Sono stati tempi diversi, in cui le definizioni assumevano il peso di macigni. Da una parte o dall’altra. Le barricate erano ovunque e di ogni tipo, dentro le fabbriche, le università, le famiglie e i collettivi. Il movimento era in salute e si riproduceva con rapidità mitotica al suo interno, generando di scissione in scissione piccole isole felici in cui ognuno poteva fermarsi o scegliere di viaggiare come ultima ricerca. La battaglia era diventata così anche linguistica, oltre che politica, cosciente che per rinnovare l’ortodossia secolare del mondo servissero nuovi vocabolari e nuovi modi per ottenerli. Sperimentare e superare la linea ma finire per non distaccarsene mai del tutto, all’interno di una Babele in cui a imporsi era forse un ritorno dell’identico. L’impossibilità di uscita, la vittoria del sistema con tutte le contraddizioni rappresentate nei film del primo Bertolucci e che avrebbe costituito terreno fertile per un’altra delle rivoluzioni possibili, quella dei violenti anni ’70, eredi, forse, proprio di quella disillusione. Raccontare l’avvenire del cambiamento, per tutte queste ragioni, assume i connotati equivalenti a quelli di una missione, a cui ognuno è richiesto di contribuire con la propria visione, fedeli al fatto che ogni linguaggio personale porta con sé il valore più vero della rivoluzione culturale in atto negli anni ’60.
WE CHOOSE TO GO TO THE MOON
Il 1962 è un anno che segna, per molte ragioni, la prima metà di quel decennio, in cui le potenzialità della società sembrano tendenzialmente infinite ma gli equilibri del mondo si mostrano anche per la loro irrimediabile fragilità. Blocco USA e blocco URSS si scontrano su più campi e JFK, mentre annuncia il progetto di ammaraggio sulla Luna, si ritrova alle prese con la crisi nucleare e la polveriera di Cuba. Castro viene scomunicato, Mandela finisce in prigione, i Beatles pubblicano Love Me Do. New York è un cantiere artistico a cielo aperto, nuove generazioni di fotografi, musicisti, pittori, performancers e randagi si incontrano e inaugurano una stagione di fermento culturale unico, che si raccoglie nei pubs, nelle factory e nei salotti abbandonati per dar vita a nuove espressività, intellettualismi e forme di resistenza. Fra di loro c’è Joel Meyerowitz che, nello stesso anno dopo aver incontrato Robert Frank a un servizio fotografico, lascia il suo posto di Art Director in un’agenzia di pubblicità e comincia a vagare per le strade della Grande Mela con una macchina da 35mm. Insieme a Friedlander, Arbus, Winogrand e Papageorge costituisce la nuova generazione di grandi street photographer americani, la fotografia di strada diventa stile e modo di vivere il mondo per questi nuovi visitatori: «Sii più aggressivo | Sii più coinvolto (parla con le persone) | […] Non fare fotografie noiose | Non scattare troppo», annotava Tony Ray-Jones in una pagina di diario.
L’inizio della carriera di Meyerowitz è segnato dalla predominanza delle lezioni di Cartier-Bresson e Atget, alla cattura dell’istante e dal gusto per il particolare, cercando di evitare la folla per dedicarsi alla rappresentazione di singoli elementi mentre, quando accade, moltiplica il suo occhio su più livelli di attenzione che eliminano l’ossessione per la centralità dell’immagine: «All’inizio non avevo questa abitudine ad espandere ciò che si poteva vedere, registravo solo persone, o momenti, di qualcosa che semplicemente stava avvenendo. Questo mi ha dato modo di imparare, pensavo fosse necessario dare un centro alle fotografie ma dopo un po’ di tempo ho cominciato a credere abbastanza nelle mie capacità e nella mia esperienza e ho cominciato a capire che più cose, allo stesso tempo, possono avere un significato diverso. È stato un esperimento, come quello di dirsi ho più cose in testa in questo momento e voglio fare delle fotografie che possano rappresentare questo mio tipo di curiosità. Credo di poter dire in questo modo che la fotografia mi ha incoraggiato ad aprirmi e a vedere oltre, piuttosto di continuare ad accontentarmi di ciò che si vede immediatamente», ci racconta Meyerowitz stesso, nel cortile del palazzo del Mosto dove ha appena concluso una visita guidata per le giornate inaugurali di Fotografia Europea. All’inizio degli anni ’70, dopo aver alternato con il bianco e nero (anche per via di uno sviluppo più rapido del rullino da parte dei laboratori dell’epoca), adotta definitivamente il colore nel 1972, in concomitanza con gli esperimenti di Eggleston, altro erede di Frank. Le potenzialità di questa nuova tecnologia assorbono Meyerowitz e si uniscono alla sua street photography in una ricerca cromatica e su grande formato, cercando di allargare il proprio sguardo nel tentativo di raccogliere il maggior numero di elementi in un solo scatto. Il suo approccio cambia e, alle persone nelle città, si affiancano grandi distese naturali, diners sulla strada, spiagge e ritratti. È una ricerca parallela, una nuova consapevolezza dei propri mezzi e delle potenzialità del proprio sguardo. Il suo tratto lo avvicina a quello dei quadri di Hopper, nella definizione di un’idea, o un sentimento, del proprio paese in costante cambiamento e della malinconia che, spesso, lo avvolge.
IL CAVALLO BIANCO DI FRANCISCO FRANCO
Per molti aspetti la fotografia di Meyerowitz può essere considerata quella di un outsider, almeno visivamente. Nonostante viva le fasi concitate della rivoluzione possibile la sua ricerca si dedica alla rappresentazione di sottosignificati, spesso simbolici, della situazione e delle proteste. Si dedica più alla fissazione di certe trame, di insolite tensioni, piuttosto che alla documentazione dell’atto di rivolta, ricercando nel quotidiano di New York, dell’Italia, della Spagna di Francisco Franco, il sentimento del tempo: «La fotografia può essere vista come una raccolta di immagini, come una libreria lo è per i libri. Si può aprire un libro di storia degli anni ’60 e imparare tutto quello che dice, ma devi leggerne molti per avere un’idea generale di tutto quel periodo e delle sue questioni sociali, con le fotografie accade la stessa cosa. Quel cavallo che cade è solo un cavallo che cade e le persone che lo stanno guardando morire sono solo quelle persone che si trovavano lì a osservarlo in quel momento. Questa foto non dice nulla a proposito del regime franchista ma se viene guardata fra le centinaia di foto che costituiscono Out of Darkness, avrai una comprensione più precisa di ciò che significava. Ha questo titolo per una ragione precisa, ho visto la Spagna che stava davvero scivolando nelle tenebre e, mentre Franco invecchiava, riemergere verso un certo tipo di vita nuovo e questa foto rappresenta solo una parte di quella storia». Il simbolo si ritaglia la sua parte di fotografia, Meyerowitz si nasconde solo in parte dietro allo strumento per riportare le scene più intime e fedeli dei vicoli di Napoli, delle strade di Parigi e della Grecia, rappresentando fedelmente la parte silenziosa e timida mentre i primi cortei cominciano a sfilare al grido di Imagination au pouvoir.
Le scene che riporta Meyerowitz sono distanti dalla prima linea di Robert Capa, dalla Praga di Berry e la Parigi di Barbey, raccontano di un mondo che non c’è più, che ne è uscito inevitabilmente diverso, della sua tendenza a sopravvivere e mutare solo una superficie. Sono scene politiche anche quelle che rappresentano la tranquillità, il continuo scorrere del tempo mentre infuriano le proteste, imporre, in qualche modo, la propria visione ad anni di distanza. «È il percorso che fa ogni fotografo che registra i momenti in cui è in vita» ci spiega, «in qualsiasi modo un fotografo cominci è destinato a continuare e a lasciare dietro di sé numerose tracce. Le tracce sono sempre fotografie e, col passare del tempo, puoi cominciare a capire che niente ha più la stessa forma di prima, e le forme di cui si nutre la fotografia sono la curiosità e l’interesse, quando scompaiono il percorso del fotografo si interrompe, la registrazione si blocca. Ho lavorato tutto questo tempo, non sono mai stato un giornalista né un sociologo, sono solo un fotografo e il mio interesse si muove col tempo. Se sto vivendo al tempo della guerra del Vietnam è probabile che realizzi fotografie politiche, se sto vivendo al tempo di Ground Zero le mie immagini saranno legate all’undici settembre ma non saranno mai la descrizione completa di questi avvenimenti. Sono il mio punto di vista su ciò che mi interessa. Ho vissuto parecchie epoche di cui, apparentemente non ho fotografato nulla. Non ho immagini del Rock ‘n’ Roll o dei Beatles, ho le immagini di ciò che ha attirato la mia attenzione».
FUCK THE CENTER
La ricerca di un linguaggio personale ha rappresentato il percorso di tutta una vita per Meyerowitz e lo sfruttamento delle infinite possibilità del colore, rappresentato dagli sguardi di Cape Cod e i tessuti di luce che studia nella penisola a sud di Boston, ne sono una parte fondamentale. Sono il crogiolo in cui si condensano le esperienze street e quelle pittoriche, la vocazione a raccontare l’umano e la città, le ombre e la loro disposizione nell’ambiente. L’abbandono della figura centrale rientra in questa direzione, non c’è più necessità di seguire regole, di scrutare volti, se tutto ha un’anima da cristallizzare e da chiudere per sempre dentro un’immagine. Non è ricerca morbosa dell’eccessivo e del picaresco ma è la ricostruzione delle forme dell’essere, è documentazione dell’attimo, più che della storia, e dei suoi simboli immanenti, destinati altrimenti a scomparire nelle pieghe del tempo: «Il linguaggio personale è tutto. Senza di quello non puoi fare nessuna fotografia che abbia un significato, è ciò che ne definisce l’identità, dove trova un senso fra un’immagine e l’altra. Non penso sia possibile realizzare una fotografia totalmente oggettiva, solo un telecamera a circuito chiuso dell’ATM che registra ogni cosa che accade può farlo ma la fotografia necessita di scelte soggettive. Sei tu a decidere ciò che finisce nel frame ed è una decisione consapevole, perché il frame taglia fuori per sempre ciò che continua a scorrere nel mondo. Devi essere consapevole che c’è qualcosa in quello che stai facendo e che in quel frame ci sia abbastanza per darti il senso di quella necessaria e immediata connessione che stai provando».
Sin dall’esordio col bianco e nero, fino agli ultimi anni in cui si è dedicato allo still life ricostruendo nature morte vicine all’arte povera di Morandi e all’ultimo periodo di Cézanne, Meyerowitz ha coltivato un rapporto naturale e non ossessivo con la temporalità degli eventi, scatta ovunque, dal finestrino della macchina mentre un aereo atterra o dopo lunghe sessioni di organizzazione. Ha compreso l’importanza della fotografia come memoria, ma anche come percorso artistico di continua scoperta. Il simbolo ritorna, costantemente, nel cammino che ogni fotografo lascia alle sue spalle e diventa cifra stilistica e narrazione di uno sguardo, si riproduce sistematicamente e consente una più facile lettura anche dove, dall’altra parte, trova armonia nel caos e nel disequilibrio. La tecnica dei tre passi indietro di Robert Frank, di arretrare, cioè, prima di scattare per catturare quanto più possibile. Il visibile e l’invisibile, il distacco fra un immaginario e un altro, che ci spiega, con le sue parole delicate e accoglienti: «A un certo punto mi sono accorto che molte delle mie fotografie sembravano fatte dallo stesso punto, sugli stessi soggetti, ancora e ancora, e questo mi avrebbe potuto rendere come un collezionista di antichità che vive dentro al proprio museo pieni di oggetti. Ho sempre cercato un accordo con il tempo e le percezioni, queste due cose intangibili e sempre in continuo mutamento. Il tempo scorre, non si ferma e le nostre percezioni fanno di noi ciò che siamo. Mentre siamo seduti qui, io e te, stiamo guardando due cose diverse nello stesso momento. Io vedo questi due ragazzi che si baciano ma tu potresti concentrarti sul giallo dell’arcata, ed è quello che potrebbe catturare la tua attenzione, mentre io potrei essere interessato dal modo in cui si muovono i loro corpi. Questo è cercare di rendere conto al tempo e alle percezioni, in un modo che costantemente mi porta nuove riflessioni su ciò che significa la vita. Questa è la mia ricerca e finché sarò in grado di realizzare fotografie sempre più complesse ma che non sono organizzate attorno a un centro io sarò felice. Alcune persone potranno dire ‘Guarda queste foto, ci sono cose dappertutto, dov’è il centro?’ io continuerò a dirgli che si fotta il centro, amico, c’è tutto qui, il mondo non ha un centro, il mondo è dappertutto. Questo perché il modo in cui il mondo si spiega e ti istruisce è tutto ciò che ti serve per lavorare. A un certo punto capisci che quella è la tua strada, perché il modo che si ha di vedere le cose è tutto ciò che abbiamo ed è l’unico modo con cui farlo».
La mostra di Joel Meyerowitz è una fra le numerose esposizioni raccolte da Fotografia Europea 2018: RIVOLUZIONI. Ribellioni, cambiamenti, utopie a Reggio Emilia. Informazioni, date, aperture straordinarie e biglietti sul sito.