È vero che questa esperienza mi appartiene. Altri – Primo Levi, per esempio (eminente esempio: la sua opera è realmente prodigiosa per la veridicità che porta con sé, la sua lucida compassione – non sarebbero tornati alla vita se non per mezzo della scrittura, e solo grazie a lei. Nel mio caso, invece, ogni pagina scritta, strappata dalla sofferenza, mi faceva sprofondare in un ricordo irrimediabile e mortifero, mi asfissiava nell’angoscia del passato. Dovevo scegliere tra la scrittura e la vita e ho scelto la vita. Ma scegliendola ho dovuto abbandonare il progetto che ai miei occhi dava senso alla mia vita, quello di diventare scrittore. Un progetto che aveva, quasi dall’infanzia, strutturato la mia identità più autentica. Ho dovuto decidere di essere un altro, e non me stesso, per continuare a essere qualche cosa: qualcuno. Poiché mi era impensabile di scrivere qualsiasi altra cosa, quando ho abbandonato il tentativo di rendere conto, letteralmente, all’esperienza di Buchenwald. (J. Semprùn, Mal et modernité, p. 71)
Per qualche malsana ragione, siamo sempre finiti a pensare alla scrittura come una valvola di sfogo, capace di espellere i peggiori incubi dalla mente di chi si ritrova davanti a un foglio. Forse perché da un certo punto di vista memorialistico, da quando tenevamo il diario delle nostre giovanili disavventure, il legame sofferenza e scrittura veniva a saldarsi in maniera così forte da potersi estendere anche alle esistenze degli altri, così che quell’idea potesse sussistere per gran parte delle nostre vite. Ma questo rapporto non è quasi mai un’equazione stabile e verificata. Certamente sono stati tanti gli esempi in cui la scrittura è stata utilizzata come terapia, auto-somministrata con paziente e scrupolosa diligenza, rivelandosi in alcuni casi in maniera anche controproducente. Si tratta di un aspetto non minoritario, ma parte di così tante variabili che definirla come semplice espressione di uno sfogo interiore significherebbe, in gran parte, svalutarla. Primo Levi, al ritorno da Auschwitz, riflettendo su come un’esperienza così dolorosa potesse essere raccontata non aveva esitato un secondo a dirigersi sul romanzo, piuttosto che a un’opera di saggistica, questo perché solo attraverso la letteratura le persone avrebbero potuto comprendere meglio. Non si trattava soltanto di un intento didattico, ovviamente, e il dolore che l’avrebbe portato a gettarsi dalle scale era senz’altro stato la benzina che lo aveva portato a scrivere in pochi mesi la prima stesura di Se questo è un uomo, che sarà rifiutato da Einaudi e poi inserito, non a caso, solo nel 1958 all’interno della collana dei saggi.
L’undici aprile 1987 la morte aveva raggiunto Primo Levi. Perché, quarant’anni dopo, i suoi ricordi aveva smesso di essere una ricchezza? Perché aveva perduto la pace che la scrittura sembrava avergli dato? Che cos’era accaduto nella sua memoria, quale cataclisma, quel sabato? Perché gli era diventato improvvisamente impossibile accettare l’atrocità dei suoi ricordi? Un’ultima volta, senza soccorso nè rimedio, l’angoscia si era imposta, tutto qui. Senza possibilità di schivarla né di avere speranza. L’angoscia di cui ne descriveva i sintomi nelle ultime righe de La Tregua: «Nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza o inganno dei sensi, sogno…» Nulla era vero fuori dal campo, molto semplicemente. Il resto non è stato che una breve vacanza, illusione dei sensi, sogno incerto: ecco tutto. (J. Semprùn, L’Écriture ou la vie, p. 287)
Quel sabato la notizia della morte di Levi aveva raggiunto anche Jorge Semprùn. Le loro esperienze erano state diverse, Buchenwald non era Auschwitz, ma l’odore del forno crematorio continuerà a invadere i sogni dello scrittore senza patria per tutta la vita. Innescato da quella notizia scriverà le pagine più dense della sua produzione, frutto di riflessioni di un’intera esistenza, che saranno raccolte insieme in La scrittura o la vita, autobiografia di vita e di morte, pubblicata solo nel 1994, cinquant’anni dopo la liberazione del campo sulle colline di Weimar. Quella di Semprùn non sarà mai una narrazione unitaria, fatta di flashback e salti temporali, sottili collegamenti fra l’esperienza presente e passata, dentro e fuori la guerra, un continuo rincorrersi di incubi che, per ammissione dell’autore stesso, se fossero state scritte prima lo avrebbero portato alla morte. È proprio questa caratteristica a eliminare dalla sua opera l’aspetto memorialistico o di sfogo, a rendere la scrittura una questione decisiva sulla propria esistenza, e da cui Levi stesso era stato sconfitto. Nonostante questo, nonostante fosse il male subito e vissuto a costituire il nucleo dell’ispirazione, il risultato finale è più di una testimonianza, si tratta di far provare a chi non c’era quanto l’uomo può essere spietato con i suoi simili. Perché la scrittura deve essere, soprattutto, un aiuto per gli altri, un modo per far comprendere che la propria solitudine non è davvero così unica e invincibile. Triste destino di chi, dalla propria, non può uscirne ed è quasi chiamato a farsene carico, dono dei cuori più grandi. In un modo simile, questo dolore del ricordo, è centrale anche nel Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut. Anche lui riuscirà a parlare del bombardamento di Dresda solo venticinque anni più tardi, ancora una volta utilizzando una narrazione inusuale e fantascientifica (come sarà il caso dei viaggi nel tempo di Billy Pilgrim). Sarebbe controproducente, in questi casi, una solitaria espressione del dolore puro e semplice, allontanando i destinatari che si vogliono raggiungere. É una delle capacità della letteratura, partire da un dolore inestimabile per stravolgerlo e diluirlo in forme dirette al coinvolgimento delle parti più profonde del lettore, così da rendere l’esperienza realmente condivisa.
Non è un caso che uno degli incubi ricorrenti dei sopravvissuti ai Lager nazifascisti fosse quello di non venire compresi. Che quanto vissuto potesse non essere considerato credibile, tanto non era assimilabile all’esperienza di chi non l’aveva mai passato. Per questo la letteratura diventa fondamentale, soprattutto per uno scrittore come Semprùn, mezzo per trasportare il disagio in una dimensione comprensibile. Il rapporto che instaura con la scrittura, questo demone che può in ogni momento decidere di affossarlo per sempre, è anche uno dei residui del progetto originario dell’Endlösung nazifascista, costringere al silenzio le proprie vittime, eliminarne la parte più umana, quella del linguaggio e della coscienza. Per questo Semprùn davanti all’impossibilità di scrivere della propria esperienza come vorrebbe si dedicherà all’attivismo politico all’interno del partito comunista spagnolo, ancora sotto la dittatura di Franco, fino a venirne espulso per le divergenze sulla questione dei Gulag russi (In Italia, per lo stesso motivo, verrà tradotto solo a partire dal 1996 e nemmeno completamente).
C’è questo e tanto altro nella vita di Jorge Semprùn, come in quella di Primo Levi, e che trascendono quasi completamente dall’esperienza che hanno vissuto. C’è questo rapporto con la scrittura, che a tratti salva e molto più spesso ti distrugge, a trascendere la tesi dello sfogo. Perché quando uno scrittore parla di dolore, e molto spesso accade, fa molto più male scriverlo che tenerselo dentro. Ma se c’è qualcosa che ci può salvare dal buio di quelle stanze è proprio la scrittura, statua bifronte che si guarda sempre dentro.
Alla fine dei conti la mia patria non è la lingua, né il francese, né lo spagnolo, la mia patria è il linguaggio. Cioè uno spazio di comuinicazione sociale, di invenzione linguistica: una possibilità di rappresentazione dell’universo. Di modificarlo anche, attraverso le opere di linguaggio. (J. Semprùn, Mal et Modernité, p. 77)