Joshua Radin: musica per serie televisive infrante

Joshua Radin - Live, Bologna

C’è un momento, in alcune puntate della vostra serie TV preferita, in cui tutto si ferma e rimane sospeso. Qualunque sia la vostra serie TV preferita, in ogni stagione, alla fine di un paio (a volte di più) di puntate, arriva quel momento. Non ci giurerei, ma probabilmente, a modo suo, arriva anche in Game of Thrones. È uno stratagemma narrativo abbastanza standard, niente di particolarmente creativo o geniale. Un momento necessario, di cui tutti hanno bisogno — lo spettatore, i personaggi, i più maliziosi aggiungerebbero anche lo sceneggiatore — per prendere un attimo fiato, raccogliersi in valutazioni inutili ma comunque buone per rallentare il battito e scendere per un istante dal frullatore degli eventi. Non ha niente a che vedere con il peso di una suspense, con quell’eccitazione angosciata che segue un colpo di scena o con l’ammiccamento paraculo di un mezzo spoiler accennato alla puntata successiva.

In genere si ritaglia il suo spazio subito dopo che è successo qualcosa di importante, non necessariamente inaspettato, ma che dà una svolta saliente alla storia, qualcosa su cui riflettere. È svelato con carrellate o zoom molto lenti, accompagnato da immagini che possono essere le più varie, ma che in qualche modo hanno tutto un retrogusto comune: quello di chi sta raccogliendo i cocci senza avere le istruzioni per ricomporli in qualcosa di sensato, facendo i conti con il passato per vedere cosa gli avanza per domani, cercando di capire cosa potrà potrà inventarsi di diverso la prossima volta già sapendo che in ogni caso the show must go on.

Una madre che rimbocca le coperte al figlio appena addormentato, un vecchio che guarda la propria capanna mentre finisce di bruciare nella notte, un ragazzo che piange in piedi sul marciapiede sotto la pioggia battente, un malato terminale che ansima dentro il respiratore steso sul letto di una clinica, un droide che lava i piatti incurante di pericoli reali come ruggine e cortocircuiti, un vichingo biondo e palestrato che accarezza con lo spadone un cucciolo di drago mentre nell’altra stanza sua sorella sta facendo sesso con suo padre avvolti nelle lenzuola zuppe del sangue di suo fratello. Il fratello e il padre del vichingo, dico. O forse del drago, non ricordo. Il tutto mentre sta arrivando l’inverno, s’intende.

Non parlo di quel momento che ti spinge a premere il tasto “watch next episode” con un gesto di streaming compulsivo, né di quello che ti manda a dormire con quella sensazione di incompiutezza che ti lascia il download illegale di un .mp4 ancora al 31%: parlo di quel momento in cui lasci scorrere il video e metti su a scaldare l’acqua per una tisana, mentre il divano fa fatica a ricomporsi dalla forma del tuo peso. Non ci sono mai dialoghi, in quel momento lì, né rumori di fondo o effetti sonori: solo una bella musica che scorre innocua insieme al flusso di frame. Di quelle musiche un po’ così, tristi ma non da tagliarsi le vene, che tengono un basso profilo ma lavorano lo stesso sotto pelle. Perchè domani è comunque un altro giorno, e la speranza è sempre l’ultima a morire, anche in MI minore.

Ecco, forse non lo sapete, ma in quel preciso momento di bonaccia di quella puntata chiave della vostra serie TV preferita, la canzone che state ascoltando in sottofondo, che così ben si adagia su quell’atmosfera precaria da bilancio irrisorio di fine giornata, è un pezzo di Joshua Radin.

È proprio vero: non sai mai cosa si nasconde in tasca la vita per cambiarti le carte in tavola senza preavviso. Un giorno sei lì vagamente scazzato a fare la fame servendo ai tavoli di un diner e il giorno successivo l’unica canzone che hai mai composto — che, per la precisione, hai composto ieri, dopo aver imparato a suonare la chitarra ieri l’altro — va in onda sulla TV nazionale in sottofondo a un episodio che conta tredici milioni di spettatori seduti nei salotti d’America. Un anno arrivi a Natale disperato senza sapere cosa regalare al tuo conto in banca e l’anno seguente le uniche dieci canzoni che hai mai scritto vanno a formare il tuo primo album, fanno il record di acquisti su iTunes, e nel giro di pochi mesi saranno tutte — tutte e dieci — selezionate per qualche show televisivo non propriamente di nicchia: Scrubs, Grey’s Anatomy, Brothers and Sisters, American Idol, Cougar Town, One Tree Hill, House M.D. and so on.

Certo, avere come migliore amico Zach Braff e come principale sponsor Ellen DeGeneres aiuta non poco, ma Joshua Radin è uno dei pochi casi di raccomandato illustre che ha dimostrato di meritarsi l’opportunità che si è trovato in mano e, soprattutto, bisogna ammettere che un pezzo come Winter non poteva morire dimenticato in un ipotetico cassetto.

L’inverno a Bologna è arrivato sul serio, improvviso, tagliente e probabilmente anche con qualche settimana di anticipo sulle previsioni del Centro Epson per il meteo, ma anche della Casa di Stark: fuori fa un freddo porco, la neve abbondante caduta ieri non è ancora riuscita a sciogliersi del tutto e la scelta del giorno che statisticamente è noto come quello che vanta il maggior numero di suicidi in Europa (un generico martedì di metà Novembre) non favorisce certo l’affluenza a un concerto in cui un ottimo esercizio per scaldarsi come il pogo non sarà verosimilmente, diciamo, una priorità.

D’altro canto è la serata perfetta per un ritrovo intimo davanti a un caminetto immaginario in cui bruciare fino alla brace piccole canzoni suonate a mani nude, per scaldare fino allo scioglimento i cuori dei presenti, che infatti riempiono comunque una buona metà della sala del Locomotiv Club.

Non ho mai capito se c’è una direttiva ufficiale o un qualche accordo non scritto ma comunemente rispettato secondo il quale gli spettatori scelgono in che modo assistere a un live. Nel senso: empiricamente — analizzando i dati raccolti in più di venti anni di concerti dalla parte sbagliata del palco — potrei estrarre una regola approssimativa che raccolga il tutto all’interno di due estremi che vanno da “concerto acustico invernale > seduti a distanza di sicurezza gli uni dagli altri con cappotto addosso e berretto in testa” a “concerto metal estivo > in piedi a torso nudo affollati come sardine nella famosa confezione di latta, regola che però andrebbe in crisi al primo unplugged primaverile degli Iron Maiden, a godersi il quale mi immaginerei — sulla base di quanto appena detto — stuoli di capelloni seduti uno in braccio all’altro vestiti secondo un dress-code del tipo “sotto il piumino niente”.

Rimango quindi con i miei dubbi al riguardo e mi limito a prendere atto che al Locomotiv sono tutti accovacciati sul pavimento, se si escludono i pochi fortunati che si sono accaparrati gli sgabelli e i tavolini lungo le passerelle laterali. Radin stesso fa un paio di battute al riguardo, indicando con un movimento del braccio questa specie di accampamento attorno al falò di una spiaggia durante la notte di San Lorenzo: “Aren’t you asleep yet? You should: it’s a lot of lullabies.”

Ed è vero: la maggior parte di quello che ci aspetta sarà una serie di soffici, cadenzate ninna-nanne sussurrate che qualcuno ha addirittura suggerito si meritino l’onore di un genere musicale dedicato, ribattezzato — non a caso — whisper rock. Quello che sicuramente non si meriterebbero è che qualcuno si addormentasse a metà set — cosa che, per la cronaca, non accade — perchè in quel caso, oltre che un bel pezzo di un concerto piacevolissimo, dimostrerebbe di aver mancato il punto focale della questione: l’approccio armonicamente fragile con cui si presenta al pubblico è l’unico distillato possibile delle emozioni che il folk-singer americano spera di riuscire a comunicare. Amore, prevalentemente. Ma anche la mancanza, dell’amore. Spesso il perdere, l’amore.

Come Massimo Ranieri, ma più sommesso, senza melodramma e con meno vene sul punto di esplodere lungo il collo cianotico.

C’è un antico detto che gira nei peggiori bar di Shaker Heights, Ohio: se ti ritrovi a un concerto di Joshua Radin sicuramente c’è di mezzo una ragazza. Credo voglia riassumere — con la semplicità riduttiva ma mai infondata che caratterizza la saggezza popolare — i due clichè principali per cui il maschio americano medio si pensa possa finire ad ascoltare dal vivo pezzi tipo I’d Rather Be with You: il primo è che l’abbia obbligato la fidanzata (diciamo il caso che va sotto la categoria “certo che ti accompagno a fare shopping, non mi annoia assolutamente!”), il secondo è ci abbia portato quella che vorrebbe diventasse la sua fidanzata (il classico “sali a vedere la mia collezione di concerti di Joshua Radin?”). Posso dire che non sempre è così — e ne sono la testimonianza io stesso: sono da solo, e non mi sto annoiando assolutamente — ma in effetti, guardandomi intorno confermo che anche in Italia la presenza femminile batte quella maschile e soprattutto che la suddivisione a gruppi di due — tu chiamale, se vuoi, coppiette — è decisamente preponderante.

Un paio di queste sono sedute, abbracciate, proprio sul bordo del palco, una a destra e una a sinistra del microfono centrale, come fossero due entità singole invece che quattro cuori separati, finite lì a svettare in mezzo al resto degli spettatori per un bisogno di simmetria sentimentale degno di un’inquadratura di Wes Anderson. Una delle due — si scoprirà in seguito — è non solo americana (carramba!), ma addirittura in viaggio di nozze: sposini alle prese con una luna di miele transoceanica da Cleveland alle pendici inaspettatamente infreddolite dell’Appennino tosco-emiliano, a riprova del fatto che le vie dell’amore — in termini di infinità numerabile — non sono da meno di quelle del Signore e stasera son pure tutte magicamente confluite in una sola: Via Sebastiano Serlio, civico 25/2, ingresso riservato ai soli soci AICS.

Vie dell’amore che Cary Brothers — colui che apre le (si fa per dire) danze — prova subito a chiudere al traffico esordendo con un inequivocabile “How many guys are here ‘cause your girlfriend made you come?”, prima di aggiungere, per stemperare la tensione che aleggia tra le risate nervose del pubblico maschile: “Good for you.” Forse per pareggiare il conto, si prende gioco non solo degli astanti, ma, autoironicamente, anche del suo stesso nome, confessando la propria frustrazione per essere costantemente considerato il membro più egocentrico di una fantomatica band chiamata The Cary Brothers (“Most people think I’m a bunch of dudes…”) e poi parte con il suo set.

Cary è andato al college insieme a Josh, e a sentirlo direi che hanno frequentato proprio gli stessi corsi, visto che la sua musica riflette il medesimo mood di quella di Radin: dolci ballate acustiche per sola voce e chitarra, complicate — a livello di sobrietà — da un bicchiere di whisky, mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda dei momenti, ma sempre a portata di mano. L’introduzione perfetta per entrare nel mood della serata insomma, a patto di non soffermarsi nemmeno per un attimo a valutare quanto sia surreale, in un’atmosfera del genere — rilassata, familiare, da coccole davanti alla stufa a pellet — ritrovarsi ad ascoltare una canzone che ha all’attivo, nel suo curriculum, un remix di Tiësto.

In inglese — è sempre importante ricordarsi di santificare la meravigliosa capacità che ha quella lingua di chiamare le cose letteralmente per nome — c’è un’espressione ben precisa per indicare gli ultimi arrivati. Soprattutto gli ultimi arrivati in senso metaforico, non solo fisicamente in un posto preciso, ma anche quelli che si sono appena avvicinati a un particolare argomento di studio o sfera di attività: “Johnny-come-lately”.

Joshua Radin è il johnny-come-lately del songwriting. Di più: è la dimostrazione vivente che non è mai troppo tardi per avvicinarsi alla musica, se hai sul serio qualcosa da dire. Josh (chiamatelo pure Johnny quindi, da ora in poi) ha 44 anni e sette dischi di inediti in saccoccia, ma ha preso in mano una chitarra acustica poco più di dieci anni fa. No, non è un errore di battitura, Radin ha iniziato a strimpellare qualcosa quando aveva già scollinato la cima dei trent’anni, senza grosse pretese, fondamentalmente come passatempo da elevare allo status di terapia, dopo essere stato scaricato senza troppi complimenti dalla sua ragazza dell’epoca. Non ne fa mistero (“I wrote six albums about that break-up… actually, seven.”), ed è bello. Questo implica necessariamente che le sue canzoni abbiano ben più del dovuto a che fare con qualunque cosa vogliate chiamare tristezza, ma il lato sorprendente è che tutto ciò non esclude affatto che riescano ad avere dentro una specie — se non proprio di positività — di speranza, almeno. Vederlo dal vivo ti lascia in qualche modo contemporaneamente felice e malinconico, in pace con te stesso e rammaricato per tutto quello che nella tua vita non è stato. È una specie di dono, quello che ha, che credo derivi fondamentalmente dal fatto che dà l’impressione di essere uno che non ha mai provato ad essere nient’altro che sé stesso: non c’è nulla di artefatto o esibito nel suo show, a parte i suoi sentimenti. Nessun fashion styling calcolato o scenografia ad hoc: soltanto un tizio in jeans e maglietta con la sua chitarra, messo in mezzo a un palco comunque troppo grande (qualunque siano le dimensioni del palco) sotto una pioggia di luci rosse.

Come un Nino D’Angelo perso nella stanza finale di Twin Peaks, ma senza caschetto biondo nè nani che ballano. E una scrittura di un altro livello, ovviamente.

A volte sale a dargli una mano — o meglio un’altra chitarra acustica, o una classica, o un ukulele, o una pedal-steel guitar — Brandon Walters, ma per lo più è una questione tra Joshua e la sua passione dichiarata per la melodia, per quelle beautiful scars che tutti ci portiamo addosso senza andarne troppo orgogliosi, per le storie sincere a tema “me & you”, le storie strappalacrime a tema “me vs. you” e la disarmante intimità one-to-one che genera la sua voce, anche se intorno a te ci sono un altro centinaio di persone.

In una setlist quasi completamente improvvisata, che svaria senza un criterio preciso — se non il suo gusto del momento — dal primo album We Are Here del 2006 al recentissimo The Fall, tra un pezzo e l’altro, non manca di giocare con le sue doti di intrattenitore: si prende in giro (“You know me from shows about doctors, where my songs are playing while the patient dies on the operating table…”), scherza con le prime file, suona canzoni a richiesta senza rifiutare mai nemmeno un suggerimento, quasi fosse un juke-box in carne e ossa.

Verso la fine riesce addirittura a convincere il pubblico ad alzarsi in piedi, per un paio di episodi leggermente più upbeat — che comunque, va detto a onor del vero, si fanno apprezzare e puntualmente costellano la melancholia strisciante che attraversa tutta la sua discografia — colonna sonora che calza a pennello per accompagnare quel frangente che raramente ogni concerto acustico si fa mancare, quel rito sociale in cui tutti battono le mani più o meno a tempo e cantano il ritornello tutti insieme (oppure fingono di muovere le labbra a caso in playback se non sanno il testo — true story), prima di tornare sul palco a regalare un unico, singolo bis durante il quale richiama accanto a sé sia Brendon che Cary, per una versione molto singalong di quella che confesserà essere: “the first song I learned to play on guitar.”

Se volete, potete provare a indovinare di quale canzone si tratta.
Solo un suggerimento, a costo di ripetermi: l’inverno è arrivato, fuori fa un freddo porco e quindi no, non è La Canzone del Sole.


Foto di Alise Blandini

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