Uscito il 14 gennaio per la Nonesuch Records, Phantom Thread è il disco che raccoglie l’ennesima collaborazione tra il compositore e polistrumentista dei Radiohead e l’acclamato regista della San Fernando Valley, Paul Thomas Anderson. Fin dall’esordio solista del 2003 con Bodysong, Greenwood ha scelto il mondo delle musiche per film come ambito ideale per la propria ricerca personale al di fuori dei Radiohead. Bodysong arrivava al culmine di un percorso artistico che lo aveva portato dal ruolo quasi marginale di ultimo entrato nella band a quello di vero e proprio leader capace di stravolgere (con la complicità di Thom Yorke) la natura stessa del gruppo, traghettandone i suoni dalla furia chitarristica della terza parte di Paranoid Android verso le sperimentazioni di Kid A e Amnesiac in una rivoluzione che col tempo si sarebbe dimostrata capace di cambiare la traiettoria di tutta la musica leggera contemporanea.
Fin dall’adolescenza, oltre all’amore per la musica leggera, Jonny Greenwood ha sempre coltivato interessi musicali di ampissimo raggio, capaci di abbracciare oltre al rock, il jazz (soprattutto nella sua declinazione free i cui echi si faranno sentire nei fiati di The National Anthem), la musica popolare (da cui il bellissimo Junun del 2015) e, cosa infrequente per un musicista leggero, per la musica colta soprattutto contemporanea, esprimendo negli anni una forma quasi di venerazione per il francese Olivier Messiaen (da cui erediterà la passione per l’Onde Martenot) e il compositore polacco post serialista Krzysztof Penderecki.
Saranno soprattutto le influenze colte a rendere There Will Be Blood, colonna sonora voluta proprio da P.T. Anderson (che era rimasto colpito dal lavoro fatto per Bodysong) una tra le più apprezzate e importanti degli ultimi anni e della storia del genere. A There will be blood avrebbero fatto seguito quelle per The Master e lo psichedelico Inherent Vice di cui Greenwood avrebbe selezionato anche i brani non originali (sui quali spiccava la lisergica Vitamin C dei Can, band i cui brani avrebbe inserito anche nella soundtrack di Norwegian Wood tradendo un amore incondizionato per il krautrock). Oggi il legame tra musicista e regista è talmente forte che sarebbe quasi impensabile un film di P.T. Anderson senza Greenwood (un legame che si è allargato anche ai videoclip dei Radiohead come il bellissimo Daydreaming e al primo documentario di Anderson sulle session di registrazione di Junun).
Anche Phantom Thread, come le precedenti collaborazioni con Anderson, non può certo essere definita semplicemente come la raccolta delle musiche che accompagnano il film omonimo; rappresenta piuttosto l’architettura musicale su cui P. T. Anderson (regista da sempre attento al rapporto con la musica dei suoi film, basti pensare alla sequenza in Magnolia in cui i protagonisti cantano Wise Up di Aimee Mann) ha costruito il suo ultimo film, ambientato per la prima volta in Inghilterra e che racconta del rapporto d’amore e manipolazione tra un sarto dell’alta moda londinese degli anni cinquanta (ultima interpretazione dell’immenso Daniel Day-Lewis) e la sua musa ispiratrice, cameriera in un ristorante (Vicky Krieps).
La classicità di Phantom Thread si riflette in maniera consequenziale nella stessa colonna sonora. È, non a caso, il lavoro meno sperimentale di Greenwood che sembra mettere momentaneamente da parte quell’onnivoria stilistica che lo contraddistingue, per concentrasi maggiormente sulla composizione strumentale di stampo più classico, forte anche della possibilità di lavorare con due orchestre (la Royal Philarmonic Orchestra e la London Contemporary Orchestra) di oltre sessanta elementi capaci di esaltare le sue straordinarie qualità di composizione orchestrale (emerse, del resto anche nella suite da There Will Be Blood pubblicata per la Deutsche Grammophon in un disco in coabitazione con l’altro musicista colto della scena rock, Bryce Dessner dei The National).
Phantom Thread è un disco che ha qualità di composizione ed esecuzione tali da scomodare i grandissimi nomi delle musiche per film e riesce a stare in piedi da solo ma, allo stesso tempo, e ancor più che nei suoi lavori precedenti, si avverte in maniera chiara, all’interno della tracklist e nell’ora scarsa che la compone, un filo narrativo, un’evoluzione di atmosfere e temi che la rendono immediatamente evocativa d’immagini, di storie e di luoghi che si materializzeranno tra un mese sul grande schermo (quando uscirà nelle sale italiane, il 22 febbraio, con il titolo de Il Filo Nascosto).
Phantom Thread è anche il titolo del tema principale che attraversa il disco (e il film, naturalmente) in quattro versioni differenti, fino a svolgere quasi il ruolo di trama sotterranea, di filo nascosto, appunto, che Greenwood, memore della lezione del leitmotiv ottocentesco, percorre dedicandosi quasi a un esercizio di stile. Se la prima versione, posta in apertura è un’aria sospesa grazie a bordoni di violini in un’atmosfera tardo romantica e wagneriana, nella seconda Greenwood imbastisce quasi una variazione, per piano e violino, che richiama nel modo di suonare chiaramente poco legato le Variazioni Goldberg di Glenn Gould del 1955, ispirazione dichiarata per la nuova soundtrack e che, dall’ingresso del violino, si scioglie in una melodia corposa da sonata del periodo romantico. Phantom Thread III è, invece, un omaggio alla Sarabande di Händel che apre il Barry Lyndon di Kubrick con il suo incedere marziale e tragico e l’uso massiccio delle percussioni. Phantom Thread IV, infine, è un brano squisitamente bachiano, ispirato, come sembra, al ciclo di sonate e partite del compositore tedesco.
Non tutto però il lavoro è orchestrale, oltre a Phantom Thread II per solo violino e piano, la bellissima The Hem che accompagna il trailer è scritta per quartetto d’archi con il piano a disegnare una linea contrappuntistica che, con le sue dissonanze, svolge il ruolo di punto di rottura nella trama sonora del vestito musicale che Greenwood cuce intorno al film.
Inoltre pur assecondando l’eleganza del lavoro di Anderson, non rinuncia, quando necessario, a pezzi meno classici e maggiormente attraversati da tensioni contemporanee come la struggente e sospesa progressione per quartetto d’archi e piano di Alma, le dissonanze di Barbara Rose e il serialismo pianistico (affidato alle dita dello stesso Greenwood) di I’ll Follow Tomorrow. Né mancano episodi come House of Woodcock, Endless Superstition e For The Hungry Boy in cui Greenwood gioca a rifare a suo modo i grandi standard orchestrali degli anni cinquanta.
Quello di Greenwood è dunque, alla maniera dei primi grandi compositori, un lavoro insieme di artigianato e d’ispirazione artistica capace di mostrare ancora una volta la sua straordinaria poliedricità messa con umiltà al servizio del lavoro altrui. E, per una volta, il ritardo con cui il film sarà distribuito in Italia diventa occasione per scindere le musiche dalle immagini e immergersi completamente nella pura dimensione musicale.