Nel 1979 Björn Borg vinceva il suo quarto torneo di Wimbledon consecutivo, confermando un momento di forma strabiliante. E per parecchio tempo, in questo sobborgo a Sud-Ovest di Londra, è stato questo l’unico evento degno di nota per quell’anno. In realtà proprio nel 1979, non molto distante da lì, emetteva i suoi primi vagiti un bambino che, con gli anni, sarebbe diventato “uno che conta” nel panorama elettronico londinese e non solo. Che sia uno capace, Jon Hopkins, ce lo ha spiattellato diverse volte in faccia da quando all’età di 22 anni dava alle stampe Opalscent (2001). Da allora in effetti sono state parecchie le cose degne di nota che il nostro ha potuto aggiungere al suo CV oramai di tutto rispetto, dalle partecipazioni/produzioni importanti (Coldplay e Brian Eno su tutti), ai remix di pezzi che vanno da Breath In dei Frou Frou a Angel Echoes di Four Tet, ai tour a fianco a gente del calibro di XX, Röyksopp e lo stesso Four Tet, il tutto condito dall’adozione a discepolo da parte di Brian Eno.
E poi Immunity.
Già perché, passato il momento Coldplayano, il figlioccio di Brian Eno, realizza un colpo di quelli che lasciano il segno. Attraversato da una coerenza stilistica degna del talento compositivo di Hopkins, Immunity è un album caratterizzato da due climax che si incontrano a metà strada; una vera e propria discesa nelle profondità più oscure con annessa risalita. L’album infatti parte con una We Disappear che immediatamente dà la cifra di ciò che si sta per ascoltare, con un ritmo che non fa nulla per mascherare la sua matrice techno su cui si distendono linee di synth acidi e distorti che creano un’atmosfera di tensione altissima. Tensione emotiva che non può che aumentare ulteriormente sotto i colpi incessanti dell’incedere marziale di Open Eye Signal . Breath this Air è una boccata d’aria fresca dopo i primi dieci claustrofobici minuti, anche se nel finale il ritmo che diventa man mano più incalzante dà presagio di quello che sarà la successiva Collider. Ed eccoci nel fondo del baratro. I 9’ abbondanti di Collider sono una vera e propria mazzata emotiva. I suoni sono stratificati a formare una coltre spessa, come un fumo denso ed irrespirabile, il tutto su una base techno che non molla dall’inizio alla fine e le voci campionate che appaiono qua e là, affogate tra gli strati sonori, sembrano quelle dei dannati di un girone infernale.
Quando il fiato si è fatto corto e spezzato e lo stomaco è ormai oppresso dalla morsa implacabile creata con una sapienza compositiva non comune, incomincia la risalita; le atmosfere infatti si fanno di colpo rarefatte con il piano in apertura di Abandon window, che è come un raggio di sole dopo un brutto sogno, spezzando così di netto la claustrofobia crescente della prima metà di questo disco. Infatti , anche quando si assiste al ritorno di ritmi un po’ più sostenuti con le successive Form by firelight e Sun Harmonics, le atmosfere distese allontanano tutta quella oscurità dell’inizio.
Per la chiusura nonché titletrack, il nostro, produce una vera e propria opera d’arte (nonché secondo apice del disco) segnata non solo dalla presenza del suo pianoforte, ma anche dalla partecipazione del già noto King Creosote (vd. Diamond Mine), la cui voce si integra perfettamente alle atmosfere create per descrivere la completa emersione. “Al fin uscimmo a riveder le stelle”.
Tracklist:
- We Disappear
- Open Eye Signal
- Breathe This Air
- Collider
- Abandon Window
- Form By Firelight
- Sun Armonics
- Immunity