Nell’ultimo anno si è fatto un gran parlare di Jonathan Bazzi e del suo Febbre, edito da Fandango. Classe ’85, nato e cresciuto a Rozzano, è arrivato in finale al premio Strega 2020, ha vinto il premio Bagutta opera prima e il suo è stato il libro dell’anno per Fahrenheit Radio Tre. Premiato, celebrato, ben venduto. Il romanzo di Bazzi è un esordio di rara potenza emozionale, un unicum in un panorama letterario che tende a ripetersi, che alle volte pare incapace di trovare vie alternative e veicoli narrativi inesplorati. Febbre è il racconto epico di un’esistenza che dalla mera sopravvivenza vuole farsi Storia. Troppo grande per essere ignorata, non può passare inosservata, sotto silenzio: c’è e merita di trovare il suo posto nel mondo. Bazzi si fa spazio, con le unghie e con i denti strappa il velo di Maya su cui tutti, o quasi, stiamo appollaiati. E per questo non va giù. E per questo non piace. E per questo spesso è diventato carne da macello per i tastieristi social; specie nel periodo successivo alla proclamazione della cinquina dello Strega: il frocio, quello sieropositivo, che in finale non doveva arrivarci, che ha scippato il posto a una donna, che non sa scrivere, che è miracolato.
Bazzi porta con sé, in sé, un’innovazione che non è esclusivamente letteraria. È l’uomo nuovo. Rappresenta una generazione che ha deciso di scavalcare i confini imposti dalle precedenti, cancellare quelle linee di demarcazione che adesso vanno strette, sciogliere e rimescolare tutto. Ne abbiamo parlato con lui.
Cominciamo dai fondamentali. Tre parole per descrivere gli ultimi mesi?
Prodigiosi, sismici, istruttivi.
Quanto ha pesato il silenzio della tua famiglia? Senti che la tua vittoria, perché di una vittoria si può parlare, e la felicità che ne deriva siano in qualche modo mutilate?
Diciamo che, ormai da tempo, sono passato dalle aspettative (soddisfatte/frustrate) all’osservazione. Non ci sto male, non più. Ogni dinamica familiare ha un senso, è il frutto di una storia, di una sovrapposizione di esperienze. Mi soffermo su quello, sulla nostra storia, su come risuonano in me le tracce di questa appartenenza, la catena ereditaria dei traumi, i silenzi. Bado a quello, sposto l’attenzione sulla forma narrativa ed emotiva condivisa. E no, non penso che la mia vittoria sia stata mutilata, anche perché, se non avessi avuto la famiglia che ho, Febbre non esisterebbe. Io sono la mia famiglia, le sue mancanze sono le mie mancanze, le sue colpe sono le mie colpe.
In tal senso, tu parli di “regolazione affettiva in autonomia”, ma immerso in un fiume in piena di emozioni questa regolazione com’è stata possibile?
Ma infatti la regolazione affettiva in autonomia, ovvero solitaria, è sempre complicata, disfunzionale. Regola ben poco. E lo è soprattutto quando accade da piccoli, durante l’infanzia. Il fatto di esserci trovati a spiegarci, motivarci gli eventi da soli, a elaborare risposte solitarie all’ambiente e agli eventi – senza un sostegno esterno solido, stabile – credo sia qualcosa che imprime il suo marchio a lungo, forse per sempre. Quindi no, non sono un grande esperto di regolazione affettiva, anzi spesso le mie reazioni sono irregolari, spropositate. Come sanno bene le persone che mi circondano.
Il frocio. Quello sieropositivo. Che in finale non doveva arrivarci. Che ha scippato il posto a una donna. Che non sa scrivere. Che è miracolato. Ti è stato detto di tutto; poca critica al romanzo e tantissima – a volerla chiamare critica – alla tua persona. Cosa ha scatenato questo livore? È la pura, semplice diversità che spaventa?
Ti confesso che ho smesso di scrivere articoli (attività con la quale mi sono mantenuto per anni, collaborando con magazine e testate online) perché ero stufo delle polemiche, della violenza, dei flame. Pensavo che dedicandomi solo ai libri sarei stato più tranquillo. Non è andata così. Evidentemente, come si dice alla fine delle relazioni, “non sei tu, sono io”. Qualsiasi cosa faccia, presto o tardi, il clima si accende. Credo sia dovuto al fatto che non amo onorare lo status quo, i parametri entro i quali, bene o male, molti sentono di doversi muovere. Mi piace tracciare sentieri nuovi, disobbedire, e nel farlo non sento affatto di essere aggressivo, eppure le risposte a volte hanno quella intonazione lì. Il mio modo di procedere risulta provocatorio, a qualcuno dà sui nervi. Di recente ho letto un commento di una tizia che diceva: “Quanto vorrei che Jonathan Bazzi sparisse dalla faccia della terra”.
Ogni anno allo Strega infuria la polemica. Scelta la vittima sacrificale, lettori e mestieranti si scagliano contro uno dei finalisti. Quest’anno è toccato a te. Come hai gestito la pressione?
Ho bloccato un po’ di persone sui social, e non ho mai risposto ai post e ai tweet contro di me. Sui social è così: se non alimenti il rogo, quello, tempo dodici, ventiquattro ore al massimo, si spegne da solo. Picchi e crolli, continui. Però ho anche imparato molto: su quanto in basso le persone sanno arrivare, su quanto incapaci siamo di distinguere la nostra frustrazione – la nostra vita non ci piace, il nostro amico è stato escluso dalla cinquina, vendiamo poche copie… – dalle responsabilità altrui. E in questi casi essere gente di cultura, intellettuali, giornalisti, scrittori, non cambia niente. La coscienza può restare piccola piccola, anche se si conoscono un po’ di parole in più o si sanno incatenare costruzioni sintattiche più evolute.
“Essere all’altezza, non deludere le aspettative”, dici in un articolo sullo Strega. Ma all’altezza di cosa? Le aspettative di chi?
Aspettative miei e degli altri. Del fallimento la cosa che mi preoccupa di più è il riverbero su chi mi sta intorno. In particolare per il Premio Strega, che è una gara non solo tra autori, è una dimensione corale, nella quale ognuno – case editrici, agenti, lettori – porta le sue speranze, le sue paure. In alcuni momenti ho un po’ patito il fatto di assorbire facilmente i vissuti degli altri, anche quando non verbalizzati in modo puntuale. Poi io sono balbuziente, e questo, in un senso più pratico, certo non mia ha reso le cose più facili. Per fortuna ci sono le birre.
Nello stesso, hai battuto sul fatto che non sentissi mai niente. Parrebbe quasi che tu sia riuscito a viverlo retrospettivamente, lo Strega. Nell’elaborazione del ricordo. È così?
Io ho questa dote, che è un po’ un superpotere: nelle situazioni di grande stress, o proprio paura, mi anestetizzo. Sento poco e divento anche piuttosto efficiente. Poi magari rimango tramortito e ci metto due giorni a riprendermi, ma mi stupisce sempre come i climax del timore lascino intatte le mie facoltà. È una fortuna, perché sono uno molto ansioso, molto timoroso, se non si creasse questa sorta di spontanea diga interiore, non riuscirei a fare nulla. Quando scrivo che non sento niente, in realtà non voglio dire che non ci sono o non ci sono stati vissuti affettivi, ma che restano ad agire un po’ al di sotto della soglia di consapevolezza, o che fanno capolino solo in modo intermittente.
C’è uno scontro in atto, a mio avviso, tra chi crede che il reale sia determinato da regole ferree traducibili solo tramite il codice dominante e chi che ognuno possa costruire il proprio mondo seguendone uno personale. Sei parte di questo scontro. A cosa ci porterà?
Spero ci porterà verso un mondo con meno copioni da rispettare. Pure il patriarcato, il sessismo, sono deleteri anche semplicemente da questo punto di vista: ripetono sempre gli stessi schemi, non ci sono sorprese. Sono orizzonti mentali pedanti, stagnanti. Assolutamente privi di creatività. Io sono uno che si annoia in fretta, e anche per questo prendo posizione contro i modelli dominanti e gli stereotipi: amo le folate di vento, le irruzioni impreviste. Ma sono piuttosto fiducioso: il futuro sarà più libero. E la libertà per me è questo: poter esaudire tutti i desideri che non fanno del male agli altri. Sembra banale, ma in realtà ci precludiamo un sacco di strade senza motivo.
Conteniamo moltitudini, quindi? Fatti di una pasta che si modella seguendo le esperienze della vita, cambiamo ogni giorno? O piuttosto credi che la mancanza di identità nette sia un eterno rifiuto a prendere qualsiasi forma, come fossimo diacronicamente aeriformi?
Di base credo che le persone possano essere molte più cose di quelle che credono. L’educazione e lo sguardo degli altri ci blindano. Poi ognuno ha il suo rapporto con il cambiamento e la stabilità. C’è chi cambia più volentieri e chi meno. Per anni io ho fatto fatica a fermarmi, a rimanere su un solo campo: ho studiato arte e musica, poi la filosofia, lo yoga… La scrittura era uno dei tanti interessi. È diventata prioritaria nel corso del tempo, quando ho capito che mi permetteva di tenere insieme due parti di me che in diversi periodi ho faticato a conciliare: l’indole analitica, linguistica, e l’amore per le forme, le immagini. Però rimango un non purista: anni fa, mi sono ritrovato da subito nelle parole che Baricco usa per descrivere quelli che lui chiama i barbari. Più che sprofondare in un unico terreno dell’esperienza a me interessa congiungere esperienze diverse, magari esperienze che fino a quel momento erano ritenute distanti o incompatibili. Tengo più alla traiettoria che alla singola posizione. Da questo punto di vista mi sento figlio del mio tempo: le supposte storture della contemporaneità sono anche le mie storture, e col passare degli anni ho smesso di giudicarmi per la mia scarsa capacità di rispettare degli standard tradizionali – di vocazione, durata, produttività. La nostra epoca mi piace.
Da Rozzano allo Strega. La tua scrittura ne risulterà influenzata? E Jonathan in che modo si è modificato?
La scrittura credo venga influenzata da tutto, poi determinare di preciso il modo in cui viene influenzata è più complicato. Sicuramente in questi mesi dello Strega ho fatto fatica a scrivere, e ancora oggi, mentre rispondo a queste domande, sto continuando a rimandare la riapertura del file del nuovo libro. Febbre è stato davvero un piccolo miracolo: è ancora parecchio vispo in libreria e sui social, lo sto continuando a presentare, dal vivo e online. Questo è meraviglioso, davvero meraviglioso, ma fa sì anche che la mia testa sia ancora tanto lì, non c’è stato un vero e proprio stacco. E io ora ho bisogno di guardare avanti. Infatti – con un po’ di rammarico – ho deciso che farò solo ancora qualche presentazione e poi mi fermo, tanto ormai se n’è parlato un bel po’, l’ho accompagnato nel mondo abbastanza. Il contatto dal vivo coi lettori lo recupererò poi, col prossimo libro.
Foto, courtesy of Jonathan Bazzi