – Aviary

Un tappeto sonoro con gli archetti a colpire le corde tese di viola e violino mentre la batteria disegna ritmi sospesi nell’orizzonte distante di un panorama free jazz, la voce che arriva da lontano, potente e sciamanica a tracciare nell’aria parole di ricongiungimento – Thankful you’ll come back / You can recall the way you held me close. È così che ha inizio Aviary (Domino Recording), quinto album in studio della compositrice e cantautrice americana Julia Holter: un ingresso deciso, senza chiedere permesso, come a voler subito segnalare un’urgenza espressiva che non può concedersi di sprecare nemmeno un attimo. Dopo le ultime prove – Loud City Song, Have You Here in My Wilderness – improntate a un cantautorato pop erudito ed elegante – con Aviary Julia Holter dimostra fin dalle prime battute di aver nuovamente rivolto lo sguardo – come agli inizi della sua carriera – verso una forma canzone che si concede deragliamenti nei territori impervi e affascinanti della musica colta contemporanea. Turn the light on colpisce grazie alla personalità timbrica di una voce che si estende su pattern sonori che sembrano aver colto appieno la lezione di John Cale ai tempi dei Velvet Underground grazie ai bordoni degli archi di Dina Maccabee e Andrew Tholl cui fa da contrappunto il piano quasi percussivo suonato dalla stessa Holter.

I quattro minuti dell’incipit sono seguiti dalla breve Whether arricchita dalle acrobazie vocali/elettroniche à la Laurie Anderson che rincorrono i tempi dispari di una marcetta insieme scanzonata e spettrale e che si conclude con un richiamo alle atmosfere dei primi Genesis e con un assolo affidato alle percussioni di Corey Fogel. Sono i due pezzi più brevi di un album lunghissimo: quindici canzoni che superano abbondantemente i sei minuti di durata e che rappresentano quasi una summa, affascinante e disarmante, delle indiscutibili qualità della musicista e cantante nata in Michigan ma d’adozione californiana.

Chaitus – che con i suoi oltre otto minuti è il brano più lungo del disco – nasconde al suo interno una delle più recenti passioni della Holter legata alla fascinazione verso le forme musicali medievali. La tromba di Sarah Belle Reid disegna una linea musicale che, come un uccello, vola su pattern sonori complessi e frammentati, attraverso un lavoro di taglia e cuci che restituisce echi di suoni, di voci in loop, di brevi e improvvise idee elettroniche attraversate – con l’ingresso delle tastiere – da un’angoscia sottile come se Dario Argento incontrasse Jacopo da Bologna.  La voce della Holter è qui ancora filtrata mentre Devin Hoff, che pizzica le corde del suo contrabbasso, apre uno squarcio su uno scenario abbandonato e desolante dove la musica – come in un lavoro sui nastri – resta sospesa sullo sfondo fino all’ingresso dei synth à la Stranger Things, mentre la batteria – sul finale – detta tempi complessi unendosi a un baccanale sonoro che nulla lascia al caso, ma è il frutto di una scrittura coraggiosa, matura e coesa.

Voce Simul – che nella prima strofa si affida a un canto in latino su basse note insistenti – ha un incidere acid jazz che – soprattutto nel cantato – risale la corrente fino alla sorgente della migliore stagione tropicalista; quindi, la tromba in lontananza ci conduce per mano dentro un’atmosfera suggestiva riportandoci indietro nel tempo sulle tracce di quel capolavoro della kosmische musik più esoterica e orientaleggiante che fu Hosianna Mantra dei Popol Vuh. Nella parte centrale la voce viene nuovamente coinvolta in un gioco di specchi da cui ne esce stravolta in un’accecante polifonia elettronica/minimalista che un’arpa – ricreata da Tashi Wada ai synth – riconduce nuovamente lungo la strada di paesaggi oscuri e crepuscolari.

Everyday is an emergency è aperta da una tanto violenta quanto ancora una volta controllata cacofonia di voci in loop che s’impastano al suono pungente e insistente delle cornamuse. Bisogna aspettare quattro minuti – la metà del brano – perché la sovrapposizione di suoni che tanto deve agli esperimenti di Karlheinz Stockhausen, venga interrotta dall’ingresso della voce della Holter e dalle note gentili di un pianoforte che – distante dalla nitidezza e dalla pulizia del digitale – restituisce, come attraverso un filtro di pioggia e finestre, un universo sonoro misurato e lontano nel tempo che ha il sapore dell’analogico mentre ai synth sono affidate progressioni sonore che richiamano le atmosfere dell’ultimo bellissimo Async del maestro giapponese Ryūichi Sakamoto.

Preceduta dall’elettronica di Another dream, I shall love 2, dopo trentacinque minuti di musica, è – di fatto – la prima vera canzone in senso stretto del disco (non a caso scelta come primo singolo). È una ballata che sembra quasi strizzare l’occhio a un certo suono french touch, sorretta da un esile tessuto di beat elettronici sui quali poco a poco s’innestano batteria e basso e un coro elettronico mentre la Holter si abbandona con un canto morbido e languido – come una Charlotte Gainsbourg baciata dal sole della California – a una riflessione sulla forza dell’amore – In all the human errors there is something true / but do the angels say, do the angels say – mentre sul finale lascia andare la sua voce a toni delicatamente declamatori che richiamano l’incidere teutonico di una Christa Päffgen.

Se la musica è certamente l’elemento principale di ogni suo lavoro – a questo giro anche per quanto riguarda i testi Julia Holter è tornata alle vecchie abitudini che risalgono agli anni degli studi di composizione (Università del Michigan e CalArts): lavorare cioè su un materiale preesistente anche lontanissimo nel tempo – si pensi agli esordi con Euripide e la tragedia greca – frammenti cui la Holter dà una nuova vita grazie a una sorta di investitura musicale. Per Aviary ha usato i racconti contenuti in Master of the Eclipse (2009) della scrittrice libanese Etel Adnan. In un continuo viaggio tra i popoli e la storia, Julia Holter come un novello àugure o una Pizia contemporanea specchia l’inquietudine americana – lo shock di essersi svegliati una mattina governati da Donald Trump – nella tragedia della guerra civile libanese, nella diaspora del popolo curdo, nella resistenza a ogni angolo del globo terrestre. La “voliera piena di uccelli urlanti”, immagine poetica di rara potenza, diventa così ispirazione per l’intero lavoro, rovesciamento dell’armonia e del sogno da sempre racchiuso nella leggerezza e nella libertà del mondo ornitologico.

Underneath the moon – che nella versione fisica apre il secondo disco – vede il canto della Holter sospeso su un tappeto che richiama – addolcendolo – il tribalismo sghembo di Talking Heads e LCD Soundsystem. L’ingresso della tromba porta il pezzo su altre sponde fino all’ennesimo cambio di paesaggio sonoro grazie a un finale che guadagna in ariosità senza rinunciare – nella lunga coda – al ritorno della ritmicità grazie prima agli archi pizzicati quindi nuovamente al tribalismo dell’inizio qui e lì sporcato dalle migliori intuizioni a marchio Warpaint.

Al giro di boa Aviary appare in maniera sempre più chiara – più che un disco – un’autentica partitura fatta di pezzi diversi, moduli aleatori e interscambiabili che danno vita a un racconto vastissimo e prezioso, fine cesellatura di suoni e di stili, caleidoscopio opulento e prorompente di eredità musicali aggiornate ai giorni nostri e resi personali da un pastiche sonoro che lascia a bocca aperta per la ricchezza degli spunti, la varietà della proposta, l’arditezza delle scelte prive di compromesso e – allo stesso tempo – per un’incredibile leggerezza di fondo che rende semplici anche le soluzioni più complesse. È soprattutto in questo dato che sta la grandezza del disco: la capacità di realizzare un’opera ambiziosa nel suo approccio colto alla musica popolare che però nei suoni mantiene inalterata una freschezza capace di dialogare anche con soluzioni più affascinanti e orecchiabili.

Se Colligere in sei minuti mescola Johnny Greenwood alla new age e Bjork alla musica neo classica, In garden muteness è una ballata intima che si apre sulle note delicate del pianoforte a un tempo esile e marziale. La voce di Julia Holter è mai come in questo disco elemento che fa parte appieno della struttura musicale del brano, dettando la melodia e contribuendo spesso in maniera decisiva alla ricchezza delle soluzioni armoniche. Il canto è del resto uno dei tratti distintivi di una ragazza folgorata prima della musica e, solo da adolescente, dal canto – nei pomeriggi passati a casa mentre suonava il piano quando, al riparo da occhi indiscreti, cantava le melodie senza tempo di Billie Holliday come le canzoni di una giovane Fiona Apple. C’è un senso di meraviglia, di pace, di bellezza che attraversa In garden muteness che quasi si riesce a immaginare quella luce che sempre dal vivo le illumina il bel volto da ragazza di buona famiglia, mentre il pianoforte va nella direzione di una musica ricercata à la Ligeti con grappoli di note che si trasformano improvvisamente negli echi di un pianino da cabaret ebbro nella Berlino della Repubblica di Weimar: Lotte Lenya che incontra John Cage.

Le note dell’organo aprono I would rather see, un brano più orientato agli anni ottanta sospeso in un’atmosfera vapor wave. La Holter declama, come fosse una nuova sacerdotessa di un culto per affiliati, le liriche della poetessa Saffo con l’atmosfera a richiamare i Cocteau Twins in un sogno senza tempo né spazio.

Les Jeux to You paga – fin dalle note cristalline immediatamente accompagnate dai beat elettronici – un dovuto debito a Kate Bush che fu in qualche modo maestra indiscussa di quella proposta originale contraddistinta da colta eleganza e spregiudicata irriverenza verso le forme della musica popolare – unitamente alla ricchezza armonica e alle grandi capacità vocali. C’è un riflesso nel fraseggio, nella grazia delle linee melodiche come nell’improvvisa svolta che guarda a una certa ballabilità plastica, elettronica e retrò che non può non far pensare a un omaggio esplicito alla grande artista britannica.

 Dream worm formed our claws embrace /Exile leaning on decaying walls of an

Ancient king deflecting blame / I love you in the City of Man

Con la successiva Words I heard – accompagnata ancora dagli archi – la Holter prosegue sul cammino tracciato nella seconda parte di questo doppio album dove – pur a fronte dell’uso pressante quanto superbo di pattern sonori anche estremamente diversi tra loro – ricerca maggiormente quella cantabilità che era stata la chiave del successo del pop elegante di Have You in My Wilderness – unanimemente considerato uno dei lavori meglio riusciti del 2015. Qui evidentemente la cantabilità è una caratteristica meno diretta e più articolata – appoggiandosi ad arrangiamenti molto più complessi, a tratti quasi cameristici – ma è evidente come una maggiore insistenza melodica segni un cambio di passo quasi che gli uccelli in gabbia possano finalmente volare liberi sul caos primordiale del mondo che sembra stritolare i nostri tempi. Words I Heard – ispirata debolmente all’approccio agli archi di Alice Coltrane ai tempi di Universal Consciousness e che nel finale cita addirittura la Commedia dantesca – regala all’ascoltatore un senso di pace, un’elevazione verso territori di aria pulita e nel fraseggio – come anche nell’uso più marcato di un registro vocale alto e istrionico – riporta a Joanna Newsom, l’altra grande cantautrice colta di questo scorcio di millennio. Sia però detto in maniera chiara: i paragoni con le colleghe che pure abbondano tra le note di questo lavoro non sono il classico giochino dei confronti quanto un riconoscimento alla Holter per aver saputo rappresentare – in un universo sonoro e discografico sempre più frammentato quanto in definitiva omologato – una sorta di mappa emotiva e di assonanze con quel lato declinato praticamente al solo femminile che in questi anni più ha saputo sperimentare, più ha osato, più ha raccolto da parte della critica il plauso per la ricerca costante di una diversa direzione musicale e artistica.

I shall love 1 riprende l’uso disturbante delle cornamuse qui appesantite dal basso continuo e da un ritmo più funereo per poi lasciarsi andare a un pattern minimalista sorretto dagli archi e dalle percussioni. È il piano ancora una volta a portare nei brani l’elemento melodico che fa da struttura portante per le incursioni vocali con gli archi sullo sfondo armonico o come bordoni fino alla lunga coda animata da un corteo di suoni dionisiaci, richiamo ancora ai baccanali sonori dei Velvet Underground.

Why sad song – il brano che ha il compito di chiudere il disco – utilizza un sampling della collaborazione del 1997 tra il chitarrista ECM David Tibet e la monaca/musicista tibetana Ani Choying Drolma. Tra le spire di un’atmosfera rarefatta e sognante, Why sad song è un carillon decadente che ci prepara alla contemplazione, al silenzio così necessario dopo un’ora e mezza di musica. Perché in Aviary c’è davvero così tanta musica – i paesaggi sonori attraversati sono così vasti e affascinanti che si fa fatica a trattenerli, a concentrarsi su una visione singola – che quando tutto si ferma si ha bisogno di ritrovare un altro respiro, un altro sguardo, una nuova dimensione in tutto ciò che ci circonda e da cui siamo stati salvificamente allontanati.

Aviary è la messinscena stessa del caos, un disco che rinuncia a una sintesi delle forme, che per sua stessa natura non chiede di trovare alcuna quadra e non cerca perfezioni ma offre al pubblico una strada artistica in cui il disordine non è violenza, ma è assorbito all’interno di meccanismi sonori ed estetici dai quali si viene sopraffatti e verso i quali è difficile non provare stordimento e piacere. È il lavoro più complesso della Holter, un inno alla libertà musicale e a quella artistica rispetto al mercato, alla ripetitività del successo e dei canoni, persino rispetto a se stessi. È un disco difficile da immaginare fino al momento in cui lo si ascolta e tutto appare chiaro, pulito, certo. Un disco che racchiude in sé – in una forma estremamente contemporanea – lo sguardo sull’oggi e la speranza verso un altrove da realizzare un domani.

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