Ma non sono mai riuscito a capire fino in fondo perché ricadesse ogni volta in qualcosa che temeva e detestava tanto come l’eroina, a meno che, nel suo terror panico di essere abbandonata, o di non essere abbastanza amata, non avesse bisogno di verificare continuamente fin dove, in fondo a quale abisso, l’uomo che amava sarebbe venuto a riprenderla.
La casa editrice Quodlibet ha pubblicato solo poche settimane fa – per la prima volta tradotto in italiano – Joséphine dello scrittore francese Jean Rolin.
L’unico altro libro di Rolin pubblicato in Italia è Il recinto, uscito per Barbès nel 2008, eppure Jean Rolin è molto amato, nonché premiato in Francia. Nato il 14 giugno 1949 a Boulogne-Billancourt, nell’Île-de-France e cresciuto tra la Bretagna, il Congo e il Senegal, Rolin è viaggiatore, giornalista e scrittore. Ha firmato importanti reportage per Libération, Le Figaro, Le Monde e altri giornali. È autore di diari di viaggio, ricordi, romanzi e racconti. Ha ricevuto nel 1989 il premio Albert Londres per La ligne de front – reportage in Africa meridionale, da Dar es Salam a Città del Capo, attraverso i paesi uniti, almeno in teoria, dall’opposizione al regime dell’apartheid, tra rivoluzionari allo stremo delle forze e prostitute semi divine a Durban – e nel 1996 il Prix Médicis per il romanzo L’Organisation nel quale Rolin racconta venticinque anni della sua vita in un movimento maoista e nella Gauche prolétarienne.
Joséphine è diverso da tutto questo: gli spazi immensi, i grandi viaggi, le ampie ellissi della storia lasciano il campo – in un libriccino esile (96 pagine con la traduzione di Martina Cardelli) – al racconto per frammenti della storia d’amore con Joséphine, al fianco dello scrittore, negli ultimi anni due anni e mezzo della sua breve esistenza.
È in queste circostanze che mi sgretolo in mille pezzi, e quel poco di coerenza di cui credevo di disporre si scioglie in tutte le direzioni. E allora ho davvero bisogno di morire, almeno per qualche istante.
È difficile trovare una definizione per Joséphine: lettera d’addio, memoir di una storia d’amore, chanson mélancolique, tentativo ultimo di ricordare e di eternare nella memoria personale e collettiva la donna amata, ricordo in forma di elegia. Joséphine di Jean Rolin è tutto questo: l’acquerello che prova a restituire non la vita, ma quel soffio unico che animava l’anima di Joséphine, nata il 21 agosto 1961 a Désertine, nell’Allier, e morta – di overdose – nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1993 presso la sua abitazione in Rue Saint-Sauveur, a Parigi.
Nel leggerlo oggi, non va dimenticato nemmeno per un attimo che Jean Rolin lo scrisse nei mesi immediatamente successivi alla morte della sua amata – in Francia uscirà nel 1994 – dentro quel dolore, immerso nella sua assenza. È da qui che sembra nascere una scrittura capace di apparire quasi fredda e cronachistica in alcuni passaggi ma capace di far avvertire il tentativo estremo – e letterario, molto prima che narrativo – di controllare la possibilità sotterranea del deragliamento e dell’esplosione. È come se in Joséphine si avvertisse, costante, la tensione di una frattura, la scissione tra l’attento osservatore dei fenomeni del mondo e l’uomo rimasto solo davanti al mistero della morte. La stessa tensione che trasforma le parole che sorreggono Joséphine in un orizzonte irrequieto e plumbeo come un cavo scosso dalla stessa elettricità cui fa da conduttore per sbattere e agitarsi su un pavimento bagnato fino a restare lì informe ed esausto.
In seguito, pensando forse che le stesse cause avrebbero prodotto gli stessi effetti, e sperando che mettendoci nuovamente in quelle condizioni avremmo provato la stessa miracolosa sensazione di benessere, nei nostri successivi viaggi a La Rochelle tornammo più volte al faro delle Balene, senza mai ritrovare la perfezione di quella notte.
Joséphine è intrinsecamente francese; senza alcun bisogno di artificio ma semplicemente con la forza del ricordo e della re-immaginazione, Jean Rolin ci conduce in un viaggio fatto di polaroid, di frammenti, di pagine ancora vivide di una storia spezzata, all’interno di caffè parigini, facendoci accomodare con i due amanti su divanetti logori di uno scompartimento ferroviario, in camere d’albergo, mentre cenano, lasciandosi seguire in una geografia che fa da sfondo alle vicende – La Rochelle, Dinard, Saint-Martin-de-Ré, Parigi, Vans, Meudon per visitare la casa di Céline, Arles, Fos, Beauduc, Saint- Nazaire, il porto di La Pallice. Rievocazione di momenti meravigliosi e irripetibili e di dolorosi strappi nati, spesso, da fraintendimenti, irricucibili.
La rivedo con quel pigiama blu a pois bianchi che aveva comprato a gennaio o febbraio 1993 e nel quale l’hanno trovata morta, la rivedo mentre si toglie l’anello d’oro del matrimonio con F. – a cui teneva quanto alla finta catenina Hermés che le avevo comprato in un suk del Cairo, o forse di più – prima di spalmarsi sulle mani la crema idratante, come fece a quanto pare la notte tra il 25 e il 26 marzo, la rivedo, con le labbra increspate e il naso appuntito che quasi tocca lo specchio, mentre si lava accuratamente i denti con un dentifricio rosa che ha la particolarità di farne risaltare la bianchezza.
Joséphine ha la potenza del ricordo, di un amore che, nell’ora più buia, come ultimo possibile abbraccio, prova a disegnarne i tratti più dolci e infantili.
In un passaggio Rolin la ricorda così: «Non ballava come una nottambula ma come una bambina. Più esattamente come balla una bambina alla fine di un matrimonio dopo che gli adulti hanno abbandonato la sala, sola, nella semioscurità, per sé stessa e non per essere guardata».
La leggerezza di Joséphine è un tema che ritorna costante nel libro che diventa a poco a poco l’antitesi di un’autopsia: il suo corpo non appare quasi mai, soprattutto nel gelo della morte. Al contrario, dentro una vita condotta sul filo sottilissimo di un’ossessione come una punizione, di un vuoto e di una tossicomania senza via di uscita, Joséphine si mostra come il tentativo di far restare di lei la leggerezza di bambina, il passo svelto, la risata, le vanità come il ricorso continuo a creme di bellezze e la fragilità di ragazza. Di restituirle – come in un incanto letterario – una possibile felicità che non ha mai conosciuto: «Credo di non averla mai vista tanto bella e struggente, così leggera e quasi imbarazzata da tanta leggerezza come se persino quella leggerezza fosse pesante da portare».
Quello tra Jean e Joséphine è stato, d’altro canto la quintessenza dell’amor fou, un precipitare dell’uno nelle paure dell’altro, nelle reciproche debolezze, eppure è amore anche questo, un amore che non sa dirsi o che, come sempre accade, sa dirsi troppo tardi – «disfatto, disperso, strappato [che] mai più avrebbe potuto ricomporsi».
Al caffè della Grand Rive, dove prima ancora di cenare avevamo bevuto entrambi eccessivamente, iniziai a raccontare a Joséphine la storia di mio padre, lei mi interruppe, o forse mi diede l’impressione di pensare ad altro, io mi offesi, e ne derivò uno di quei litigi nei quali, soprattutto per colpa mia, abbiamo perso tanto di quel tempo.
Jean Rolin fa i conti con sé stesso, coi propri limiti, con le proprie – eventuali – responsabilità. Su un quaderno nero che lui troverà dopo la sua morte, Joséphine aveva annotato, una sera: «chissà cosa aspetta a venire qui a baciarmi, per quale motivo l’orgoglio che genera sofferenza prevale sull’umiltà che potrebbe rasserenare».
È un libro confessione che, in maniera implicita, disegna una parabola, un arco che si tende da un diario non letto e si conclude con una lettera che non potrà mai essere aperta: due estremi in cui il linguaggio prova a marcare il solo territorio possibile di un amore che, in mezzo, è stato soprattutto silenzio e incomprensione.
Non so, in realtà, per quale motivo io stia trascrivendo queste frasi, convinto come sono che nessuno potrà mai capire quanto per me siano laceranti. E le trascrivo, nonostante tutto, come se chi non l’ha mai conosciuta, chi non l’ha perduta, potesse, leggendole, innamorarsi perdutamente di Joséphine al punto di voler, come lei, «dimenticare di esistere».
Ecco che Joséphine è anche questo, rievocazione lucida e piena di passione a un tempo che mette in scena ancora una volta il mito amaro di Orfeo. Nel suo valore di evocazione, prima ancora che di testimonianza, Rolin riesce, in fondo, in un intento dichiarato: fare conoscere la donna che ha amato a chi mai l’ha conosciuta.
E ci riesce perché è difficile non sentirla Josephine, con «quel modo che aveva di affrontare l’esistenza, insieme patetico e noncurante, la sua completa assenza di pose, di calcolo» ignorando anche quel che di pochissimo emerge dalla sua biografia. Ecco allora che, nel libro, F. – la cui morte sconvolgerà l’esistenza di Josephine in un’ultima coda di sensi di colpa e dolore – è lo psicanalista, filosofo e semiologo Félix Guattari, di cui la ragazza era stata fino a qualche anno prima la moglie (Guattari muore il 29 agosto 1992). Di lei non ci sono che poche tracce, un video su youtube che la mostra nella sua bellezza elegante e laterale e un paio di fotografie.
Joséphine restituisce, intatto, il grande incantesimo della letteratura che è quello di dare vita; a personaggi immaginari, certo, ma anche, come in questo caso di restituire vita a chi vita non ha più. Pagine che riportano all’amante Jean la sua donna, i momenti vissuti insieme, quasi a voler ricondurre un battello ebbro al porto calmo e rassicurante di un amore che non può fare più male. Nelle pagine che compongono questo delicato ed estremo omaggio sembra quasi che Rolin – e noi con lui – provi a rispondere alla sola domanda “Cos’è l’amore?” La risposta, va da sé, la troverà nelle pagine di un quadernino blu – la cui copertina aveva incollate due decalcomanie – alla data di martedì 28 aprile 1992, Joséphine aveva scritto: «È la possibilità di dissimularsi in un altro, di dimenticare di esistere».