Un giorno bisognerà fare una cartografia degli scrittori sudamericani del Novecento, e di come si siano influenzati a vicenda, toccati, disincontrati, amati, e magari pure presi a pugni (a Vargas Llosa e García Márquez è successo). Per esempio di Juan Carlos Onetti e Roberto Arlt si sa certamente che si incrociarono per le vie di Buenos Aires quando Onetti abitava nella capitale argentina. Arlt era lo scrittore-giornalista e cantore di Buenos Aires, il porteño assoluto, Onetti un giovane uruguagio a caccia di storie. Onetti incontra Arlt per il tramite di un amico – lo racconta lui stesso in una bella introduzione ai Sette Pazzi –, e durante l’incontro Arlt commenta così una sua storia: “è il miglior romanzo scritto quest’anno a Buenos Aires”.
A proposito di incontri e disincontri sudamericani, in queste settimane SUR ha pubblicato in nuova edizione “La vita breve” e “Il cantiere” (traduzione Ilide Carmignani), due romanzi di Juan Carlos Onetti per l’omaggio al maestro uruguagio, e “I sette pazzi” (traduzione di Luigi Pellisari) di Roberto Arlt. Se Juan Carlos Onetti è l’uomo di cui leggerete sempre che scrive benissimo – lo dicono tutti, davvero tutti, critici, scrittori, appassionati e non lettori, c’è sempre l’urgenza di mettere in chiaro che Onetti scrive bene, che ti porta naturalmente a leggerlo proprio perché scrive bene, perché le sue frasi sono punture profonde, tagliano, agiscono addosso, sono un diluvio pluviale; se la scrittura di Onetti si porta appresso con sé una entusiasta e carnale celebrazione (dagli aggettivi fino alle virgole), a proposito di Roberto Arlt leggenda narra che scrivesse male, con quel suo gergo da strada che pure faceva cuocere a fondo le parole, al punto da renderlo il cantore urbano della capitale d’Argentina che lumineggiava attraverso le sue acquaforti. La storia di Roberto Artl cantore gergale del Rio de la Plata la racconta lo stesso Onetti, e la ripete pure Julio Cortázar nell’introduzione alla nuova edizione SUR; ma lo stesso – per Onetti e Cortázar – Roberto Arlt è il porteño autentico, alle volte intraducibile, che prende il linguaggio di una Buenos Aires viscerale e allo sbando e te lo schianta addosso. Messi da parte i banali equivoci e le diversità che sulla carta potrebbero separare i mondi di Onetti e Arlt, entrambi gli scrittori sudamericani sono due di quelli assolutamente-da-leggere, sommovimentatori di parole e di mondi. Un mondo è Santa Maria, l’immaginaria città onettiana che è metafora di realtà; un mondo è pure Buenos Aires, realissima e viva capitale d’Argentina dove si mescolano fantasie e immaginari. E a guardare una mappa, la strada da Montevideo a Buenos Aires è molto più vicina di quanto si immagini – o almeno lo è in linea d’aria.
Juan Carlos Onetti, inventore di Santa Maria
“Mi convinsi che, per salvarmi, disponevo solo di quella notte che stava cominciando oltre la finestra, eccitante, con le sue sporadiche raffiche di vento caldo.” (La vita breve)
Si parla ancora troppo poco di Uruguay, questo lembo di terra intestino accasciato tra l’Argentina e il Brasile – questa terra sudamericana che ha avuto il suo destino di infelicità con un colpo di stato che è meno celebre di quello cileno, ma che fu in un certo senso suo preconizzatore, perché in Cile Pinochet prese il potere a settembre del 1973, e in Uruguay tutto successe nel mese di giugno. Pure l’Uruguay si porta dietro i suoi strascichi di sangue, di scomparse e di orrori, lo sa bene Juan Carlos Onetti che nel 1974 fu arrestato dal regime per aver preso parte a una giuria che aveva assegnato un premio a un racconto di Nelson Marra dichiarato osceno e sovversivo dalla dittatura militare, perché raccontava la storia di un ispettore di polizia torturatore e stupratore. La storia della scrittura in Sudamerica in quella parte di Novecento molto spesso si intreccia alla storia di dittature e di esuli in cerca di vie di fuga. Il rifugio di Juan Carlos Onetti diventerà Madrid (più precisamente un letto a Madrid da cui si alzerà a fatica; e sono tante le foto che ritraggono Onetti sul letto), ma il rifugio più bello dalla realtà restò sempre la misteriosa città di Santa Maria, un universo che Onetti si era creato già prima dell’esperienza del regime, forse presentendo le ombre scure e dolorose di cui era capace il mondo vero. Non che Santa Maria fosse un’isola felice, non potrebbe esserlo perché Onetti portò sempre con sé una parte scura e traversa, presagi che aveva maturato nei suoi vagheggiamenti sudamericani, un’ossessione per Faulkner e la sua asprezza fatta di terra arida. Santa Maria non è un immaginario paese di felicità, né la magica Macondo; è la terra cruda dello scrittore, magma arso che trova il suo spazio dentro la finzione narrativa. Terra abitata da esseri umani che a volte sembrano essere stati fatti a pezzi dalla vita, esseri umani sbranati.
La vita breve e Il cantiere sono entrambi ambientati in quella terra misteriosa che è Santa Maria. Più precisamente, la visione di Santa Maria appare con La vita breve, e da lì avanza ossessa. Onetti è certamente uno scrittore di atmosfera, che riesce a tenere viva la tensione attraverso la penna e le parole e l’arma bianca degli aggettivi, delle frasi appuntite, che ci accompagna in questo tremore calandoci diritti nel suo delirio suburbano – quello che dobbiamo vedere quando leggiamo Onetti è il mondo creato da Onetti, Santa Maria allo sbando, i cuori sbandati dei suoi personaggi e dei suoi fratelli di destino. Onetti come un folle pistolero di parole. Così tra le pagine ci sono degli intagli in corsivo, degli scorticamenti, che sono la voce divorante del personaggio, Brausen o Larsen che ci parlano in presa diretta. È il Brausen della Vita breve l’inventore di Santa Maria, è dalla sua fantasia invasa dalla sofferenza per la moglie Gertrudis e dalla frustrazione per il lavoro di pubblicitario, che nasce questa scura regione, quel mondo inventato dove apparirà pure il Larsen del Cantiere, il raccattacadaveri che fa ritorno a Santa Maria dopo anni di esilio. Già in apertura al Cantiere Onetti ci offre una presa dall’alto, una camminata a piedi verso il cantiere metafora di devastazione e maceria, il ritorno dell’eroe in cerca di vendetta. E Brausen forse è solamente un alterego di Onetti, che crea il suo mondo oltre la realtà e ci offre uno spaccato di vita in cui calarci – e come per tutte le storie, bisogna scendere a patti con il narratore e crederci.
Roberto Arlt, cantore di Buenos Aires
“E nelle ore pomeridiane di sonno e calura, sotto il sole giallo, camminò per marciapiedi di piastrelle calde alla ricerca dei più immondi bordelli.”
I Sette Pazzi di Roberto Arlt ci dirotta invece per le vie di Buenos Aires. C’è un’aria da belve incendiarie dentro quelle strade argentine e nei personaggi che ci si aggirano. Romanzo e storia sballata in cui si incrociano astrologhi che tentano di dar vita a società segrete con piani rivoluzionari finanziati da una rete di bordelli, o il ladruncolo Erdosain che progetta un omicidio dopo essere stato abbandonato dalla moglie. I Sette Pazzi è un’ode pura a Buenos Aires, un vero canto e contro-canto della strada, con tutte le sue fatiche e le sue luminosità argentine. Qualcosa che ti viene a prendere come un rapimento. Se la lettura di Onetti si porta dietro la necessità di prendersi delle pause, di fiati di interruzione, Roberto Artl invece si fa divorare con il suo incedere in avanti a sbandate, attraverso la pulsione diretta e feroce della sua scrittura. Non è difficile capire perché ai suoi tempi a Buenos Aires Roberto Arlt fosse una droga, il genio barbaro da bassifondi della città. E fa niente che Artl non sapesse manovrare le virgole come si racconta, che non usasse le domesticazioni linguistiche, una storia come I sette pazzi è un incantesimo che ti incolla alla pagina, che prorompe con dialoghi che vengono fuori urgenti dall’anima, e pure con quei lampi di note dove Arlt ci avvisa che la storia continuerà con I lanciafiamme.
Nei Sette pazzi Arlt gioca a fare il Dostoevskij per le vie di Buenos Aires. Del resto pure a Dostoevskij è stata buttata addosso la croce di quello che “scriveva male” (Hemingway si divertiva a ripeterlo) – ma come lo scrittore russo pure Roberto Artl sembra parlare a una costola dell’essere umano, a quelle disgraziatissime vite fatte di sogni andati in malora, ai dubbi umanissimi sulla natura di un omicidio o di un progetto rivoluzionario, a quei demoni che si aggirano per le strade sballatamente improvvisandosi a far cose che non capiscono nemmeno perché le fanno, al nostro incontaminato nichilismo, dove il significato scompare dietro al puro segno, all’atto brado. Il nichilismo di Artl è comunque un nichilismo da strada, da crack – lì dove quello di Dostoevskij è più spirituale, maturato dentro lo spirito (Stavrogin ha tutto un altro portamento rispetto a Erdosain) – i personaggi di Artl sono rotti dentro, agitati da pulsioni materiali: l’amore o i soldi che se ne vanno, la mancanza di prospettive, il terrore dei guardiani della legge, lo sbrandamento straniante della vita in tutte le sue manifestazioni. L’omicidio di Barsut per Erdoisain è un’affermazione di sé stesso, ha il significato di un “ci sono”, il grido di un uomo spezzato che vuole affermare la sua esistenza.
Onetti fa BAM
“Arlt come Onetti opta per l’abisso arido e silenzioso.” Roberto Bolaño
Forse è per questo sussulto di vita che a volte sembra che i personaggi di Artl vadano avanti come sbandati e parlino per ragionamenti a zonzo. Se le trame di Onetti si dilungano fino all’esasperazione, i passaggi d’azione che guidano i personaggi di Arlt sono veloci, come se nascessero da abbagli improvvisi, da guizzi interiori. Ma è anche per queste diversità (o “zone d’angoscia” come direbbe Erdosain) che le strade del Sudamerica sembrano ancora infinite, ancora inesplorate, ancora da camminare – come la terribile vicinanza in linea d’aria tra Montevideo e Buenos Aires, e così via per gli anfratti nascosti dentro le città, la vita pura dei suoi abitanti, gli urti e le scosse dei vivi esserini di questa banda sballata di personaggi nati da teste di visionari sudamericani.
Nella maleducata (e per questo bella) raccolta di scritti Tra parentesi, Roberto Bolaño ci ricorda che nella prima metà del Novecento a Buenos Aires vissero “scrittori della statura di Roberto Arlt [il Gesù Cristo della mala], Ernesto Sábato, Julio Cortázar [el mejor], Adolfo Bioy Casares, José Bianco, Eduardo Mallea, Jorge Luis Borges [un grande poeta; un luminare, Omero]” – ed è facile immaginare che tra quella generazione ci si infilò anche l’uruguagio Onetti. E fuori da Buenos Aires e dal suo lunfardo la generazione si estendeva, tanto che finì per essere conosciuta all’estero con quel nome bizzarro di generazione del boom latinoamericano – con i suoi incontri e scontri, e i suoi entusiasmi, come quando a Onetti capitò di leggere Il persecutore di Cortázar e per la gioia tirò un pugno – fece veramente boom – contro uno specchio. Lo stesso boom che a volte ci capita addosso quando ci perdiamo a leggere per le vie infinite del Sudamerica. Una strada così illimitata che quando ha sconfinato fino all’Europa ci ha portato visioni cortázariane, wilcockiane, e poi ancora ha strabordato in quel meraviglioso deragliamento di 2666.